Di Giulia Oglialoro
Leggendo Gianna Manzini, viene il dubbio che la materia prima dei rapporti umani sia l’incomprensione. Non conosceremo mai le persone che abbiamo accanto – potremo coglierne soltanto lampi, approssimazioni, meri profili luminosi, mentre il resto sarà sempre precluso nell’ombra. Proprio di questa incomprensione, di questo scarto inconoscibile racconta Ritratto in piedi, penultimo e splendente romanzo dell’autrice pistoiese, edito per la prima volta nel ’71 e da poco ripubblicato da Mondadori. Incentrato sulla figura del padre anarchico, morto di infarto nel 1925 in seguito a un’aggressione fascista, Ritratto in piedi ricevette il Premio Campiello e il plauso pressoché unanime della critica, ma ciò non impedì che Manzini venisse presto esiliata dalla storia della letteratura recente. Un destino che toccò a moltissime autrici italiane del Novecento – a parte poche incredibili eccezioni –, una massiccia opera di relegamento sugli scaffali a cui piccole e grandi case editrici stanno lentamente cercando di porre rimedio. Di Manzini, Rina Edizioni ha ripubblicato nel 2023 Arca di Noè, un incantevole «bestiario» dalla sensibilità panteistica, composto da ventidue racconti a tema animalesco. In uno di questi, La civetta, emerge già la figura del padre dell’autrice: «Ecco una cosa che non ho mai capito: che si potesse essere, come lui, innamorati della vita con un senso struggente di protezione, e insieme cacciatori». E nella scrittura viva, tumultuosa e tagliente di Ritratto in piedi risuona davvero l’urgenza di una battuta di caccia, come se l’autrice non potesse fare altro che avanzare in un bosco con i sensi all’erta e le armi spuntate, fiutando gli indizi di una preda che continuamente le sfugge. «Col fiato mozzo, provo, riprovo» scrive Manzini nelle pagine iniziali, «sento che il miracolo si annunzia nella possibilità di far coincidere il mio ritmo, con uno nascosto, lontano. Si tratta di stabilire un accordo fra due silenzi».
Ciò che la spinge a rievocare «finalmente» il padre, scrivendo il libro che ha rimandato tutta la vita, è proprio quel «silenzio» che la attende poco oltre la pagina, il semplice e angoscioso fatto che ormai «non c’è più tempo» – Manzini morirà solo tre anni dopo la pubblicazione del libro. Da questa «stanza in ombra», da questo punto estremo della sua vita può allora volgere lo sguardo verso l’infanzia – «che miniera, che labirinto, che nascondiglio, che trabocchetto, che prigione» – e lasciar affiorare la figura del genitore, con tutte le imperfezioni della memoria.

Chi cerca un’accurata biografia di Giuseppe Manzini, o una riflessione sull’anarchia o sull’antifascismo, resterà deluso: il romanzo è sì un «ritratto», ma di ispirazione quasi cubista, fatto di profili continuamente assommati, di semplici e intensi momenti che padre e figlia hanno trascorso insieme, in luoghi e tempi diversi, e che intersecandosi ci restituiscono non l’immagine fedele di una persona, quanto i sottili movimenti di un’anima: «la morte non verrà mai, forza inestinguibile dell’esser stati vivi un solo giorno». Gianna Manzini non dissemina fatti, date o documenti del padre, ma del padre lascia intuire l’integrità, la sfolgorante fiducia nell’avvenire, «una rapida festevolezza, quasi infantile, che irradiava e sorprendeva».
Così come irradiavano gli anarchici che cantavano per le strade di Pistoia: «Passavano. Quanti? Pochi. Trenta, quaranta. Ma l’ardimento li moltiplicava; e moltiplicava lo sventolio delle bandiere». I loro nomi si sono persi nel tempo, le loro vite spezzate presto, ma «appartengono alla storia; hanno questa fatale importanza. A dispetto di quelli che osano trovare il nostro mondo senza ragione, trottola che gira su se stessa, loro, gli anarchici, tracciano una linea decisa. Anni, secoli avanzano; e, nel presente, è già l’incandescente domani che palpita».
C’è qualcosa di favolistico nella scrittura di Manzini, l’impressione di una lingua arcaica e al tempo stesso mai sentita prima: una qualità che l’autrice esaspera al massimo grado in questo romanzo, come se sovvertire la punteggiatura e la sintassi, accordando ogni frase con parole esatte eppure nuove, sempre nuove persino per dire di avvenimenti piccolissimi, fosse davvero l’unico modo, l’incantesimo o la formula per attraversare il tempo, e incontrare il genitore perduto. Curiosamente, sono proprio le parole il punto più intimo di contatto fra padre e figlia: «Lo invitavo a sedersi di fronte a me, che stavo sulla seggiolina bassa; e mi piaceva ascoltarlo, tenendo i gomiti piantati sulle sue ginocchia. Disse qualcosa come: educare senza dominare». E ancora: «Non si rivolgeva proprio a me, bensì a un invisibile amico, ed era allora che mi rendeva maggiormente felice, perché mi sentivo come presente e ben accetta fra adulti». Una delle scene più toccanti è forse quella in cui camminano insieme per le strade luminose, e lui ha in mano dei fogli da portare in tipografia, fitti di parole pazientemente limate, parole da cui sarebbero scaturiti scioperi e rivendicazioni collettive, parole che dovevano servire a «svelare, rivelare, infiammare»; si tratta, per l’autrice allora bambina, di un’inconsapevole iniziazione alla scrittura, laddove non conta la bellezza o la graziosità dei discorsi. «C’entra il grado, la temperatura della propria convinzione. C’entra la certezza che uomini e uomini hanno bisogno di quella tua modesta e rivelante parola, perché loro stessi, avendola vagamente intuita, ne sono affamati e la aspettano da te. Da te. E questo si chiama scrivere.» Nessuno è perdonato per essere stato giovane, dice Marta Barone nell’ispirata prefazione al romanzo. E Gianna Manzini non si perdona neanche un attimo per aver sfilacciato i rapporti col padre, riducendo i contatti a una «misera letterina settimanale». Non si perdona per non aver compreso la sua solitudine durante il confino a Cutigliano, né per averlo dimenticato perché era ormai presa dai libri, dai concerti, dalla giovinezza che intanto fioriva. Ma se alla Manzini ragazza non fu nemmeno concesso di vedere il corpo del padre defunto, la Manzini scrittrice può invece stargli accanto negli ultimi istanti di vita, immaginando, nelle strazianti pagine finali, con accensioni visionarie e quasi bibliche, il momento dell’aggressione e poi quello immediatamente successivo, in cui si rimette in piedi, e desidera soltanto parlare di nuovo con la figlia. «Appena a casa, scrivo tutto. Non aspetto più. Gianna lo deve sapere. Lo deve sapere; che errore, certe reticenze fra padre e figlia.» Ed eccoli insieme, finalmente, con gli occhi fissi nel buio, riuniti in quella «stanza d’ombra» che è il punto più estremo della letteratura: «Rimango protesa, in ascolto, senza ripari di sorta».
In copertina: Gianna Manzini, Pasquale De Antonis, Roma 1960

