Di Elena Cirioni
In guerra un soldato può non lavarsi per giorni, mesi e portare gli stessi vestiti anche per un anno. Può avere i pidocchi, le piattole, le croste sotto le ascelle o tra le gambe, ma i piedi di un soldato in guerra devono essere sempre puliti. Tutto inizia da lì. Sono i piedi che ti porteranno dall’altra parte della collina, sono loro che ti sosteranno durante una corsa e che ti faranno rialzare dopo un salto. Anja lo sa. È stato suo fratello Adria a spiegarle come lavarsi i piedi, asciugarli bene e fasciarli.
Anja esce fuori dal rifugio, il cielo è grigio, l’aria sa di polvere e pioggia. Il giorno prima ha piovuto, prende il catino con l’acqua e rientra. Guarda la branda, la coperta, l’elmetto e la tracolla.
In guerra un soldato deve avere cura delle sue cose. Anja si siede sulla brandina, slaccia gli scarponi e si toglie le calze, rivede la sua pelle bianca sul pavimento grezzo e gelato. Immerge i piedi nel catino, l’acqua è fredda, poco pulita.
Ripensa a quando faceva il bagnetto a Kosta, il fratello più piccolo. Piangeva sempre perché l’acqua era troppo fredda o troppo calda o perché il sapone gli andava negli occhi. Anja gli cantava una canzone, gli dava un pupazzo – quello a forma di coniglio, il suo preferito – così stava fermo e poteva insaponargli i ricci biondi. Kosta aveva tanti capelli e già a sei mesi si vedeva che era un bambino robusto, con i piedi lunghi e forti. Anja si divertiva a fargli in testa una cresta con la schiuma; Kosta continuava a giocare con il suo pupazzo, ignaro di sembrare un gallo.
Anja di colpo si rende conto di come sono fragili i suoi piedi. Li vede piccoli e bianchi, la caviglia sottile, le dita minuscole; la faranno cadere, inciampare e allora non avrà scampo. Con una spugna scura e un pezzo di sapone li strofina forte, passa più volte in mezzo alle dita, dietro la caviglia. Dopo il lavaggio, c’è un passaggio fondamentale: asciugarli bene. In guerra un soldato deve avere sempre i piedi asciutti.
La piccola ferita sull’alluce destro è quasi guarita, il pus è sparito e non sente dolore. Strofina a
lungo tutte le dita con uno straccio scuro, poi si rinfila le calze. Prende uno scarpone: per farseli
andare bene deve riempirli con cartone e fogli di giornale, perciò sente se la carta sulla punta si è
consumata. Allenta i lacci e se li infila, vanno bene. Lentamente stringe le stringhe: questa è la parte più importante, da fare con molta cura, perché se un laccio salta durante una corsa o una marcia è la fine. Gli scarponi ben allacciati sono l’unico sostegno che un soldato ha in guerra. Adria lo diceva sempre.
Da giorni gli altri compagni evitano di guardarsi, parlano piano con gli occhi bassi, la sera attorno al fuoco non cantano più. Prima, anche se era pericoloso accedevano il fuoco con quello che c’era e poi giù a cantare. Un soldato deve sapere tutte le canzoni di guerra. Anja accucciata accanto
al fratello le ripeteva nella sua testa. Una volta le aveva intonate veramente e Luka le aveva passato la bottiglia di grappa, aveva guardato Adria e aveva detto: «Certo, anche lei adesso è un soldato». Anja aveva fatto finta di bere perché solo l’odore di quella grappa le dava la nausea, ma ora che era un soldato non poteva dire di no. In guerra un soldato deve bere.
Qualche anno prima, quando andava a scuola e la maestra domandava alla classe cosa volessero
fare da grandi, tutti i maschi rispondevano: il soldato. Le femmine: l’infermiera, l’insegnante, la
ballerina. Lei non lo sapeva, ma per comodità rispondeva una di queste cose. Ora Anja non è
grande, ma è un soldato. Lo pensa specchiandosi nel vetro rotto della finestra; il corpo mingherlino è coperto dai pantaloni militari scuri e dalla maglia nera di Adria. Guarda a terra, verso i piedi: con gli scarponi ora sono al sicuro, più forti. La maglia di Adria ha un buco sempre più grande, anche se ora non ha tempo, deve ricucirlo al più presto.
In guerra un soldato non ha mai abbastanza tempo.
Prende la tracolla, l’elmetto e con passi grandi e lenti si avvia verso l’uscita. Si passa una mano sul collo per toccare una collana fatta di spago. È il suo amuleto. In guerra un soldato deve avere un portafortuna sempre con sé.
Sull’uscio del rifugio Anja incontra Luka che le dà un buffetto sulla testa e ride; fuori c’è Goran, lo raggiunge.
