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Cesare Jr. Ciappelloni va a Copenaghen – di Luca Tosi

Nell’appartamento di centottantacinque metri quadri all’ultimo piano di Via Rialto 17 a Bologna, arredato con pezzi di alto pregio, quali quattro divani Togo da euro cinquemila l’uno, una Cucina Veneta con isola e via via oggetti di dimensioni minori ma di design supremo, come un diffusore d’oli essenziali premiato per l’estetica e non per la funzionalità, viveva un certo Cesare Jr. Ciappelloni. Dal momento che sto per entrare a gamba tesa nella sua vita e spifferare tutto del suo privato, mi è doveroso premettere due aspetti: il primo è che Cesare aveva da poco affrontato il più grande dolore della sua esistenza fin lì, ovvero il lutto del cane Milo, razza Shiba Inu, accasciatosi di notte sul tappeto Oca Nera del salotto in una chiazza di piscio già assorbita dalla texture del tessuto; il secondo aspetto è che la totalità di denaro di cui si avvaleva Ciappelloni Jr. per campare non proveniva da un reddito di lavoro, bensì dal conto Fineco del padre, Cesare Ciappelloni, imprenditore edile appartenente sia all’Ordine dei Cavalieri di Malta, sia all’Ordine Costantiniano; ogni primo del mese spediva un bonifico di euro quattromila che giungeva sul conto del figlio con due giorni di valuta. Trentaquattro anni compiuti, Jr. si era arredato l’appartamento (naturalmente acquistatogli dal padre, senza il mutuo) non un po’ per volta come fa la gente normale, ma comprando tutto subito, ordinando rigorosamente online da sito a sito. Se le consegne tradivano la puntualità anche di un solo giorno, lui di prontezza inviava mail, reclamava, pretendeva rimborsi dal corriere o dalla casa produttrice; l’unica che aveva ceduto ai suoi capricci era stata una ditta svedese di supporti a rotelle per televisori, che gli aveva rimborsato la bellezza di quindici euro. A Cesare non interessava tanto l’importo, ma il principio, o meglio, non scender mai dal massimo livello di efficienza: era una dote che credeva di possedere e, per mantenere altissima l’asticella, agiva sempre quanto prima nell’individuare e correggere gli errori altrui: a chi si complimentava con lui per gli arredi, ad esempio, e cioè quei pochissimi conoscenti che soleva invitare giusto per vantarsi dei propri averi, e che poi non si facevan più vedere, rispondeva che il merito del suo gusto derivava proprio da quell’efficienza temperamentale che gli consentiva di ottenere, presto o tardi, in un modo o nell’altro, ogni risultato; naturalmente ometteva di dire che riceveva bei soldi dal padre, anzi, una sera, a una studentessa di Scienze per la Qualità della Vita aveva millantato di esser orfano. Le aveva detto, inoltre, che l’appartamento era così pulito che avrebbero anche potuto cenare sul pavimento; ma non era lui a svolgere le pulizie settimanali, pagava una ragazza della Costa d’Avorio di nome Jodìt dieci euro l’ora; Cesare Jr. la chiamava però Jòdit, pienamente consapevole di sbagliare l’accento, nell’esercitare così una forma di gerarchia su di lei.
Fatta questa pappardella di premessa, adesso passiamo ai fatti. Dato che a Bologna, al netto dell’arredarsi in autonomia i centottantacinque metri quadri Cesare non lavorava né studiava, né ormai beccava più un’anima che gli desse corda, una mattina di pieno luglio aveva deciso d’espatriare a Copenaghen. Scelta scontata: è per antonomasia la città del design ricco e del minimalismo nordico, ingredienti che mescolati insieme formano appunto lo stile del Ciappelloni. Aveva perciò prenotato per un mese un bilocale in un complesso di appartamenti nel quartiere di Osterbrø, e col primo Ryanair, rigorosamente in priority, era volato dall’Aeroporto Marconi fin là. Tempismo perfetto per abbandonare l’afa e l’umidità fognaria di Bologna, e respirare in un bagno di luce chiara l’aria frizzantina della Scandinavia.
