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Il demone dell’analogia #86: Silva

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».

Mario Praz

 

 

Artwork by Horacio Quiroz

 


 

CESARE PAVESE

Un sabato di troppo, in quella stanza
dove il mio vizio assurdo ho penetrato
come meglio ho potuto, da impotente,
guardandomi allo specchio, lentamente.
Era d’agosto brutto e nel grigiore
mute rose di plastica in quel vaso.

Da Ultima fermata Spoon River di Paola Deplano

 

 

Abba (“acqua”)

Compá!
Alla festa ci vieni?
Eh, la fanno alla piazza nuova,
appu puru incingiau sa bistimenta bona
e si suona, si balla, si beve…

Che dici?
Se piove?
Eh, ma itta,
da mo che non piove!
Manc’una stidda e’abba,
neanche una goccia d’acqua.
Eh, e noi qua,
a ballai “sa danza”
su questa terra, ma secca!
che sembra una tavola.
E manc’una stidda e’abba,
manco una goccia d’acqua,
manco una tregua da questo scirocco,
il tanto che basta a guarire la gola
e trovare la voce per implorarla,
la pioggia!

Per questo che
– dopo la festa –
si fa il rituale,
giù al pozzo,
in paese.
Rituale sacro dell’acqua,
durante il quale il canto declama:
Attento, Signore, che
se quest’anno non piove
anneghiamo la prole nel pozzo,
la tua! Come
Maria Maddalena, no?
laviamo tuo figlio
in forma terrena
di crocifisso e allora
ci vendichiamo!

ché tu, finora, hai fornito soltanto
aridi squarci di morte,
distese bastarde di polvere,
e avide anime ingorde,
e tando occimos pur’issos!
uccidiamo anche loro
pur di far piovere quelle due volte,
quelle due misere, ultime volte,
una: per le rose in aprile e
due: per sentirne l’odore e dire che sì,
è dolce come le storie
raccontano, forse di più.

Ma questo è il passato.
Fa ridere oggi:
Popoli ignoranti,
così diversi dai nostri!
Uomini scaramantici!
da ritenere che le catastrofi
altro non siano che colpe di altri.
Da non sapere chi eleggere
a falso carnefice
e nel cercarlo mirare più in alto
del cielo, che basterebbe invece
aggiustare il tiro.

Magari imputare un dio
che è più in basso di loro,
magari provare a proteggere
l’immacolato
valore del Fango
e sapere che il tango
tra noi e il mondo
altro non è che un ballo di coppia.
E che basterebbe ballarlo,
solo ballarlo,
con tutto l’amore
che abbiamo nel petto.
e ballarlo,
solo ballarlo,
con tutto il trasporto
che c’era un tempo.

Compá! Alla festa ci vieni?
si suona, si balla, si beve…
Che dici? Se piove?
Eh, se piove
lasciamo piovere.
e sotto la pioggia
ancora
balliamo.

Inedito di Maria Oppo

 

 

La prima sera nella casa nuova mi addormentai presto, e sognai un prato sconfinato su cui ma’ camminava nuda – la sua pelle bianca, la luna in cielo opaca come un’ostia. Camminava e mi dava la schiena e io la guardavo andare ma sentivo di non poterla seguire. Ero un albero, radicato a fondo, ero un palo ficcato nel terreno, non so. Camminava dritta, ogni tanto curvava ad angolo retto e riprendeva a camminare, fin quando la quiete si rompeva. Il terreno, l’erba iniziava a tremare, tutto si faceva più confuso e la linea di demarcazione dell’orizzonte, il confine terra- cielo davanti a noi, si ispessiva, una linea nera sempre più netta che poi si sgranava in tante schegge, centinaia di frammenti scuri e multiformi, lontani, poi più vicini. Cavalli. Bestie scure e galoppanti che ci venivano addosso. Le criniere alte, il pelo rado solcato dai riflessi. Ma’ si immobilizzava, proteggeva il seno incrociando gli avambracci e dava la schiena alla mandria: guardava me. Urlava. I cavalli la raggiungevano e il gruppo la inglobava, investendola con la sua furia. Mi svegliai un attimo prima di essere investito anch’io. Il lenzuolo mi pesava addosso come una spugna bagnata, caldo. Mi alzai nel buio incompleto della stanza – fasci romboidali di luce mandati dai fanali delle auto spazzavano le pareti da destra a sinistra, in continuazione – ed ebbi come la certezza, il sentimento esatto di dover porre rimedio a qualcosa.

Da Lo sparo di Simone Beretta

 


In copertina: artwork by Horacio Quiroz


 

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