«Vedi laggiù?» Goran le passa un binocolo, ma Anja è troppo bassa e non riesce a vedere niente,
allora la prende in braccio, se la metta a cavalcioni sulle spalle, come faceva Adria quando giocavano d’estate al lago. Anja avvicina il binocolo agli occhi.
«Li vedi?»
Annuisce. Sull’orizzonte dopo il muro, c’è la carcassa ancora fumante di una jeep. È saltata su una mina durante la notte.
«Quanti ne vedi?» Anja mette a fuoco, centra il binocolo sulla jeep, vede un corpo accanto alla macchina e un altro dentro.
«Due» risponde.
«Te la senti?»
Annuisce, mentre guarda la testa di Goran, la cicatrice che gli aveva fatto Adria qualche giorno
prima sulla fronte.
Una notte che Adria era di guardia e l’aveva lasciata a dormire sulla branda. Goran era entrato nella stanza, le si era sdraiato vicino; puzzava forte di alcol e canticchiava una canzone. S’era slacciato i pantaloni le aveva preso una mano e le aveva detto: «Prendilo».
Anja aveva ubbidito senza dire niente.
«Muovilo su e giù.»
Sentiva che quella cosa molle diventava più dura e grande. Poi era arrivato Adria, aveva preso
Goran per un braccio e l’aveva buttato per terra.
«Che cazzo fai, ha undici anni!»
«Meglio io che uno di quei porci.»
Adria gli aveva dato un cazzotto sulla testa e Goran era caduto a terra come se un cecchino gli
avesse sparato. Poi c’erano stati degli spari, qualcuno aveva gridato e fino all’alba erano rimasti
tutti e due di guardia.
La mattina dopo Adria le aveva parlato, serio, con lo stesso tono di quando le aveva detto che i
genitori erano morti e che la loro casa non esisteva più.
«Goran era ubriaco ieri sera, non voleva farti niente.»
Anja annuiva senza guardarlo.
«Ma tu non ti devi far toccare più. Hai capito?» Adria stava davanti a lei. «Non ti devi fare
toccare da nessuno» ripeteva.
Poi l’aveva abbracciata e si era messo a piangere. Anja non aveva mai visto il fratello piangere,
nemmeno davanti ai corpi dei genitori, nemmeno quando avevano seppellito Konsta nel giardino,
insieme al suo pupazzo a forma di coniglio. Gli altri li avevano lasciati dove stavano, non c’era
tempo per seppellirli. Ci avrebbe pensato qualcun altro.
Anja scende dalle spalle di Goran, sa di sudore e cipolla. Non sopporta il suo odore, la pelle unta,
le mani grandi e gli occhi neri.
«Luka è ubriaco» dice, mettendosi l’elmetto senza guardarlo. Goran si gira verso il rifugio, dove
Luka sta di guardia. «Adesso vado là io.» La fissa con l’elmetto, imbacuccata nei vestiti da uomo, molto più grandi di lei, sembra uno spaventa passeri. «Occhio là fuori.»
Anja annuisce, si volta e inizia a camminare verso il muro. Tocca di nuovo il suo amuleto.
Quello di Adria era la foto di una donna nuda. Ride.
In guerra un soldato deve ridere.
La terra si fa sempre più molle e umida, camminare è faticoso. Il fango si attacca sotto gli scarponi e li rende sempre più pesanti, ogni tanto deve fermarsi, pulirli e ripartire. Vicino al muro, quando sarà sotto il tiro dei cecchini, non potrà più farlo. Tocca per l’ultima volta il suo amuleto. Sulla corda di spago della collana ha attaccato un ricciolo dei capelli di Kosta. È riuscita strapparlo prima di seppellirlo. L’hanno riconosciuto solo per i capelli biondi, il resto del corpo era tutto nero, rigido, sembrava una bambola bruciata. La buca l’aveva scavata Adria.
Anja striscia per terra come fatto i gatti, così riesce a non farsi vedere dai cecchini. Adria le ha
insegnato anche questo.
Prima della guerra, quando vivevano a casa con i genitori, non la prendeva mai in considerazione: la picchiava e basta o le faceva scherzi terribili, come quella volta che le aveva messo una lucertola morta dentro il letto e la mamma lo aveva rincorso con la scopa. Anja ride ripensando a quella scena mentre a carponi s’avvicina al muro. Ma adesso deve restare seria, da lontano si vedono brillare le canne dei fucili dei cecchini.
Una volta raggiunto il muro, punta gli scarponi sui mattoni e sale. Adria faceva a gara per scavalcare lo steccato del giardino con gli amici, era sempre il più bravo: riusciva a farlo con un
salto. Ci aveva provato a insegnarglielo, ma non c’era stato niente da fare, lei era ancora troppo
bassa.
