Nel settembre del 1996 esce il numero 17 di Preacher, in cui il reverendo Jesse Caster, colui che è stato investito della Voce di Dio, si prende una vendetta su uno dei suoi inseguitori: irresistibile, gli comanda di contare tutti i granelli di sabbia della spiaggia, e conclude con «Get to it», in italiano reso con un fatale «Comincia».
Nell’ottobre del 2023 esce Domicilio sconosciuto (UTET), in cui il Direttore dell’Istituto, investito delle mille voci sue figlie, pronuncia la frase «Vorrei parlarle, Guerra».
Il Direttore, fantasma a capo di una casa di fantasmi, incarica Guerra di scrivere un libro sulla letteratura dell’Istituto, cioè della letteratura di un continente (latino-americano), cioè della letteratura del mondo, cioè un compito impossibile: sistematizzare una letteratura che va cercata «non nei posti che di solito la letteratura ama frequentare». È l’albergo in cui lavora Guerra il teatro della sua convocazione; la richiesta piomba nel mondo grigio di Guerra non come un fulmine, ma come un osceno suggerimento, un sussurro capace di sconvolgere più di un fragoroso ordine. L’esistenza del protagonista è liminale: uno scrittore che non scrive; fondato da una letteratura che non riesce a ricordare; che lavora in un luogo in cui si abita ma non si vive; che si trova egli stesso nel mezzo di due case, dopo la vecchia e prima della nuova. Guerra, in mezzo a un trasloco, non ha i suoi libri; dovrà quindi andare a memoria, cercare dentro di sé.
Inizia così un viaggio dentro un tempo distorto, fatto di scene della vita di Guerra, di inserti, di congiunture in cui la letteratura dell’Istituto è intervenuta a sostenere, oppure ostacolare, l’avanzata del suo tempo e delle sue esperienze. Il viaggio inizia infatti con una pagina che entra svolazzando dalla finestra, mentre Guerra è intento a non scrivere; è una pagina di Museo de la novela de la Eterna di Macedonio Fernández. L’episodio sembra suggerire una letteratura che accoglie, che viene, che entra nella vita in modo inaspettato ma ben accetto — o forse no: Guerra ci comunica la sua inaffidabilità: forse niente di quello che sta raccontando è successo veramente. Ecco che Domicilio sconosciuto costruisce le sue definizioni in sequele di contraddizioni; Guerra stesso percepisce la sua estraneità al complesso mondo della letteratura dell’America latina, di quell’Istituto di cui pensava di essere abitante, sente il compito monumentale di descriverla come una minaccia che gli si para davanti, ma allo stesso tempo prova un’appartenenza che non riesce a ignorare.
Sembra venire in soccorso del lettore che dovesse chiedersi come fare a penetrare il libro senza una conoscenza perfetta del corpus in questione. Una materia in fin dei conti inconoscibile vale la pena di conoscerla, indipendentemente da che angolo la si approccia.
Guerra, che presenta gli effetti su di sé di questa conoscenza, vive lo sdoppiamento e la frammentazione, frasi gli approdano sulla lingua non sue, in «interpolazione volontaria», pezzi, versi, immagini senza corpo, dalla portata orrorifica. Preso dalla «nausea di chi solca l’oceano», Guerra non può non addentrarsi nel grottesco lynchiano che gli si para davanti, in cui i sogni si mischiano con la realtà come luoghi a essa adiacenti — a pagina 54 Guerra descrive un sogno di cui non ricorda il finale, e poi, al rigo dopo, «Non appena arrivo a casa prendo nota del sogno»; non appena mi sveglio, ma appena arrivo a casa.

Come si fa a unire un campo così vasto in un taccuino grigio, armati solo di penna e della propria memoria? Come si espugna la casa di «individui intrappolati che passano il tempo a progettare trappole»? Guerra cammina all’interno della sua vita e delle sue conoscenze con questa domanda in tasca, inanellando sforzi futili. L’amica gli consiglia di scrivere come se fosse un esule, l’Esule gli concede solo un messaggio criptico da chissà dove. Gli scrittori dell’Istituto ridono degli sforzi dell’eroe, il quale crede di sdoppiarsi, di guardare il suo “gemello oscuro” dimenarsi, ma in realtà si sta infrangendo in mille pezzi. Quello che Guerra può fare è agire temporaneamente da «dispositivo di ricezione», che cercherà di ritenere le forme e le immagini che la letteratura dell’Istituto gli ha donato, ma che quando cercherà di riprodurle risulteranno inevitabilmente cambiate, rielaborate.
È qui che il dubbio nella mente del lettore (di Domicilio sconosciuto, e il fatto che vada specificato la dice lunga su questo meta-viaggio) viene a farsi certezza: la letteratura dell’Istituto non è tale da ricordarsi verbatim, da annotarsi e reperire facilmente all’occorrenza; è piuttosto una radiazione di fondo della cultura, una musica passata e presente che si trasforma sempre per accogliere le dissonanze e comporre nuovi temi. La letteratura dell’Istituto è meglio ricordata quando è dimenticata. Pertanto Guerra non fa da lettore o da antologizzatore, ma da catalizzatore di essa, che invade la sua memoria macchiandola e plasmandola. La quête è ingrata, e proprio nel momento in cui Guerra riesce a recuperare alcuni dei suoi libri si perde (momentaneamente) nei corridoi del magazzino; l’impresa è destinata a fallire, come ammette lo stesso protagonista.
O forse no. Una nota a piè di pagina proprio verso la fine apre al lettore uno scenario inaspettato; forse, proprio come il racconto del fuggiasco sull’isola di Morel, il resoconto di Guerra (occhiolino) viene dopotutto recuperato, passato al vaglio del Direttore, e da questi fatto arrivare nelle mani del lettore. Forse.
Forse, dopo una discesa nel pozzo che pure è approfondita, restano al lettore le domande in attesa di definizione: cos’è l’Istituto? Da dove si entra? Ha un solo ingresso, o si entra attraverso i sogni (o forse attraverso una pozza di olio motore in mezzo a un cerchio di sicomori)? Ha una sola forma, o è mutevole? Ha una sola pianta, o è la temuta e inflazionata parola con la elle?
Devi per forza, per poter dire di conoscerlo, passarci venticinque anni dentro, a sorseggiare caffè solido con il Direttore e a sopravvivere agli incubi?
Luciano Funetta presenta l’unica soluzione possibile, e cioè parziale: una faccia del prisma, dotata dei riflessi di tutte le altre, in attesa di provare un viaggio completo, sempre che sia possibile.
Sulla spiaggia, il Condannato affronta il buio della sera, mormorando fra sé: «Novemilanovecentonovantasette, novemilanovecentonovantotto, novemilanovecentonovantanove, die—», prima che un soffio di vento atterri la piccola piramide di sabbia che aveva costruito. Due lacrime gli scendono silenziose dagli angoli degli occhi, e poi: «Uno, due, tre, quattro…».
Di Giorgio Castriota Skanderbegh
In copertina: artwork by Julia Soboleva

