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Il demone dell’analogia #85: Poetarum

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».

Mario Praz

 

Artwork by Horacio Quiroz

 

Come se fossimo morti

Non vedo baci e nemmeno caffè
in questo risveglio bianco
di lenzuola e lino stirato
Proust e Böll sul tavolino, il mio tabacco rovesciato
i bicchieri sporchi di ieri sera
la mia unica colpa.
Soffro il tempo, infedele
mi affaccio all’assoluto
così come alla fine
sei cresciuta camminando scalza
e ne hai le forme sotto i piedi
dici
dico
che a prescindere da te
non lo è mai stato.
Poi i miei polsi, i tuoi bracciali, l’uva sopra la testa
ancora il bianco
dei muri, del tuo vestito, della mia camicia, del divano
fare l’amore
la spesa al supermercato, tu
chiamalo pure niente.
A chi importa? Mi brucia le labbra
la sigaretta dell’insonnia.

“Mi piaceva vederti sorridere” ti ho detto.
“Come se fossimo morti.”

 

Inedito di Mauro Massari

 

La notte si allarga
e le cose ci stanno tutte insieme –
amore ingoiato nel sonno
che manca.
Si insinua la dimenticanza e muori
così tante volte
che è un taglio la memoria
scucito.
E sei un mandorlo bianco,
un germoglio sul ramo.

Da Inavvertita luce di Annachiara Atzei

 

 

E invece quella era la realtà e non c’era più niente da immaginare, c’era qualcosa di diverso da leggere fra le righe. Non somigliavo più a me stesso, ma ai suoi orrendi quadri, agli uomini che aveva attratto e allora distolsi lo sguardo da lui e da quello specchio ostinato e pieno di macchie e mi asciugai il sudore che sentivo puntuale sulla fronte.
L’artista si accasciò sulla sua solita poltrona, poi, per un brevissimo lasso di secondi, si tenne la testa, come se fastidiose fitte gli rimproverassero quel pensiero che profetizzava il suo stesso suicidio, forse stava già immaginando come fare; si appoggiò sullo schienale nell’atto di rivolgere al soffitto lo sguardo verdissimo dei suoi occhi, come se potesse vedere ugualmente le stelle là fuori, mentre la notte covava altri incubi.
Mi sentii solo. Come poteva chiedermi una cosa di quel tipo? Come poteva voler morire uno come lui?

Tratto da La febbre dell’io di Giulia Bocchio

 

 

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