Di Mauro Massari
Sbirciare, con incoscienza, dallo spioncino della devastazione. La porta, tradotto per Adelphi da Laura Frausin Guarino, è una ferita che non cicatrizza. Centoquarantadue pagine in cui Georges Simenon si traveste da entomologo, diligente e meticoloso, tenendo sotto la lente d’ingrandimento Bernard Foy, un uomo con l’anima a fette, che ha perso le mani sotto le armi. Sposato con Nelly da vent’anni, ama ancora sua moglie d’un amore urgente, viscerale. La cornice sembra essere la quotidianità rassicurante, medio borghese, di una coppia rodata; poi, come avvicinandosi alla tela d’un quadro d’epoca, iniziano a scorgersi le crepe, le imperfezioni, le anomalie, i dettagli oscuri.
Quasi fosse la prima tavola del Giardino delle delizie di Bosch: in uno scenario di quiete apparente iniziano a intravedersi i gufi, apocalittico presagio di sventura.
Bernard passa le giornate a spiare la vita degli altri dalla finestra, ad ascoltare i rumori del suo palazzo – che conosce a memoria – ad aspettare che sua moglie torni a casa dal lavoro.
“La loro coppia non era, in un certo senso l’opposto di altre coppie? Era lui ad aspettare che sua moglie tornasse dal lavoro. Era lui a restare tutto il giorno in casa mentre Nelly spariva al mattino, d’inverno nel freddo grigiore dell’alba, e passava la maggior parte del tempo in un mondo estraneo, incontrando persone che Bernard non conosceva, se non qualche volta di nome (…) non era propriamente geloso, ma quando la vedeva, sul marciapiede di fronte, che aspettava l’autobus e gli rivolgeva un ultimo sorriso d’incoraggiamento, provava ogni volta una stretta al cuore”. Una routine frustrante – in cui il tempo è nemico e carceriere – nel fumo soffocante del vuoto del suo appartamento parigino, che precipita quando al primo piano dello stabile si trasferisce Pierre Mazeron, un giovane illustratore inchiodato sulla sedia a rotelle dalla poliomielite. Nelly inizia a sbrigare piccole commissioni per lui, fermandosi pochi minuti al giorno nel suo appartamento.
“Chissà se quel giorno si sarebbe fermata al primo piano. Si accese una sigaretta e il fumo svanì lentamente nell’aria rosata della strada”.

Dietro quella porta, al di là della quale monsieur Foy non ha mai guardato, il grosso equivoco sul quale si regge la narrazione. Quello della paranoia, dei deliri di un uomo insicuro, di una gelosia che ammala il pensiero e il corpo. Bernard è un ragno chiuso in un barattolo: senza via d’uscita. Una gelosia dolorosa la sua, una piaga che divora la carne, un verme sottopelle che si muove nell’inconscio. Nelly è percepita come un enigma, il vaso di Pandora, che lui non osa aprire. La relazione diventa un campo minato. Ogni parola, ogni gesto, un possibile detonatore. “Per tutto il tempo che sono rimasta a lavoro ho continuato a guardare l’orologio. Ti seguivo con il pensiero mentre facevi la spesa, mentre salivi le scale. Cercavo d’immaginare il tuo viso e non ci riuscivo. E forse era quello che mi angosciava di più”. Lui la indaga, lei lo rassicura. E più lo rassicura, più il dubbio di lui cresce, setacciando gli sguardi, i movimenti del corpo, l’inflessione della voce. Assillante mania. Il poeta spagnolo Vicente Aleixandre avrebbe detto “La distruzione o amore”. La storia, superficialmente, potrebbe quasi sembrare banale. La discesa inarrestabile – a tratti avvilente – nella mente di un uomo insicuro, dominato dalle paure.
E invece Simenon gioca sporco in questo libro. Ti prende per mano per una visita guidata nel luna park delle ossessioni: un lungo giro di giostra che non prevede cintura di sicurezza. Il rischio, chiusa l’ultima pagina, è quello di non guardare più il tuo compagno come prima di averlo letto; il pericolo è quello di non riuscire più a stenderti sul letto accanto alla tua compagna, senza ritrovarti a contare i mostri sul soffitto. Un incubo perverso, da cui ti svegli solo per ritrovare i fantasmi ancora lì con te.
“A Bernard dava un gran fastidio sentire un Mazeron invisibile interporsi tra loro tutto il tempo, anche quando stavano tranquillamente mangiando, ed era lui che non poteva fare a meno di tirarlo in ballo! Avrebbe tanto voluto sapere che cosa c’era davvero dietro la fronte, dietro gli occhi di sua moglie! Dieci volte al giorno le domandava a bruciapelo: «A cosa pensi?». Qualche volta la risposta era del tutto sorprendente: «A tua sorella». «Come mai pensavi a mia sorella?». «Perché è da un bel po’ che tua madre non ci scrive. Pensavo che quando sarò in ferie potremmo andare a trovarla, e mi chiedevo se tua sorella è ingrassata ancora…»”.
Pagine che si leggono in apnea, un ritratto a mano libera, spietato, della fragilità umana, dell’incapacità di accettare l’imperfezione, il fittizio dell’amore. La linea tra verità e immaginazione è liquida, è il compimento drammatico dell’incomunicabilità. La domanda che resta è: Bernard è pazzo o viene trascinato, con una carezza, verso la follia? Un paso doble tra il Kubrick claustrofobico e il sentire fragile di chi ha vissuto la depressione, come Emmanuel Carrère. Il rituale prima della corrida sanguinaria, fatale, di chi sta perdendo tutto.
Il finale è uno schiocco di lingua, il bicchiere di vetro che ti scivola dalle mani mentre lo credi nella presa più salda. E poi silenzio, si spengono le luci, si abbassano le saracinesche, la pioggia si ferma, i venditori ambulanti di ombrelli prendono la via di casa, i bambini vanno a letto dopo cena. È notte, e nient’altro.
In copertina: digital artwork by Mendezmendez