«Quando sarai grande, ce la farai» aveva detto.
Una cosa simile le aveva detto Goran, la notte prima, quando s’era infilato di nuovo nella sua
branda con i pantaloni abbassati e le aveva messo una mano in mezzo alle cosce.
«Quando sarai grande ti piacerà.»
Non deve pensare a questo ora. Arriva in cima al muro, lo scavalca veloce, passando dall’altra
parte, punta i piedi e si lascia cadere. Meglio non restare troppo tempo su, meglio lasciarsi andare
nel fango. Cade male stavolta, sulla spalla sinistra, per un attimo teme d’esserla rotta, poi il dolore passa, non è niente. Ma la maglia di Adria si è rotta. Guarda la manica sdrucita, i fili di lana tranciati in due, forse riuscirà a risistemarla.
Adria è morto due settimane prima, durante una ricognizione più a sud. Goran ha preso i suoi
scarponi, Luka la borraccia, a lei è rimasta la maglia e la tracolla. L’amuleto della donna nuda non è servito a proteggerlo. L’hanno sepolto in una buca, di notte. I morti in guerra si devono seppellire al buio, perché è più sicuro. Goran le ha dato una cartina dove ha disegnato un cerchio, lì sta Adria. Così una volta finita la guerra potrà tornare a trovarlo.
Avevano finito i sacchi neri per mettere i corpi, l’hanno seppellito dentro una coperta di lana
marrone. Non l’hanno fatto vedere ad Anja, anche se lei è abituata a vedere i morti. Ha visto solo i
piedi di Adria sbucare dalla coperta, erano grigi. Dalla parte della testa c’era una macchia di sangue nero; Goran le aveva detto che era stata una granata, e che secondo lui non aveva sofferto. Anja continuava a chiedersi come avrebbe fatto adesso Adria, senza scarponi.
Dopo la sepoltura nessuno aveva voglia di parlare. Luka aveva insistito per fare un brindisi ad
Adria, e avevano bevuto tutti, passandosi la bottiglia di grappa. Quella volta Anja aveva mandato
giù un’intera sorsata, ma non si ricordava di aver pianto.
«È bello morire da soldato in guerra» le aveva detto Goran. «Adria è morto da valoroso.»
Anja era rimasta rannicchiata nella branda, con il sapore cattivo nella grappa in bocca.
Il giorno dopo la morte di Andria, Goran l’aveva presa per mano per portarla in un villaggio
dove gente che veniva da fuori aveva allestito un campo: davano dei pacchi per i bambini. Bastava
mettersi in fila, aspettare il proprio turno e prendere il pacco. Goran aveva detto ad Anja di mettersi in fila. Non c’erano tante persone, l’unico bambino stava in braccio a una donna. Tutti e due avevano i volti smunti e grigi, come se fossero già morti. La donna aveva preso il pacco e aveva abbassato la testa senza dire niente. Poi era toccato ad Anja.
«Questo è un regalo per i bambini in guerra» le aveva detto un uomo con gli occhi chiari e le aveva consegnato un pacchetto lungo avvolto in una carta marrone legato, con uno spago. Io non
sono una bambina, aveva pensato Anja, ma aveva preso il pacchetto ed era tornata da Goran e Luka.
«Aprilo, siamo curiosi di vedere che c’è dentro!»
Anja aveva sciolto il laccio e aperto il pacco.
Per vedere meglio si era accovacciata a terra, lo stesso avevano fatto Goran e Luka. Se non fosse
stato per il sole caldo, la terra polverosa e l’odore acre di fumo, sarebbe potuta sembrare la mattina di Natale, sotto l’albero, trascorsa a scartare i regali.
Dal pacco erano venuti fuori tre quaderni con la copertina gialla, due a righe e uno a quadretti,
un mazzo di penne colorate e una bambola di pezza con i capelli biondi legati in due trecce. Anja
aveva preso la bambola con un gesto femminile, ma allo stesso tempo infantile, le aveva sistemato
la gonna di velluto e si era alzata in piedi. Era rimasta immobile, infagottata nella maglia di Andria con ancora il suo odore addosso, i pantaloni sformati, la tracolla e la bambola di pezza in mano.
«Le penne e i quaderni possiamo scambiarli con qualcos’altro» aveva detto Luka.
Anja aveva guardato i suoi compagni ancora seduti per terra intorno ai quaderni e alle penne.
«Di questa non me ne faccio niente.»
Aveva gettato la bambola senza più guardarla. Era rimasta per terra, con la faccia rivolta verso il
terreno polveroso. Avevano scambiato i quaderni e le penne con una cinta per stringere i pantaloni di Anja ed erano tornati verso il rifugio.
