Il nostro grande niente (Einaudi) è un sassolino nella scarpa. Ce l’hai lì e pensi di poterci camminare senza troppi problemi. In breve però catalizza il pensiero, non riesci più a goderti il gelato che stai mangiando, la sigaretta con cui accompagni il tragitto da casa al supermercato, la chiacchierata con tua madre al telefono. Ancora cento metri e mi fermo a tirarlo via. E così nella scarpa, scrollato via il piccolo intruso, ci trovi filamenti di insicurezza e macchie di melanconia. “Quando si ama, l’assenza non ha nessun valore”, scriveva Apollinaire.
Emanuele Aldrovandi prova a confutare la tesi, a confondere. Diventa l’avvocato del diavolo. Il giovane scrittore e drammaturgo mi racconta il suo primo romanzo al telefono, dalla Francia, dopo un incontro sfiorato a Bari, durante Lungomare di libri.

Come nasce Il nostro grande niente?
Ci sono due grandi impulsi. Uno più verticale, di pensiero, qualcosa che mi ossessiona da sempre: il rapporto dell’essere umano con l’assenza. La morte. La consapevolezza del potenziale nulla in relazione alla vita, al tempo vissuto. A cosa aggrapparsi nel quotidiano per fronteggiare il pensiero della fine, che ci fa sprofondare nel baratro? A me capita di chiedermelo da quando avevo sette anni, la notte, prima di dormire. È la domanda che innerva il romanzo. Per quanto riguarda il plot mi sono immaginato come sarebbe vedere la vita della donna che ami andare avanti dopo la tua morte, come questo cambierebbe la percezione del rapporto, dell’intimità.
Quando avevo trent’anni in un momento felice, in cui stavo per sposarmi, prima di un viaggio ho immaginato l’aereo cadere prima del matrimonio. Da lì è iniziata l’idea di scrivere questa storia. Ma non è un libro autobiografico, non sono mai morto (sorride ndr).
L’amore può vincere il tempo o serve arrendersi all’idea che non sia possibile?
Quando ho la risposta ad una domanda non scrivo. Piuttosto vivo, amo, viaggio, voto… scrivo quando di risposte non ne ho. Il mio lato razionale direbbe “No, niente è più forte del tempo che sconfigge tutto”. Il destino finale è che il sole si spenga, lasciando collassare qualsiasi cosa attorno. D’altra parte mi sveglio ogni giorno dando grande valore all’amore, alla sua quotidianità. In questa scissione inconciliabile è nata la voglia di scrivere questo libro.
Pensi che, a conti fatti, siamo a un certo punto tutti sostituibili?
È qualcosa che riguarda le relazioni. Parlando della protagonista femminile del romanzo, anche se si rifà una vita, il modo di amare i due uomini è diverso. Non credo siamo sostituibili nelle nostre specificità. Quello che è sostituibile è il ruolo all’interno del protrarsi della natura. Siamo organismi che si riproducono, si decompongono e vengono reinseriti nella materia.
Pensavo più alla velocità dei rapporti contemporanei, al consumare in fretta, al cambiare alla prima difficoltà perché “c’è possibilità di scegliere”, perché “tanto un’altra persona la si trova”…
Questo è un pensiero stimolante e ha un suo fascino. Ripartendo però tutti i giorni da zero ci si ritrova in quel “presente perpetuo” teorizzato da Byung-chul Han, in cui viviamo senza riti o relazioni che si protraggono, senza la possibilità di percepirci entità che attraversano il tempo. Svegliarsi la mattina cercando sempre un senso nuovo.
Ho letto tanto relativismo nel protagonista del tuo libro. È anche un po’ il tuo?
