Eccoli. Come ogni anno, vi consigliamo i titoli più interessanti (secondo noi) usciti negli ultimi dodici mesi. Speriamo possano ispirarvi e tenervi compagnia durante le feste, o trasformarsi in un bel regalo di Natale.
Questa volta la copertina d’accompagnamento è stata realizzata dalla nostra illustratrice Annachiara Mezzanini e si rifà all’immaginario de Il Maestro e Margherita; ma il quesito è questo: riconoscete i membri della redazione?
Giulia Bocchio
Il 2024 ha rappresentato per me un importante ritorno al racconto. Ho letto diverse raccolte, più o meno recenti, e tanti, tantissimi testi inediti. Due dei tre consigli di lettura di quest’anno andranno quindi in questa direzione. E poi c’è un’altra raccolta, ma di saggi.
Amo molto la sottigliezza di questa autrice, il modo in cui viviseziona i sentimenti e i gesti delle vite che abitano le sue storie, che sanno di neve e primavera, di polvere e stalla, di geloni ai piedi e erbe di fosso. Sette racconti interconnessi fra loro, in filigrana la natura, la sua mutevolezza che potrebbe sembrare ciclica superiorità ancestrale e invece semplicemente è. Sette versioni di quella vita che si consumava in campagna, fra gli animali, la pelle ispessita dal sole, le febbri dell’inverno, le ombre delle madri piegate dalle tante e dovute gravidanze: la vulnerabilità in cui ti getta il non sapere. Una predisposizione, quest’ultima, che Inès Cagnati abbraccia attraverso una scrittura limpida, la cui bellezza ha una caratteristica letteraria che raramente si trova in giro senza artifici retorici: la dignità.
Ho avuto il piacere di presentare questo libro a Testo Firenze: si tratta dell’esordio di Sara Marzullo. Cosa significa essere una ragazza, oggi? Dall’economia del capitale erotico alla continua reinvenzione commerciale delle pop star, dall’industria dell’autonarrazione all’onnipresenza del tema della “ragazza scomparsa”, il libro analizza e decostruisce gli archetipi e gli stereotipi che modellano l’identità femminile, influenzandone i comportamenti e l’educazione sessuale. Corpo, specchi, relazioni, lo sguardo altrui: la narrazione intreccia due dimensioni sempre disperatamente complementari fra loro, quella personale e quella collettiva: perché tanto Tumblr quanto Sofia Coppola ci ricordano che l’identità è trasformazione ma, anche, negoziazione.
Federico Riccardo, Tender (Edizioni Effetto)
L’ho detto, è stato l’anno dei racconti. Tender racchiude quel che genere di storie per le quali ho un debole da sempre: storte, disperate, squallide, senza redenzione, necessarie a inquadrare certe personali catastrofi esistenziali che poi la letteratura trasforma in universali. E forse empatizzo molto perché io e l’autore apparteniamo alla stessa generazione e ai traumi che questa si porta dietro. Ma c’è di più in questo libro, c’è l’amore carnale per la scrittura, la voglia di piegare il linguaggio sulla schiena dei protagonisti. E soccombere. Insieme.
Amore è anche il titolo del mio racconto preferito.
Annachiara Atzei
Jon Fosse, Ascolterò gli angeli arrivare (Crocetti Ed.)
