Di Annalisa Grulli
«Vorrei che proteggessimo tutto questo» dice Alessandra al marito Massimo nel film America Latina dei fratelli D’Innocenzo, uscito nel 2021 e presentato in concorso alla 78esima Biennale del cinema di Venezia. Massimo è un dentista, ha una moglie e due figlie, una villa nella periferia di Latina dove conduce una vita agiata. Il suo personaggio, per come è tratteggiato, non ha nulla da rivelare, eppure l’impressione che qualcosa lo ossessioni si percepisce sin dalle prime sequenze del film. Una mattina Massimo scende in cantina dove trova una giovane legata a un palo e imbavagliata: non sa chi sia, come sia finita lì e niente di ciò che farà riuscirà a evitare la catastrofe a cui sente di andare incontro. Alla fine del film la cantina di Massimo è invasa dall’acqua, la giovane viene salvata mentre moglie e figlie risucchiate dalla vera protagonista: la mente del medico. Per buona parte della sua vita Sisti ha fatto uso di droga e immaginato di essere altro, senza prendere mai in considerazione che fosse la sua mente a ingannarlo. È un film dentro il film fino a quando nei suoi vuoti di memoria si è innestata la realtà che poi lo ha distrutto.
Non ci sono personaggi ricorrenti nelle opere della generazione nata negli anni Ottanta ma meccanismi che si ripetono per evidenziare una questione, seria, alla base di questa massa di corpi che si muovono nel mondo: l’uso di droga o qualcosa che droga tanto da rendere gli individui prigionieri di una dimensione artefatta, ossessionate, l’esperienza trasformata in una corsa nel vuoto.
Se nel romanzo Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia (Einaudi 2009), i protagonisti vivono l’età della giovinezza durante i favolosi anni ’80, avvertendo la colpa del trauma senza evento che compromette molte delle loro esistenze; nelle opere della generazione successiva, come i fratelli D’Innocenzo, c’è ormai qualcosa di più compiuto nella perdita della realtà, dove la catastrofe esiste, la condivisione permessa dai media è assillante e la sostanza che alimenta l’ossessione è ovunque. Quello che ha restituito il decennio tra il 1980 e 1989 sono stati progresso, lavoro, una scorpacciata di diritti e una ricchezza che si sovrappone alla cosciente possibilità della sua durata; i prodotti artistici di coloro che sono nati in quegli anni sembrano voler comunicare un disagio, una malformazione sociale, troppo a lungo ignorata, e che ora è penetrata dall’esterno nella mente e nella carne.

Nel suo ultimo romanzo, Il male che non c’è, edito da Bompiani, Giulia Caminito (nata nel 1988) abbraccia la sua generazione, narrando il male che una mente istruita e cresciuta per produrre risultati può causare; il protagonista Loris è un aspirante editor presso una casa editrice di Roma, trentenne, laureato, vive in un appartamento a spese del padre perché il suo impiego, nonostante le ore alla scrivania, non gli permette di mantenersi. Il male di Loris è Catastrofe, le ha dato lui questo nome; lei è la personificazione delle sue paure e appare nei momenti dove il suo dolore diventa più forte. Catastrofe non è descrivibile: cambia aspetto a seconda dell’ossessione che Loris sperimenta a causa della sua ipocondria, in alcuni momenti lo deride, in altri sembra confortarlo. Il male di Loris è solitario e invisibile, la fidanzata Jo fatica a stargli accanto perché da quando sono insieme Loris è cambiato, di lui sembra non essere rimasto nulla.
Del suo passato Loris ricorda il nonno Tempesta, un uomo di campagna con cui da bambino aveva un rapporto esclusivo; non c’erano traumi nell’infanzia di Loris nonostante il nonno gli permettesse quella parte di esperienze che la madre riteneva rischiose, come il contatto con gli animali e uno stretto rapporto con la natura. Caminito contrappone e intreccia le storie di infanzia con il nonno e quelle da adulto come se volesse scavare nel passato di Loris alla ricerca dell’origine di Catastrofe; non può un dolore così radicato non avere un inizio ma, allo stesso tempo, il vissuto del protagonista sembra smentire questa ricerca perché Catastrofe è lui: «Dalla sua zattera sblocca lo schermo del cellulare e indossa le cuffiette, all’inizio pensa di ascoltare della musica, la colonna sonora del film di Malick, per staccare le orecchie da quel trambusto, ma Catastrofe è sul letto, siede a gambe incrociate come lui, si muove imitando le sue espressioni, alza la mano e lui la alza, socchiude gli occhi se lui li socchiude, aggrotta le sopracciglia se lui strige la fronte. È vestita da mimo, ha il cerone bianchissimo sul visto, una bocca triste disegnata all’ingiù con del rossetto rosso, i capelli raccolti in una cuffietta nera che rende la sua testa tonda e liscia, una tutina aderente su un corpo androgino, senza forme. Lo fissa negli occhi, lui cambia lo sguardo, e lei è uno specchio liscio, accogliente, che lo distrae dalla confusione, dalle intrusioni, dall’acqua che cola ed entra, si insinua nelle fessure, rovina tappeti e pavimenti». Loris è, forse consciamente, sempre più colpevole della sua condizione: se da bambino il suo rapporto ossessivo con la lettura era motivo di preoccupazione dei genitori, da adulto passa ore in rete a diagnosticarsi malattie da curare; il lavoro che sognava e per cui ha studiato è diventato un incubo, con la fidanzata cerca compassione che trova e tradisce, non crede ai medici che interpella. Loris non vive più, la sua è una sopravvivenza che precede la fine e immagina la morte. Viene da chiedersi perché l’autrice riesca a scrivere un romanzo generazionale popolato da un personaggio apparentemente fantastico e situazioni inverosimili, in cui il lettore non ha mai la percezione di trovarsi dentro un fantasy o un mistery; il protagonista di Caminito è un male che attraversa la sua generazione, la più istruita e sottopagata, che vede nel progresso uno svuotamento della realtà e allora ne crea una distorta e deflagrante, in cui la menzogna è lecita finché funziona perché non si riesce a chiedere aiuto.
«Forse sarebbe il caso di parlarne» dice il padre a Loris o forse è tardi e, prima che l’acqua trabocchi dalle cantine e copra i pavimenti, questa è la generazione a cui si devono delle scuse.
«Siamo giovani e vogliamo vivere, siamo giovani e non vogliamo un cancro, o doverci preoccupare della consistenza delle feci, dei noduli all’inguine, delle masse sospette ai testicoli, dei nei dalle forme irregolari, dei mal di testa ostinati, delle ferite che non si rimarginano, delle sudorazioni notturne, delle febbricole, dei lividi lungo le gambe, delle unghie ingiallite, della pelle squamata, della protezione solare e della carne rossa e dei gastroprotettori e degli integratori miracolosi e dei nuovi studi che dichiarano il cavolo verza pieno di utilissimi amminoacidi adatti a prevenire il tumore al cervello. Siamo giovani e pretendiamo che lasciate tutto per occuparvi di noi, di tutti noi che abbiamo paura, di tutti noi che prendete in giro, di tutti noi a cui dite menzogne, di tutti noi che siamo vostre cavie per le scorie e i rifiuti, per le onde e i fiumi tossici.
Come accade che ci ammaliamo? Vogliamo sapere perché e come si formano dentro di noi i nostri peggiori avversari».
In copertina: artwork by Edward Burra