Atterrato su suolo danese il giorno quattordici, data passata alla storia per l’attentato non riuscito a Donald Trump, aveva atteso per ben trequarti d’ora che il suo baule North Face comparisse sul nastro delle valigie. Nello scrollare notizie, su Ansa.it, riguardanti nuovi attacchi in Ucraina e ulteriori morti palestinesi, si era formato l’idea che la guerra non fosse innescata, come si suol dire, dai poteri forti, piuttosto dagli stessi popoli, che per consolidati processi ciclici ogni tot anni scivolano nel nazionalismo, al che le bombe divengono una conseguenza automatica: è il popolo che manda sé stesso a decimarsi. Si era sentito in estremo pericolo, nel pensare così: lui non era per niente nazionalista, tutto il contrario, si definiva progressista e delicato; però sapeva bene  che in caso di leva obbligatoria dettata da un conflitto mondiale non c’avrebbero rimesso solo i nazionalisti, ma anche i delicati progressisti come lui. Per fortuna, un minuto dopo il suo baule North Face era comparso sul nastro, così aveva smesso di preoccuparsi oltremisura. In metro, dall’aeroporto a Osterbrø s’era sintonizzato su Sky Sport dal telefono per la finale di Wimbledon, Alcaraz contro Djokovic; non che fosse appassionato di tennis, eppure a mesi alterni se ne interessava: in primis, perché suo padre era stato un tennista e Jr., da piccolino, aveva assistito a gran parte delle sue sconfitte sulla terra rossa del circolo sportivo Nosadella; in secundis, perché nel silenzio degli spalti, nell’assetto mentale e anche nei punteggi tennistici ritrovava quel suo senso di efficienza, rinnovandoselo. C’è un però: non sopportava la voce della telecronista Sky, gli ricordava troppo bene la pediatra di quand’era bambino; stesso tono irreversibile, rauco e gravoso, gli metteva una gran angoscia, ma allo stesso tempo gli infondeva, chissà come, altra di quella efficienza. Sceso dalla metro, e incamminatosi a gran passo verso il complesso di appartamenti dov’era ubicato il suo, si era riscoperto contento: Alcaraz aveva vinto, Trump era sano e salvo e su Copenaghen splendeva il sole; con rinnovato stupore nello sguardo notava qua e là minuzie nel paesaggio, ad esempio un sandalo taglia neonato lì sul marciapiede, o l’insegna a neon di parrucchiere turco; si gasava, si ravvivava, o meglio, resuscitava di momento in momento. Si era poi ricordato di una ragazza che, tre anni prima, gli aveva sussurrato all’orecchio: «Sei bello quando sei felice, invece quando sei giù t’ingrigisci, dai il peggio di te». Ecco, a Copenaghen aveva ripreso colore. In appartamento, prima di tutto aveva valutato sommariamente gli arredi giudicandoli discreti: il materasso presentava un topper di sei centimetri in memory foam, in cucina c’era la french press, però niente bidet in bagno; poco male, tanto Cesare il bidet non se lo faceva mai, nondimeno constatarne la mancanza lo aveva fatto sentir più europeo, elevato, di razza superiore rispetto all’italiano medio. Smollato lì il baule North Face s’era subito diretto fuori saltellando; la diretta minuto per minuto delle sue azioni, adesso, non la percepiva più, nella sua testa, narrata dalla telecronista di Sky, bensì da una voce interiore che conosceva bene, ovvero quella di quando leggeva un libro o, ma molto di rado, pregava. Con le cuffie alle orecchie passeggiava e canticchiava guardandosi attorno, sorrideva alle bionde e si specchiava ovunque incontrasse una superficie vetrata, giudicandosi bello nella sua immagine. Per mangiar qualcosa aveva scelto Norrerbrø, il quartiere hipster dove risiedeva, tra gli altri locali, la pasticceria Andersen e Maillard: caffè espresso e