Poeta è colui che cerca di scrivere ciò che solitamente, nel linguaggio parlato comune, non può essere espresso a parole. Così Jon Fosse racconta di aver provato a fare nella sua carriera di autore nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura lo scorso 2023. Ascolterò gli angeli arrivare (Crocetti Editore) è, infatti, una testimonianza del tentativo – riuscito – di non anticipare alcun significato, di non stabilirlo a priori ma di trovarlo per mezzo dei versi. In questa raccolta, il mistero circonda ogni cosa: qualcosa è e non è allo stesso tempo, tutto si confonde con tutto, ciò che è già stato si ripresenta mischiando i piani temporali. Le cose conosciute – i fiordi, le barche, i fienili, le case aperte dei piccoli villaggi rurali – sono lambite da una luminosità quasi sovrannaturale. Perfino gli angeli arrivano, evanescenti eppure evidenti: il loro rumore è come il rumore della neve. E, come la neve, scompaiono e tornano, sembrano non esserci ma sono ovunque. Forse, servono a rievocare gli assenti o sono il segno della loro immanenza. Forse, non sono altro che la metafora di ciò che si vuole dire ma che resta, appunto, indicibile, quasi sacro: “così sai che esiste/ l’incomprensibile/ che tutti comprendono/ perché ciò che è detto/ è sempre il contrario/ ma proprio allora esiste”, dice Fosse, come in ascolto di un messaggio che viene da lontano, da un angolo remoto e non visto del mondo abitato. I suoi testi sono essenziali e suggestivi. In queste poesie, ogni parola ha un peso specifico e così pure ogni ripetizione e ogni spazio bianco. Sono elementi distinti, eppure tra essi non c’è separazione, ma una dialettica continua, un movimento, un cammino degli uni verso gli altri. La parola fa come le cose: traccia percorsi indefiniti nei quali perdersi, sprofondare e riemergere in perfetta comunanza col tutto. È un esistere – o un non esistere – concomitante, quello narrato del poeta norvegese: “tentiamo solo noi stessi Felici Esausti Partecipi di/ una riconciliazione costantemente in corso// La riconciliazione del vento nel bosco/ Il mio stupore in te”. A ogni rilettura, il puzzle sembra ricomporsi o l’incognita svelarsi. Si cerca di trovare una risposta al dubbio, aggrappandosi a certe descrizioni rassicuranti, a immagini che riguardano tutti. Eppure no, il senso continua a sfuggire. Il mistero si mantiene intatto se il buio ha una luce, se i morti sono sempre con noi e se, mentre il nuovo arriva, qualcuno è ancora in ciò che era prima. Allora, perché non lasciare il mistero inviolato?
Elisa Biagini, L’intravisto (Einaudi)
L’intravisto sancisce definitivamente il legame viscerale dell’autrice con i luoghi e, in particolare, con i luoghi da lei amati. Ciò che i suoi occhi hanno visto, che le mani hanno toccato, che i passi hanno calpestato, qui non è mai descritto in maniera didascalica ma è restituito al lettore come una vera e propria immersione sensoriale ed emotiva. L’esperienza che l’autrice fa del mondo circostante le consente di coglierne i più piccoli dettagli e di farsi paesaggio a sua volta, mescolandosi con esso. Questa operazione di scoperta e riscoperta del fuori diventa punto di inizio per la reinvenzione umana e letteraria di sé e del vero. Tutto quanto è percepito, avvertito o colto nel rapporto dialettico con il reale è un modo efficace di esplorazione della propria interiorità e del corpo in ogni singola parte. Ecco, quindi, che le cose guardate e l’universo individuale cominciano a coincidere, mescolarsi e compenetrarsi fino a modificarsi a vicenda. Gola, pelle, cuore, voci, ossa e mignoli insieme a sassi, noccioli, neve e gradini smangiati compongono un universo interrogante che costringe a una reinterpretazione di ciò che è conosciuto. È a questo immaginario – i luoghi che si fanno corpo – che attinge l’ispirazione e la lingua sempre puntuale di Biagini. E anche se talvolta i silenzi e le attese rendono più difficile comunicare e capirsi, il tu al quale ci si rivolge non smette di essere riferimento, mappa che dà la direzione. Il dialogo diventa a tre e include l’essere umano oltre alle cose trasformando entrambi in varco di accesso alle proprie parti più nascoste. Sono tre, dunque, i cardini di queste poesie che appaiono quasi fisiche: il paesaggio, sé stessa e l’altro che, pur se narrati per frammenti e suggestioni minime, quasi si potessero scorgere appena, hanno il potere di suggerire una pluralità di ipotesi e di significati su quanto c’è, su quanto accade e su quanto ci riguarda.