Gli ho prestato il mio relativismo filosofico di pensiero. Ho estremizzato un suo modo di concretizzarlo che lo paralizza, mentre io credo di riuscire meglio a gestirlo, appassionandomi alla vita. Nei feedback sul romanzo mi ha fatto sorridere ricevere due punti di vista diametralmente opposti: c’è chi mi ha dato del nichilista, e chi mi ha detto che ho restituito voglia di vivere, di godersi le persone amate. Mi ha fatto piacere, anch’io nel mio intimo oscillo tra questi due poli.
Non descrivi mai la protagonista femminile del libro, perché?
Ho cercato di non inserire descrizioni che uscissero dal flusso dello stile del romanzo, solo per fornire una descrizione al pubblico. E poi lui la vede vivere, quindi non si arroga il diritto da narratore esterno di descriverla. È un lavoro di coerenza narrativa che ha richiesto tempo e impegno. A volte mi fa sorridere sentire che “è un romanzo scritto in modo semplice”. Da insegnate di scrittura posso dire che è molto più difficile scrivere cose complesse con semplicità, piuttosto che cose complicate in modo complicato. Ho fatto grande fatica a raggiungere la semplicità che poi mi viene contestata.
Hai scritto nel libro che “troppa lucidità rende ciechi”. Non credi sia l’unico modo di mantenere l’illusione di controllo su quello che ci circonda?
Cerchiamo di trovare strategie di controllo per gestire la realtà, le falle quotidiane. Ma è una coperta sempre troppo corta. Non ne esiste una larga abbastanza da coprire tutto, lasciando tranquille le persone.
Parliamo di Aldrovandi regista, mi parli del corto Bataclan 2020?
È la storia di una ragazza che va a denunciare il fratello, responsabile dell’attentato. Si crea un dialogo conflittuale con la poliziotta che invece di accettare la denuncia, giustifica le motivazioni dell’attentatore: un ribaltamento totale che si scoprirà essere frutto dell’immaginazione della protagonista, divisa tra il voler salvare il fratello e il suo giustificarlo inconsciamente per l’atto che sta per compiere. Ero in partenza per Londra quando c’è stato l’attentato. Mi sono chiesto come una persona simile a me, nata in Europa come me, della mia stessa età, fosse disposta a morire, a sacrificare la vita per uccidere. E la risposta della follia, del lavaggio del cervello, o dell’assenza di senso, non mi bastavano. Mi sono sforzato, mi sono informato, e ho cercato di mettermi nei panni di qualcuno così distante da me. Il corto è andato bene, ha vinto il Nastro d’Argento e tanti altri premi. È stato proiettato in tanti festival internazionali ma, paradossalmente, mai in Francia.
Hai adattato La peste di Camus per il teatro, un’operazione delicata. Come ti sei approcciato a questo lavoro?
Quando scrivo qualcosa di mio, quando invento delle storie cerco di essere fedele il più possibile a quello di cui mi interessa parlare, senza preoccuparmi di nient’altro. Se parliamo invece di adattamenti, per rispetto nei confronti degli autori, cerco di essere fedele a loro, studiando. Questa è una cosa che non va tanto di moda, spesso si usano testi classici per fare quello che chiamano “interpretazione critica”, che nel pratico vuol dire prendere un titolo che tira, sfruttarne il nome per vendere i biglietti, e poi fare ciò che si vuole senza prendersi la responsabilità di scrivere coerentemente in relazione all’opera originale. Leggi Shakespeare o Čechov sulle locandine e poi nello spettacolo c’è tutt’altro.
Stai lavorando al prossimo libro?
Ci ho messo quasi cinque anni a scrivere Il nostro grande niente, il prossimo arriverà quando avrò qualcosa di importante da dire, esprimendomi a un certo livello di profondità. Non voglio tirar fuori un libro all’anno. A settembre però giro il mio primo lungometraggio, tratto dalla mia opera teatrale L’estinzione della razza umana. Il mio obbiettivo era pubblicare un romanzo e girare un lungo entro i quarant’anni. A settembre ne compio trentanove, sono giusto in tempo (ride ndr).
Intervista a cura di Mauro Massari