brioche a cubo, totale di ottanta corone danesi, cioè undici euro. Purtroppo, però, bevuto il caffè Jr. s’era sentito ripiombare nel suo io bolognese, di nuovo solo e commentato nelle sue gesta dalla brutta voce della pediatra; nel mentre osservava l’andirivieni di bionde sì bellissime, però totalmente indifferenti al suo sconforto, quindi deludenti. Così era ricorso al suo solito giochino atto a combatter la solitudine: chiedersi cosa stavano facendo, in quel preciso istante, certe persone che conosceva. Del tipo: cosa starà facendo quella di Scienze per la Qualità della Vita? Oppure, cosa starà facendo Jòdit? S’immaginava scenari, abitudini, casalingaggini altrui; non aveva modo di verificare se le sue intuizioni fossero azzeccate, ma in qualità di narratore posso assicurare che sì, spesso c’indovinava. Possedeva un sesto senso nell’intercettare le attitudini di una tal persona, pure se ci aveva parlato soltanto una mezza volta; era senza dubbio la sua unica vera dote naturale, però non ne era consapevole. ’Sto giochino lo praticava esclusivamente su chi conosceva poco, non su qualcuno di cui sapeva vita, morte e miracoli, come ad esempio il padre: mai si sarebbe sognato di chiedersi cosa stesse facendo, anzi, s’imponeva di pensarlo il meno possibile, così da non finire ostaggio dal suo condizionamento, e ritrovarsi sulla faccia la sua espressione a bocca serrata e mascella in avanti, imbolsito e con lo sguardo torvo; quando gli capitava, cercava quanto prima di rispedire indietro la mascella, scollare le labbra una dall’altra e divincolarsi da ogni percettibile somiglianza, anche se questo significava rinunciare al record assoluto dell’efficienza; perché sì, l’efficienza l’aveva ereditata dal padre. Insomma, lì seduto da Andersen e Maillard Cesare Jr. Ciappelloni era poi giunto a un’inedita domanda: ma non sarebbe meglio disfarsene del tutto, adesso che son qui a Copenaghen, dell’efficienza? A cosa mi serve? Domanda più che lecita: gonfio com’era di soldi, poteva permettersi il lusso contrario, cioè la piena inefficienza. Aveva anche pensato: diventerei ancor più delicato e progressista, m’allenterei, sarei molto più distratto, un po’ tocco persino; starei una favola. Allora si era fiondato nella via dello shopping più lunga d’Europa, Strøget, con la promessa di assecondare tutto ciò che l’istinto gli suggeriva, senza concedersi un centesimo di secondo per biasimarlo, abbracciando cioè la massima di Jack Kerouac “primo pensiero miglior pensiero”. L’istinto gli aveva quindi disposto di accaparrarsi un paio di mocassini, modello penny loafer; il punto è che già ce li aveva, dei mocassini così, eppure era già convinto che acquistarli a Copenaghen avrebbe simboleggiato un cambio di passo nella sua vita; avrebbe camminato con suole danesi su suolo danese e tutto in lui sarebbe migliorato, sia nel pensiero che nel destino. Fatto l’acquisto da Prada, s’era poi accomodato da McDonald’s, non per la fame, quanto perché ci era capitato davanti; lì la sua testa aveva elucubrato parecchio sull’equazione McDonald’s = infanzia, per il motivo che da piccolino, tutti i venerdì a pranzo dopo la scuola la madre ce lo portava; un tratto di Jr. che potrebbe intenerire il lettore riguarda proprio questo suo affetto spropositato verso la bionda che lo aveva messo al mondo, ora sulla sessantina andante. Era legatissimo all’immagine di lei nei ricordi più intimi: quando mordeva il McChicken impugnandolo coi mignoli alzati, quando gli asciugava i capelli nello spogliatoio della piscina, quando canticchiava in macchina Una splendida giornata masticando una Vigorsol perché aveva appena smesso di fumare, quando