Ora Anja non si ricorda più né della bambola né delle penne e dei quaderni, sente bombe lontane,
rumori abituali, familiari come il battito del suo cuore; si rialza dal fango e si guarda intorno.
Striscia sulla terra e si augura che Adria sia morto senza soffrire e che ora sia con la madre, il padre e Kosta. Anche lei vorrebbe essere con loro. D’un tratto le viene voglia di alzarsi e farsi sparare dai cecchini. Un colpo secco in testa e sarebbero di nuovo tutti insieme: per sempre lontana da quel posto, dalla guerra, dalle mine, dai cecchini, dalle mani di Goran.
Anja, s’aggrappa alla terra per non alzarsi, continua a strisciare, arriva fino alla jeep. L’aria è ferma, esce un po’ di fumo dalla carcassa della macchina. Il primo corpo lo trova subito, quello disteso per terra. È intatto. Gli dà un calcio, un altro ancora. Non si muove.
Il primo cadavere l’aveva visto all’inizio della guerra. Tornava a casa con suo padre, avevano svoltato l’angolo e si erano trovati davanti il corpo d’uomo con un cappotto nero e una busta di plastica ancora stretta in mano. Anja prima aveva sentito tremare le gambe, dopo, con una stretta
forte allo stomaco, aveva vomitato, poi con il padre erano corsi verso casa.
Ora i morti non le mettono più paura, i vivi la terrorizzano. Deve fare in fretta: mette le mani nelle tasche della giacca del morto, fruga e trova un portafoglio scuro con la medaglietta di un Santo e una fotografia di una donna, dietro una scritta in una lingua sconosciuta. Era il suo amuleto, anche questo, come quello di Adria, non gli è servito. Il morto è di spalle; sforzandosi lo gira e lo guarda in faccia.
Ha i capelli neri, gli occhi all’indietro e la bocca aperta, assomiglia un po’ a Luka; se non fosse
per la divisa più chiara sarebbe proprio uguale a uno di loro. S’accorge che ha i pantaloni strappati, per un attimo si ritrae, poi lo guarda in silenzio. È la prima volta che Anja vede un uomo nudo. Il pene è simile a un verme grosso sotto un mucchio di peli neri; deve essere così anche quello di Goran, pensa.
Uno sparo fende l’aria. Non ha più tempo, deve andare. Sfila un binocolo dal collo del morto,
mette nella casacca tutte le altre cose e inizia a strisciare verso il muro. Un altro colpo, un altro
ancora, questa volta vicino a lei. L’hanno scoperta, deve andare più veloce. Uno sparo viene dal
rifugio, sono i suoi, Goran o Luke. È quasi arrivata al muro, sente le grida di Goran, il fucile di
Luke che s’inceppa, una bestemmia. Ora deve salire veloce, come faceva Adria, punta i piedi sul
muro, sale, è in cima, una grossa onda calda la raggiunge, la spinge nell’aria come una palla. Cade
per terra e rimane ferma nel buio.
«Anja, svelta corri!»
Per un attimo vede Adria sopra di lei e crede di essere morta, poi riconosce Goran, che la prende
per un braccio; iniziano a correre verso il rifugio. Le fa un po’ male la spalla, un ginocchio, ma è
viva, e anche Goran sta bene. Luka invece è morto, la granata non gli ha dato scampo. Non hanno
tempo per seppellirlo come hanno fatto con Adria, lo lasciano lì, sotto ai mattoni del muro, quella è la sua tomba.
Nel rifugio sono arrivare altre persone, tutti uomini. Caricano armi e altri sacchi su un camion.
Dicono che la guerra è persa. Anja si chiede che farà adesso. Seguirà Goran. Dicono che bisogna
lasciare il paese, andare via. Tutto è perduto.
In guerra un soldato, quando tutto è perduto, deve lasciare ogni cosa.
I suoi genitori, Adria, Kosta, Luka, il morto che aveva visto quel giorno con suo padre, tutti i corpi che ha toccato e spogliato, compreso quello nudo. Tutti morti per niente. Goran la prende in
braccio e la mette su un camion. Anja non sa dove andrà, si guarda i piedi infangati, la spalla le fa
male. L’uomo che guida il camion ha due baffi scuri.
«Quando sarai grande racconterai tutto ai tuoi figli.»
Ride e ha i denti neri, le mette una mano su una coscia. Anja resta in silenzio, guarda la strada dritta davanti a sé, tocca la collana di spago, sfiora con le dita il ricciolo di capelli di Kosta.
Pensa che in guerra i soldati non diventano mai grandi.
Quando sarai grande è apparso per la prima volta su Malgrado le mosche, che salutiamo e ringraziamo <3
Qui, il racconto, è nella sua versione più estesa.
In copertina: Pass by, photo by #wrappednil