L’ora senza ombre, AA.VV. a cura di In Allarmata Radura (Pidgin)
L’ora senza ombre sfugge alle catalogazioni. È un libro in cui si trovano accostamenti inediti: è una antologia, è un saggio narrativo, è un album fotografico. I testi che raccoglie al suo interno indagano tutti il sé: sono esplorazioni che attraversano ciò che c’è fuori per cadere a perpendicolo in una vicenda personale e poi esplodere nuovamente verso l’esterno. Sono una ibridazione di linguaggi che consente di allargare le vedute, offre nuovi punti di vista e mette in relazione la narrazione dell’io con discipline trasversali – che ogni autore mostra di conoscere e amare – che si tratti di autopsie, scacchi, architettura o poesia. Il mondo della letteratura, dell’arte o del cinema diventa il riflesso di un universo interiore complesso e in continua mutazione. È come parlare d’altro per parlare di sé, come immedesimarsi in qualcuno di diverso da noi in una successione di rimandi continui, che, se talvolta appaiono stranianti, d’altra parte hanno il pregio di trasportare il lettore in territori di confine spesso poco battuti ma comunque capaci di generare meraviglia. I contributi – selezionati dalla rivista In Allarmata Radura – sono opera di autori emergenti del nostro panorama letterario come Veronica Galletta, Ester Armanino, Francesca Mattei, Simone Sauza, Francesco Spiedo, Alessandro Busi, Fabiana Castellino, Deborah D’Addetta, Livia Del Gaudio, Aurora Dell’Oro, Leonardo Ducros, Antonio Esposito, Gabriele Esposito, Mario Emanuele Fevola, Maria Teresa Rovitto e Alexandrina Scoferta. Le foto – tutte in bianco e nero – che sono accostate ai racconti senza apparente comunanza di temi, sono di Mickaël André, Elide Blind, Barbara Cannizzaro, Francesco Dongiovanni, Pierclaudio Duranti, Tito Ghiglione, Claudia Jares, Sotiris Lamprou, Simona Nobili, Nadzeya Pakhotsina, Federico Renzaglia, Rowan Romeiro, Camilla Schmitt, Nicola Villa, Lulù Withheld e Oswald Wittower. Ma cos’è “l’ora senza ombre” e cosa ha a che fare questa citazione con la raccolta? È il mezzogiorno, l’ora che i greci consideravano la più temibile: “l’ora del sole allo zenit che spacca in due il tempo e libera i demoni dalla loro prigione d’ombra”. Luce e ombra, bianco e nero, giorno e notte, sono le due facce dell’io, i due estremi opposti dell’essere umano che si compenetrano e si riversano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. C’è solo un momento – come lo è il mezzogiorno – in cui si raggiunge un equilibrio, in cui sembra esserci una scissione netta dell’identità. Ma è solo una stabilità apparente e difficile da cristallizzare.
Elena Cirioni
Mircea Cărtărescu, Theodoros (Il Saggiatore, trad. di Bruno Mazzoni)
Difficile parlare di un libro quando lo si aspetta e lo si desideri da tanto, difficile parlare di un autore vivente contemporaneo che riesce a varcare i confini della letteratura e trascinarti nel suo mondo narrativo come finora hanno fatto solo gli autori classici, quelli che la storia ci ha consegnato. L’attesa di Theodoros, l’ultimo libro dello scrittore romeno Mircea Cărtărescu, tradotto dal professore Bruno Mazzoni, nel 2024 è terminata consegnandoci un romanzo mondo, narrato in seconda persona e con un protagonista, Theodoros, “un mortale che sogna d’essere Dio”. Non un racconto storico, ma un complesso e mitico affresco dove i confini storici si perdono nelle leggende e nell’immaginario dell’autore. Lo consiglio anche a chi non ha mai letto nulla di questo autore (e nel caso l’invito a scoprire tutti i libri di Cărtărescu è assolutamente consigliato), perché nonostante sia un libro complesso, dove spesso si deve interrompere la lettura per andare a cercare qualche data, o nome, è un’ottima porta per entrare nell’universo prodigioso di
Cărtărescu.
Ultima Generazione. Disobbedienza e resistenza climatica, (Tlon, a cura di
Francesco D’Isa)
A inizio anno il governo Meloni ha varato una legge per reprimere le azioni politiche di chi protesta per l’ambiente, nel mirino della legge ci sono le attiviste e gli attivisti di Ultima Generazione, chiamati eco-vandali e punibili con multe dai diecimila ai sessantamila euro e anche con la reclusione (fino a cinque anni di carcere) per le loro azioni non violente.