gli parlava sottovoce a letto, sbaciucchiandoselo, e quando lo sgridava e prendeva a scappellotti ricorrendolo attorno alla tavola della cucina. Per recuperarsi dal pozzo della nostalgia aveva divorato un Crispy McBacon, però senza soddisfazione; gli risultava dolciastro al palato, poco ciccioso e dal retrogusto chimico. Avrebbe potuto cancellarsi la delusione dalle papille gustative con un’esperienza culinaria di primo livello all’Alchemist, in dieci portate da seicento e rotti euro, solo che provando a prenotare aveva constatato che era esaurito per i successivi tre mesi. Così aveva ricominciato a camminare, lento, ruttando ogni tre per due, vagando in quartieri che finivano tutti in -brø, similissimi e permeati dalla stessa luce troppo chiara e da un comune silenzio di tomba. Zero traffico, zero cartacce per terra, eppure nel suo petto si apriva una voragine di angoscia. L’idea di trasferirsi in pianta stabile a Copenaghen l’aveva effettivamente sfiorato più volte in quelle ore, ma ce l’avrebbe fatta poi d’inverno, con quindici gradi sotto zero e il buio? Era confuso, nel pieno caos di una mente che sragiona; e dopo aver agito sull’onda di un istinto drogato dal vizio dell’accumulo, adesso esalava respiri fiacchi. Poco dopo aveva udito un ragazzo, seduto a un tavolo di una caffetteria brasiliana, registrare questo messaggio vocale: «Ma allora sei un pezzo di merda…». «Finalmente un italiano!» aveva esclamato Cesare, al che l’altro si era voltato e, identificatolo, l’aveva eletto suo interlocutore.
Si chiamava Andrea, era nato e cresciuto a Brescia; aveva raccontato a Jr. l’intera sua biografia, segnata, com’era ovvio, dall’agognato trasferimento nel Regno di Danimarca dieci mesi prima: dopo anni di boria fra liceo scientifico, ingegneria meccanica e dipendenza dai cannabinoidi, adesso lavorava come manager per Joe & The Juice, una catena di bar, la brutta copia di Starbucks; abitava nel quartiere di Vesterbrø con un gatto. Cesare lo era stato ad ascoltare senza svelar niente di sé: è complicato, per un figlio di papà, confrontarsi con chi invece prova a farsi da solo, perciò tanto valeva omettere. L’unico punto di contatto fra i due si era originato quando Andrea aveva accennato alla famiglia, che non sentiva né vedeva da un paio d’anni: lì Cesare si era percepito autonomo anche lui, però non era vero per niente.
Altri cinque minuti di chiacchiere, poi basta, ognuno per la sua strada, sconosciuti come prima.
Jr. aveva quindi proseguito nel suo cammino fino all’8 House, nel sobborgo di Ørestad: quattrocentosettantasei appartamenti architettati in una struttura che segue la forma di un 8, appunto. Aveva molto osservato, dove possibile, gli interni delle case attraverso le ampie vetrate e ci era rimasto male nel non rilevare divani o poltrone Togo, Cucine Venete, tappeti Oca Nera, nemmeno diffusori d’oli essenziali oltremodo costosi, bensì un’infinità di piante e piantine (tutte vive e vegete) e, su quasi ogni balcone, un grill a gas. Da lì era scappato in metro fino ai Giardini Tivoli, postaccio pullulante di bambini ipereccitati di provar tutte le giostre, dalle montagne russe fino ai più cretini brucomela. Si era visto accerchiato dall’adrenalina altrui, mentre la sua s’azzerava, lasciandolo ingobbito; del resto funzionava così il suo carattere: provava entusiasmo quando attorno eran tutti tristi, ed estremo avvilimento non appena qualcuno nei suoi pressi gioiva, sorrideva o praticava piccoli gesti cordiali (Cesare li giudicava puntualmente falsi). Brancolando atterrito fra un tiro a segno e l’altro, non si sa perché era giunto col pensiero a quelle che etichettava come