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E se fosse una visione? La ragazza unicorno di Giulia Sara Miori

Di Annachiara Atzei

 

Il prigioniero: il protagonista dell’esordio nel romanzo di Giulia Sara Miori già solo nell’appellativo ha qualcosa di disturbante perché si tratta di qualcuno che fin dall’incipit viene mostrato in una condizione di assoggettamento senza che l’autrice descriva neppure un dettaglio della sua prigionia. Un personaggio che “parte in svantaggio”, dunque, e che, dalla reclusione, dovrà provare a liberarsi.
Il titolo di questo enigmatico libro appena pubblicato da Marsilio è La ragazza unicorno, titolo che forse può apparire fuorviante, ma che, d’altra parte, in perfetta coerenza con la narrazione, da subito ci costringe a confrontarci su quanto davvero sappiamo pur senza volerlo dichiarare, su cosa è reale e cosa invece non lo è. E chissà qual è la relazione con la ragazza unicorno che appare e scompare nelle pagine senza lasciare traccia di sé.
Pian piano emergono tutti gli elementi del racconto. C’è il rapimento di un tizio anonimo e senza pretese da parte di due loschi figuri, c’è una cella bianchissima, c’è un interrogatorio, c’è la paura e c’è il dubbio, soprattutto il dubbio. Quello del prigioniero e il nostro. Appena crediamo di essere nel mondo vero, succede qualcosa che ci risucchia altrove, ci riporta all’irreale, ci fa continuamente perdere le coordinate del percorso intrapreso. Scrive Miori riferendosi al protagonista: “Mentalmente, però, percepiva che giorno dopo giorno gli elementi della realtà che tenevano insieme i tasselli della sua vita si erano fatti più sfilacciati e inconsistenti, fino a fondersi con i sogni e le immaginazioni imposti dal suo isolamento assoluto”. Dove ci troviamo? Cosa ci è noto veramente? È possibile che gli altri conoscano più cose di noi sul nostro conto? E se fosse solo un sogno? Se fosse una visione?

 

 

La scrittrice ci autorizza a pensarlo perché introduce nella trama indizi stranianti: tipi ambigui, ambienti asettici, salti temporali difficili da misurare. È come se in questo racconto qualcosa continuamente sfuggisse al lettore per poi essere recuperato un attimo dopo. A questo punto, cadere dentro sé stessi o vedersi da fuori è una delle possibilità. All’interno della stanza in cui è stato rinchiuso, l’uomo può esaminarsi. Nella luce accecante del neon, nella solitudine, nel silenzio chirurgico che avvolge lo spazio – che diventano metafora dello svuotarsi di sé per fare tabula rasa della propria esperienza – c’è, in fondo, una chance di accettazione e, forse, di assoluzione. Ma non c’è eroe, qui, non può esserci finché si mente allo specchio.
Dal punto di vista narrativo, percepiamo una distorsione causale nello svolgersi dei fatti che non prevede il soprannaturale e che siamo chiamati ad accettare così com’è. Tra le situazioni indecifrabili che si verificano in momenti e luoghi lucidamente verosimili, il protagonista è più volte invitato a confessare la sua colpa perché, così facendo, verrà scarcerato e sarà libero di tornare a casa. Quello che a prima vista può sembrare un controsenso, e i cui effetti sono abnormi rispetto ai presupposti – cioè, la liberazione in cambio dell’ammissione di una responsabilità personale – si impone invece come soluzione naturale della vicenda, l’unica possibile. Questo artificio letterario ha anche ricadute morali: ammettere la colpa può garantire la libertà? O, più semplicemente, il vero dilemma dell’uomo contemporaneo è decidere quale comportamento tenere quando ciò che accade, o ciò che lui contribuisce a fare accadere e che lo riguarda da vicino, diventa finalmente chiaro ai suoi stessi occhi. Ma, muoversi lungo il crinale del vero comporta titubanza e domande che si moltiplicano e contribuiscono ad aumentare lo spaesamento. Le crepe sottili, come dovute ha una lieve scossa di terremoto, che a un certo punto si notano sul muro della cella sono un altro campanello d’allarme, l’ennesimo segnale di una possibile redenzione: starà al prigioniero decidere se cedere alla ragione o se permanere nella sua tragicità.
Il prigioniero: nomen omen. Dominato da sé stesso, da un limite autoimposto che comprende il rifiuto di vedersi e capirsi per come è: reale nella fragilità, vivo nella routine quotidiana o nell’errore di valutazione. Incapace di compiere scelte concrete perché incapace, prima di tutto, di introspezione.
Se è vero che la realtà è tale solo quando qualcuno ne afferma l’esistenza dandole forma e significato, guardarsi dentro è azione che non si discosta dal renderci presenti, percepire, desiderare e – perché no – riattraversare quella stessa realtà che abbiamo rifiutato per provare a starci dentro con più coscienza.

 

 

 


Giulia Sara Miori è nata in Sicilia ma ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Trento. Nel 2001 si è trasferita a Milano, dove si è laureata in Lettere, ma da diversi anni vive e lavora a Utrecht. Ha all’attivo la raccolta di racconti Neroconfetto (Racconti 2021).

 


In copertina: artwork by D. Altmejd


 

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