Chi sono gli attivisti di Ultima Generazione? Francesco D’Isa ha raccolto le loro storie nel libro, Ultima generazione disobbedienza e resistenza climatica edito da Tlon, un manifesto composto da voci, età, esperienze diverse, tutte unite dalla voglia di agire nella speranza di salvare la nostra specie.
Laura Pugno, Noi senza mondo (Marsilio)
Sempre sulla salvaguardia della nostra specie si muove l’ultimo romanzo di Laura Pugno, Noi senza mondo, che parte dall’esigenza di ripensare la storia dell’umanità e del suo rapporto con la natura. Il romanzo traccia un percorso attraverso, libri, saggi antropologici e filosofici, poesie e aneddoti con la volontà di riscrivere non solo il rapporto con l’ambiente e con la natura, ma anche il nostro atteggiamento verso la lingua e la letteratura.
Serena Votano
Neige Sinno, Triste tigre (Neri Pozza)
Si tratta di un libro in cui, leggendolo, ho avuto la sensazione di avvicinarmi sempre di più alla natura corrosiva del male. Non è un diario, non è una confessione. Neige Sinno, scrittrice francese di 47 anni, ha composto una testimonianza, un’opera che parte dal percorso autobiografico e va oltre l’indicibile trauma, oltre il ricordo della sua famiglia e la verità giudiziaria. Ci sono voluti vent’anni per scrivere Triste tigre, romanzo vincitore del Premio Strega Europeo 2024, tradotto da Luciana Cisbani. È la storia degli abusi subiti quando era bambina a opera del suo patrigno, più o meno dai sette ai quattordici anni. Nel 2000 prende la decisione di denunciarlo, insieme alla madre. In questa ricerca della verità per il lettore sarà impossibile trovare una ragione all’incesto, né il leto fine seguito dall’equilibrio di una vita normale, la stessa autrice scrive: «È come se sentissi che esiste il pericolo di perdermi in questa ricerca di una verità che ho già così tanto cercato e che so essere di natura sfuggente». Sinno riesce a raccontare questo percorso in modo distaccato (per quanto possibile), scavando nei ricordi dell’esperienza anche attraverso il punto di vista del carnefice, si affida alla letteratura e al silenzio. Lo stesso silenzio che l’ha avvolta negli anni degli abusi, imposto dal patrigno e poi autoimposto per non intaccare il legame di quel finto amore familiare. E poi la stessa letteratura (Nabokov, Woolf, Ernaux) fatta di realtà e finzione. Così come i libri diventano per lei un rifugio dalla sua alterata quotidianità, allo stesso modo la scrittura si realizza essere non uno strumento di cura ma di risposta al silenzio. Per l’autrice raccontare non basta. Analizza, viviseziona il passato, si guarda dentro e osserva il Paese delle Tenebre che non l’abbandonerà mai.
Edoardo Vitale, Gli straordinari (Mondadori)
Ho un pessimo rapporto con il lavoro in generale ma esserne consapevole non mi è esattamente
d’aiuto: sono campionessa in salto del pranzo e collezionista di straordinari non autorizzati. È per
questo motivo che quando mi sono imbattuta ne Gli straordinari, esordio di Edoardo Vitale, ho riso, riso, riso, amaramente. «Era come una gara a chi abbandonava per ultimo la propria postazione. Non bastava essere puntuali e portare a termine il lavoro quotidiano. Per una legge non scritta le parole chiave erano abnegazione, devozione, spirito di sacrificio.»
Voce narrante del romanzo è Nico, il direttore creativo di un’agenzia che si occupa, sostanzialmente, di supportare le aziende nel diventare più etici e attenti all’eco-sostenibilità, o per meglio dire “più green”. Condivide questo lavoro con Elsa, sua compagna da sempre. Il successo scandisce la loro quotidianità: hanno sacrificato così tanto di loro stessi che non sanno nemmeno quale sia la loro missione nella vita, semmai ne hanno avuta una. Una cosa su cui ho iniziato a riflettere nell’ultimo periodo è che il lavoro pretende da un dipendente una certa flessibilità: non esistono orari, le urgenze si sovrappongono tra di loro, potresti non ricevere una risposta ma guai se a non rispondere sei tu… Ma il mondo fuori quando la restituirà questa flessibilità? Non esistono palestre, piscine, supermercati, negozi notturni. Né possediamo il dono di poter vivere anche quando dovremmo dormire (e magari facciamo pure fatica a prendere sonno). Non possiamo essere “straordinari” in questo senso. Dunque come uscirne? Io sto ancora cercando una risposta, ma Gli straordinari mi ha dato modo di riflettere su quanto di noi diamo al nostro lavoro e quanto o cosa riceviamo in cambio. Pagine di distopia, consumismo, angoscia umana. Consigliato a chi rincorre l’irrefrenabile carriera ed è ormai certo di essersi condannato a una corrosione esistenziale.