primizie, ovvero le emozioni più primordiali che fosse in grado di ricordare, elencandosele in una lista: al numero uno, il primo bacio a tredici anni con una morettina più alta di lui; gli era montata sopra, su una panchina, e Cesare, in una pausa dallo slinguazzamento, aveva notato di là dalla strada un uomo in canotta che li fissava, la mano a sgranarsi i testicoli. Al numero due, quella mattina di giugno che a otto o nove anni era scivolato da uno scoglio, in spiaggia a Marina di Ravenna; si sarebbe spaccato l’osso sacro, se non fosse intervenuto suo padre, all’ultimo istante, con un braccio a salvarlo dall’impatto. Al terzo posto, quella volta che, avrà avuto al massimo quattro anni, seduto sul lanoso pavimento di una sartoria, ascoltando dalla radio Laura non c’è di Nek aveva immaginato che da grande avrebbe potuto scriverlo anche lui un tormentone così, da dedicare a una ragazza. Al quarto e ultimo posto si era classificato il ricordo di un sogno prodotto sei settimane prima: incontrava, ai tavolini esterni di un bar, suo padre e suo nonno che insieme valutavano i rispettivi investimenti sullo schermo di un pc portatile; il nonno era in piedi, appostato dietro il padre seduto, e gli diceva: «Chiamalo, digli che è uno stupido! Ci ha fatto perdere tutto!». Suo padre scuoteva la testa, ribatteva: «Non posso dargli dello stupido… Non posso». Insomma, entrambi avevano azzerato i risparmi per colpa di un finto esperto che li aveva consigliati male. Al che il nonno diceva a suo padre: «Se coi duemila euro che ti rimangono riparti, in vent’anni ti diventano ventimila». Ricordare questo sogno scatenava in Jr. una sensazione di nessuna sicurezza e nessuna solidità, cento percento volatilità, che a metà gli toglieva la terra sotto i piedi, a metà lo esaltava in quanto realizzava di non esser protetto da niente, quindi nella pura condizione dello sbaraglio totale. Era uscito dai Giardini Tivoli dopo non più di mezz’ora, e la luce arancione del tramonto gli aveva consegnato in dono una quinta primizia: nel brusco calare di luminosità si era ricordato la copertina del libro del Vangelo ai tempi del catechismo. Nota del narratore: per amor di precisione, trattasi del Vangelo e atti degli apostoli delle edizioni San Paolo, nella versione ufficiale della conferenza episcopale italiana, trentottesima edizione, anno 2005. Jr., adesso, camminava svelto e determinato, già col proposito non solo di togliere le tende dalla Danimarca quanto prima, ma anche, una volta rimpatriato in Italia, di studiarsi tutto il Vangelo, magari imparandone dei passi a memoria; difatti, leggerlo soltanto non bastava, si sentiva in dovere di alzar l’asticella, imprimere più impegno, volontà e disciplina. Però, di colpo, proprio mentre si riscopriva “chiamato” dalle sacre scritture cristiane, un’altra chiamata gli era giunta all’orecchio dalla strada; due ragazze molto truccate, da dentro una BMW nera gli avevan urlato: «High style, burger!», «Come on!» più altri appellativi per invitarlo a salire. Rimasto saldo sulle sue, aveva concesso loro appena uno sguardo e un cenno col capo, nello stile di un novizio sacerdote. Aveva così continuato a camminare, osservando sempre il tramonto all’orizzonte, nella convinzione che non avrebbe mai più viaggiato nel nord Europa; urgeva un cambio di stile, e di rotta: solo mete del sud per il futuro, direzione equatore; la Sicilia, magari, o ancor meglio l’Africa. Gli era parso evidente che il suo potere decisionale si annullasse nel clima freddo, e che non gli funzionassero in modo oliato né l’istinto né la ragione: l’efficienza nordica lo lasciava più smarrito di quel che era.