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio)
Sono cresciuta in un paese di pochi abitanti e tutti, per un motivo o per un altro, mi ricordano Angela, madre dell’autore Antonio Franchini. Il fuoco che ti porti dentro non è un memoir, ma un romanzo sul veleno, sul rancore che questa donna si è portata dentro fino alla morte.
«Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza.» L’autore inizia a parlare di lei dalle caratteristiche fisiche, poi caratteriali e dunque delinea il rapporto che ha con gli altri: Angela è una donna dai tratti tipici meridionali, è imprevedibile, violenta, litigiosa, pessimista, razzista, piena dei luoghi comuni. All’inizio ho scritto di aver pensato spesso al paese in cui son cresciuta durante la lettura di questo romanzo. Immaginavo tutte le Angela della mia vita che, come “la talpa” (il suo soprannome durante gli ultimi anni della sua vita), si nascondevano dietro le serrande per osservare tutto ciò che accadeva sulla strada senza farsi notare. Come se la vita in piazza fosse più interessante di una fiction in tv. Guardare gli altri per non guardarsi dentro, e continuare a bruciare. Angela è una madre-vulcano che non risparmia nessuno e che con quel fuoco che si è portata dentro ha bruciato tutti gli affetti, e se stessa. Di figli e figlie che scrivono romanzi sui propri genitori è piena la letteratura, quasi quanto il numero degli autori che hanno detestato la propria famiglia. Ma Franchini vuole comprendere questa donna dal carattere impossibile, dunque ha provato a raccontarla come personaggio senza nascondere odio e difetti e al contempo redimerla dal suo malamore.
Francesco Marangi
Paolo Sortino, Demone Custode (Polidoro Ed.)
Paolo Sortino scrive un’autobiografia allucinata, furente, e con una lingua cannibalesca, istintiva, ci trascina in una dimensione altra, dal sapore novecentesco, un romanzo che non ha paura di confrontarsi con i grandi temi, amore e morte, rinascita. Un romanzo che è anche un manifesto vero e proprio, nel quale Sortino denuncia la mediocrità dell’ambiente letterario e dello spettacolo. Un’invettiva spietata, dal tono ironico e tagliente. Attraverso la sua esperienza diretta Sortino si assume l’ingrato compito di scuotere le coscienze, ragionando sull’essenza stessa dello scrivere, come sfida al futuro, forse quella gloria agognata di cui parla Giuseppe Berto nel suo Il Male Oscuro. La letteratura ha ancora la forza di agire sulla realtà, cambiare le cose? Può ancora l’arte in generale proporsi come modello e strumento di comprensione del mondo?
Jacopo Iannuzzi, White People Rape Dogs, (Einaudi)
Un lucido delirio, il racconto di un gruppo di amici che si muove senza meta per una provincia innominabile, una provincia che diventa tutte le province e altro, un universo popolato da personaggi perduti, soli e in cerca di uno scopo. Squarci di colori selvaggi, accenni di un ultraterreno ormai scomparso, sepolto sotto montagne di spazzatura, ciminiere, grandi città e strade deserte, boschi, la morte di Dio e le possibilità del vuoto. Qui l’uomo e la bestia si confondono, e solo i protagonisti del romanzo hanno la grandezza di dedicarsi alle visioni, alle profezie inutili, come angeli senza futuro e con un passato da dimenticare.
Thomas Bernhard, Autobiografia (Adelphi)
L’Autobiografia di Thomas Bernhard. La sintesi finale, l’estremo tentativo di annientamento, di estinzione, per morire come uomo e rinascere personaggio, trasformarsi in finzione, in opera d’arte, il sacrificio più grande. Il ritratto di un artista geniale e il racconto di una vita dedicata alla letteratura, all’inconoscibile, all’assoluto.
Giulia Oglialoro
Mahmoud Darwish, Con la lingua dell’altro, (Portatori d’acqua)
Tra le letture di quest’anno, ce ne sono tre che si impongono con una luce particolare. Non solo o
non tanto per la bellezza della scrittura, ma proprio per la magica stranezza che irradiano. Il primo di questi è Con la lingua dell’altro, tradotto e curato da Francesca Gorgoni: si tratta della lunga, complessa e a tratti conflittuale intervista che la critica israeliana Helit Yeshurun rivolse al poeta palestinese Mahmoud Darwish. Pubblicato originariamente nel 1986 sulla rivista di poesia “Hadarim” (“Stanze”), questo dialogo colpisce innanzitutto perché non ha assolutamente niente della classica intervista: Yeshurun non prova neanche per un attimo a discernere tra biografia e
opera, tra il Darwish poeta e l’uomo il cui villaggio venne distrutto nel 1947, che a soli sei anni
dovette fuggire in Libano, e poi ancora al Cairo, a Tunisi, a Parigi. Non ci prova perché lo stesso
Darwish ha sempre trasformato in poesia quel che gli è accaduto, senza indorarlo, senza ridurlo in cronaca, ma come presagendo che accanto alla vita evidente e concreta ne scorresse un’altra, più inafferrabile e interiore, ed è a quel flutto, a quel canto notturno che Darwish ha prestato voce. Alle domande di Yeshurun, che lo interrogano sulle prime ingenue poesie d’amore così come sulla visione della Storia, sulla vita durante l’occupazione ma anche sulla metrica dei suoi versi, il poeta risponde con pagine ariose e insieme schiette, di una sincerità sconcertante. La conversazione si svolge in ebraico, la prima lingua straniera di Darwish, la lingua in cui ha parlato «con il poliziotto, con il dirigente militare, con il maestro, con il secondino, con l’amata», la lingua della violenza ma anche delle prime scoperte letterarie, «la lingua della memoria della mia infanzia». Il genocidio in corso a Gaza impone di ascoltare le voci dei palestinesi, ma nelle parole di Darwish, capaci di tenere insieme contraddizioni brucianti, c’è una lezione che riguarda ogni uomo in ogni tempo, in ogni circostanza storica: «io non so io» dice il poeta, «se la mia identità non ospitasse uno straniero non potrei conoscermi… Se fossi solo, senza l’altro, cosa potrei mai capire?».
Gianna Manzini, Ritratto in piedi (Mondadori)
Leggendo l’ultimo e splendente romanzo di Gianna Manzini, viene il sospetto che molte eccellenti
scrittrici del Novecento non siano state silenziate solo in quanto donne, perché per il ‘canone’ la
loro parola valeva meno, ma anche perché nei loro libri proponevano una mascolinità diversa e
quasi oltraggiosa rispetto a quella che di solito si racconta. Il padre di Ritratto in piedi ha ben poco da spartire con i soliti archetipi, non è né un Maestro né un Tiranno, uno che si odia o a cui si deve tutto: è un anarchico, e anarchico è il modo in cui la figlia sceglie di ritrarlo, usando una lingua antica e altissima, ricca di aggettivi desueti, sintassi brevi e del tutto insolite – non per il gusto di stupire il lettore, ma proprio per rifare tutto da zero, per consegnare sulla pagina un uomo sensibile e sfuggente, che non voleva imporsi ma disperdersi nella collettività, che detestava il potere in ogni forma e spesso non si sentiva all’altezza dell’intelligenza della figlia. Non è un caso che questo libro così personale e destabilizzante sia stato pubblicato per la prima volta nel 1971, all’indomani delle rivolte studentesche, e che risulti ancora così attuale, proprio oggi che di nuovo facciamo i conti l’autorità, e non ne possiamo più né di maestri né di tiranni, in letteratura e non solo.