Di ritorno verso Osterbrø aveva scelto di non usare metro, autobus né taxi, piuttosto avvalersi, a costo di metterci due ore e più, solo del suo passo da pellegrino. Durante i sedici chilometri abbondanti di cammino non gli era capitato di udire un clacson, un fischiettio, una canzone, né uno sbatter di pentole uscire da una finestra. Eppure, adesso scansava l’angoscia sorridendosi interiormente; capiva, finalmente, nonostante a Bologna basti un diluvio a distruggere le fogne, e sia pieno di padroni che non raccolgono la merda dei loro cani da sotto i portici, che l’efficienza e il perfezionismo erano mali peggiori. Aveva contato quattordici Joe & The Juice sul tragitto, immaginandosi Andrea dietro questo o quel bancone a spillare succo di mela. Rientrato nel complesso di appartamenti coi piedi spaccati per via dei mocassini Prada ancora rigidi, gli era rimasto di percorrere tre lunghi corridoi, anche lì nell’assoluto mutismo delle cose, al punto che aveva poi accennato una corsa per arrivar in fretta alla sua porta. In camera, seduto a gambe incrociate sul pavimento, aveva quindi prenotato il primo Ryanair per Bologna per l’indomani e, con supremo ordine mentale, si era votato a riempire il suo baule North Face piegando i vestiti a uno a uno. Una doccia lunga il giusto, poi aveva adagiato il corpo sui sei centimetri di topper in memory foam, mani raccolte sul petto. Steso, a occhi chiusi, aveva detto un Padre nostro, un’Ave Maria e un Gloria, perdendo a più riprese il filo per colpa dei pensieri. Uno era stato il ricordo di una festa in un casolare a San Lazzaro di Savena, c’aveva quattordici anni e i telefoni nelle mani a chiunque come oggi; viveva ogni istante con maggior presenza, non si proiettava di continuo in spazi e tempi diversi. Un altro pensiero era stato immaginare Bologna scritto con le o barrate danesi: Bøløgna. Un altro ancora, che Nek aveva dimostrato genialità artistica coi versi “Laura non c’è / È andata via / Laura non è più cosa mia”, per il doppio senso con l’aura. Infine, aveva inventato lui una preghierina dedicata al cane Milo, prefissandosi, subito dopo, di comprare un nuovo shiba inu quanto prima; il lutto era definitivamente superato. L’ultima sincera promessa, prima d’addormentarsi, era stata di farsi un bidet non appena sarebbe rientrato a casa, per ripulirsi l’anima da tutta quell’intera vacanza. Chiusa finale del narratore: su una delle prime pagine del suo Vangelo, dimenticato nella soffitta della casa della madre, a Casalecchio di Reno, stipato dentro uno scatolone che nessuno non avrebbe mai più riaperto, capeggiava questa dedica:

Caro Cesare, nel Vangelo è Gesù che ti parla. Ascoltalo e metti in pratica le sue parole.
La tua catechista Caterina

Mi è dolce terminare questa cronaca di fatti informando chi legge che mai e poi mai la catechista Caterina avrebbe scommesso che quel bambino viziato, snob e figlio di papà avrebbe un giorno intercettato la fede a Copenaghen; di buon conto, le sue energie di evangelizzatrice le aveva dirottate su altri bambini, quelli all’apparenza più sfortunati, ancor meglio se di famiglia povera. Purtroppo, da grandi, eran poi finiti tutti assorbiti dalla mediocrità del lavoro e del tirar a campare coi prosciutti sugli occhi, chi da dipendente, chi da libero professionista, fedeli esclusivamente al denaro. Cesare Jr. Ciappelloni, al contrario, rimpatriato a Bologna l’aveva letto tutto per davvero, il Vangelo, apprezzando più degli altri quello di Luca e trovandosi pienamente d’accordo con Dante, che lo definì “scriba della mansuetudine di Cristo”. Non intendo ammorbare il lettore riguardo gli effetti che questa conversione ha determinato su Cesare Jr., né degli eventi che essa ha innescato nei giorni, mesi e anni successivi della sua vita. Posso solo dire che sono stati salvifici come effetti, e che hanno apportato benefìci sia a lui come individuo, depurandolo dall’efficienza, dall’interesse per il tennis e per tutto ciò che sa di nordico, e dal chiamare Jodìt con l’accento sbagliato, sia all’universo che ospita questo pianeta. Disdegnando le orme del padre, non abbracciò l’Ordine dei Cavalieri di Malta, né quello Costantiniano, bensì l’Ordine dei Frati Minori, pur continuando a ricevere il bonifico da quattromila euro vita natural durante. Qui mi fermo.

(Lc 2,29-30)
Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola.


In copertina: Consumismo classico by Giulia Bocchio

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