Arianna Giorgia Bonazzi, Dizionario segreto d’infanzia (Topipittori)
«Ogni riferimento a persone esistenti o fatti reali è puramente bugiardo» dice Arianna Giorgia
Bonazzi in apertura del suo Dizionario segreto d’infanzia. Una specie di autobiografia verbale,
appassionata e divertentissima, che ha il pregio di non guardare all’infanzia con nostalgia, quasi
fosse un giardino beato ormai perduto per sempre: questo semmai è il vizio di chi l’infanzia, con le sue esplosioni immaginifiche, il tempo dilatato, le scoperte e le emozioni che smarginano l’una
nell’altra, non ricorda nulla. L’autrice ci restituisce invece il sentimento di “un’epoca geniale”, come la definiva Bruno Schulz, in cui le parole viaggiavano sganciate dal loro significato, e accendevano mondi. E così il vicino di nome Luciano era un uomo-talpa che si mostrava solo all’alba, Cervinia «un bosco di terra e d’oro» a cui si arriva soltanto con un treno pieno di cervi, e l’adulterio «il peccato di diventare adulti». Bonazzi, che è anche una superba scrittrice per bambini e ragazzi, sa che per raccontare il mistero che accade nei primi anni di vita servono le parole più spurie e personali che abbiamo, servono il dialetto e il nostro lessico famigliare, tutte quelle espressioni che crescendo ci hanno corretto o rigato di rosso, e che invece, «come piccole splendide cose, ci tengono agganciati alla nostra vita interiore, dentro alla corrente avversa che vuole strapparci da noi».
Mauro Massari
Paul Celan, Poesie (L’orma)
Celan giocatore di serpenti, Celan giocatore di morte. L’Orma restituisce la biografia oscura, in poesia, di un uomo crocifisso dagli orrori per la vita. Pagine da leggere, decifrare e leggere ancora. Dall’abominio nazista, nodo in gola inestinguibile, alle donne sussurrate; dalle passioni distillate, agli amori bruciati, scivolando sulle pareti del cuore. I fiori secchi, e la memoria, di un uomo accarezzato dalle tragedie. Fino al buio, fino alla Senna che lo trascina, lontano.
René Crevel, La morte difficile (Ventanas)
Un surrealista che accende fiammiferi in una stanza buia. Pagine di dolori tutti da accarezzare, con un tocco di modernismo che profuma d’avanguardia. Lunghi monologhi che si rincorrono, pezzi di un puzzle caotico, che danno l’idea della figura intera solo a lavoro terminato: tutto sotto il cielo di un amore confuso e famelico.
Georges Simenon, La porta (Adelphi)
Una visita guidata nel luna park delle ossessioni, un lungo giro di giostra che non prevede cintura di sicurezza. Simenon è un genio. Un po’ Kubrick, asfissiante, un po’ Butor, meticoloso detective delle insicurezze. Finto questo libro ci toccherà stenderci di lato, accanto al nostro compagno o alla nostra compagna, chiedendoci se davvero conosciamo la persona che si addormenta ogni notte al nostro fianco. Il finale è un incubo ad occhi aperti che spezza il cuore e sbriciola tutte le certezze.
Annalisa Grulli
Pier Paolo Di Mino, Lo splendore. L’infanzia di Hans (Laurana)
Un viaggio nella letteratura e nell’immaginazione, dove la vita dei personaggi che hanno
portato alla nascita di Hans cela un messaggio dell’autore sul mondo. Un grande romanzo dove la narrazione riesce a stupire senza ingannare.
Anna Burns, Amelia (Keller)
Una ragazza e un Paese che soffrono. Il male della giovane Amelia sembra il reportage attraverso il quale Anna Burns ci racconta l’Irlanda paralizzata e il corpo come unico rifugio.
Kelly Link, The book of love, (Mercurio)
La sorprendente narrazione di Kelly Link dove amore e morte sono misura e confine di ogni esistenza giovanile, anche nella dimensione più magica.
Giorgio Castriota Skanderbegh
Shelley Jackson, Riddance (Rina edizioni)
Lettere, diagrammi, manoscritti ritrovati: così emerge la storia deliziosamente weird dell’Istituto Professionale Sybil Joines per Portavoce di Fantasmi e Giovani dalle Bocche Udenti, dove bambini balbuzienti, impediti nella regolare comunicazione e spesso strappati a vite di povertà, vengono addestrati a usare le loro particolari vocalizzazioni per entrare in una dimensione astratta nella quale è possibile comunicare col mondo dei morti. Le Terrebocca, un mondo che si costruisce con le parole della propria stessa definizione, e nel quale il parlante è demiurgo. Il viaggio linguistico all’interno della coscienza della stessa Joines, della pseudoscienza primonovecentesca, e del paranormale si dipana davanti al lettore in una prosa coinvolgente e accuratissima, resa in italiano da Valentina Maini.
Claudia Lanteri, L’isola e il tempo (Einaudi)
Onofrio, detto Nonò, è il figlio dotato di un’isola meravigliosa e cruda, spietata con chi resta e con chi se ne va. La vispa curiosità del bambino viene per sempre infiammata dal destino di una famiglia, apparentemente persa in mare dopo un incidente in barca. Ma è veramente così? Nonò non può crederci, e allora racconta, e racconta ancora, e racconta di nuovo, ma i particolari mutano, si mescolano, cambiano posto nel tempo e nello spazio. Il mistero degli scomparsi in mare procede sotto l’ombra del mistero più grande, quello delle dimensioni della solitudine, grande come l’isola che la contiene. Non è importante, eppure è vitale. Claudia Lanteri esordisce con potenza e consapevolezza, e uno stile vivace e commovente che segue coscienze incomplete e informali.
Alan Moore, The Great When: Il Grande Quando (Fanucci editore)
Maestro dalla penna da incubo, scrittore di ossessioni, di grandi catastrofi e di meschinità personali, Alan Moore ritorna al romanzo con il primo titolo di una prevista pentalogia. Dennis Knuckleyard è solo un bambino quando viene sorpreso dai bombardamenti tedeschi a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale; mentre il quartiere intorno a lui viene appiattito, Dennis non può fare altro che nascondersi e chiudere gli occhi. Quando finalmente le bombe tacciono, almeno per il momento, il bambino ritorna in strada e vaga in cerca di punti di riferimento, sordo e in lacrime. In uno dei pochi archi rimasti in piedi, nella semioscurità, una figura che non dovrebbe appartenere a quell’epoca si guarda intorno atterrita, e incrocia per un attimo lo sguardo del bambino: questo è il primo incontro di Dennis Knuckleyard con l’altra Londra, la Londra nascosta, dove vigono altre regole, dove comandano altre creature. Anni dopo, ormai diciottenne, Dennis lavora come garzone in una libreria di testi ricercati, e ha dimenticato quell’episodio; tuttavia, un bizzarro incontro e un libro che non esiste lo catapulteranno di nuovo in una dimensione in cui sogno e incubo sgomitano per avere la meglio. La fantasia inesauribile di Alan Moore si unisce a uno stile pulp novecentesco perfettamente replicato, che gode di un umorismo di fondo che condisce ogni descrizione.
Maria Oppo
Dario Voltolini , Invernale (La nave di Teseo)
Invernale è semplicemente il libro di una vita, la trasposizione perfetta di un dolore intrasponibile. Una prosa magistrale, frasi brevi e taglienti come le lacerazioni che innescano la sua storia e tracciano una disperazione antica eppure rassegnata, dignitosa. In cinquina al Premio Strega, non ha vinto e forse era necessario così.
Ottessa Moshfegh, McGlue (Feltrinelli)
La traduzione è di quest’anno, ma il romanzo di Moshfegh – l’unico a non essere stato ancora trasposto in italiano – è stato pubblicato dieci anni fa, nel 2014. Una messa in scena dell’umanità più nascosta e relitta, una parabola narrativa (sorprendentemente matura, per essere un esordio) che intaglia e fa vibrare tenacemente i bordi del reale. Cos’ha fatto, dunque, McGlue? Ma più di tutto: cosa gli è stato fatto, davvero?
Mattia Tarantino, Se giuri sull’arca (Fallone editore)
Con quella voce poetica che è unica e tenacemente sua, Tarantino ci porta con sé a bordo di questi suoi versi antichi, tratteggiando con eloquio perfetto una realtà imperfetta, certo, pericolante, eppure a tratti spettacolare. Un poemetto dal forte valore simbolico che lascia il lettore con qualche significato in più per la parola cura.

