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Speciale Premio Strega Poesia 2023: Sotto falso nome, Stefano Simoncelli (una rubrica a cura di Annachiara Atzei)

 

 

“Niente è più vero di quello che desideriamo vedere”.
Di questo, Stefano Simoncelli è convinto, e intorno al desiderio di trattenere nello sguardo ciò che il tempo ha strappato si concentra tutta la sua filosofia. Il vuoto lasciato dalle persone a lui più care lo spinge necessariamente verso la poesia attraverso la quale, frase per frase, crea una verità nuova e personale, fatta di ritratti essenziali, luoghi minimi e memorie. Oggi, l’autore vive nelle colline di Acquarola, vicino a Cesena, ma i suo i natali a Cesenatico ne fanno un uomo dagli occhi di mare e che, dal mare – insieme a una periferia di bar e darsene – ha tratto gran parte dell’ispirazione e condizione della scrittura.
Si scopre poeta passati i ventidue anni, grazie all’amico e collega Ferruccio Benzoni, dopo una prima giovinezza dedicata alla carriera sportiva, prima come calciatore e in seguito come tennista, in questo ricordando – per rapida associazione di idee – il francese Thierry Metz che fu campione di sollevamento pesi prima di imporsi come autore. Negli anni Settanta, è tra i fondatori della rivista Sul Porto – che si occupa di letteratura e politica – alla quale collaborano grandi nomi della cultura come, per citarne alcuni, Pierpaolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Giovanni Raboni e Vittorio Sereni. Dopo quasi quindici anni di silenzio trascorsi in un riserbo discreto, in seguito alla morte della madre – evento che rompe dolorosamente gli argini della sua arte – nel 2004 riprende a scrivere e da lì in poi la sua produzione letteraria sarà prolifica e ininterrotta. È autore di numerose raccolte – sempre per Pequod, sua storica casa editrice – tra cui: Giocavo all’ala (2004), Prove del diluvio (2017), La paura dei tuoni (2019), A beneficio degli assenti (2020), Un barelliere del turno di notte (2021), ed è di nuovo in libreria con Stazioni remote (Marcos y Marcos, 2023).
La poesia, per Simoncelli, è un mezzo di soccorso. Nei suoi libri, il dialogo con i morti è costante ed è strumento per riallacciare un rapporto con gli affetti perduti. Nei componimenti torna di continuo la figura dei genitori: il padre, prima contestato e poi amato fortemente, e la madre della quale scrive, in uno dei suoi versi più suggestivi, di sentire ancora l’odore, perfino nell’acqua che scorre. La scomparsa della prima moglie, infine, e di molti degli amici più intimi, lo lascia in una solitudine profonda e difficile da affrontare. Trova così la salvezza nel tempo parallelo della poesia che scorre insieme alle ore del quotidiano inventando un mondo altro, fuori da quello asfittico in cui sente di essersi ritrovato a vagare.
Sotto falso nome, pubblicato ancora una volta per l’editore anconetano nel 2022 e finalista del Premio Strega Poesia, lo mette di nuovo in contatto sentimentale con chi non c’è più, che l’autore non teme di invocare o, meglio, di ricordare, proprio nel senso etimologico che il termine ha: per Simoncelli, infatti, il luogo dei morti rimane il cuore.

Stefano Simocelli, foto di Daniele Ferroni

Il sentimento che si avverte in questo lavoro è lo spaesamento e la fatica dell’autore di rimanere aggrappato alla vita, in una casa vuota in cui l’ultima testimonianza di chi l’ha abitata sono i vestiti dentro gli armadi e gli oggetti abbandonati nei cassetti. Scrive: Il tormento dice che non posso restare/ in questa casa più di due o tre giorni/ nemmeno se cambiassi aspetto/ e sotto falso nome. Mi sento la colpa/ dei sopravvissuti, in ostaggio e stremato”, eppure – ammette – c’è qualcosa che lo trattiene: l’idea di un sogno, o forse una visione, in cui chi non è più vivo si manifesti e gli stia vicino in una reciproca consolazione: “Due volte nella stessa notte ho sognato/ che eravamo a passeggio in un parco (…) e la nostra conversazione era intima, spensierata/ e piena di tenerezza”.
In questi luoghi sgombrati dall’umano, ma che dell’umano hanno proprio il senso della perdita e del distacco, il poeta sembra quasi voler scomparire, farsi nebbia, ombra o buio, in una sorta di dissolvenza desiderata e attesa. Lui stesso sogno. Certe irrimediabili assenze lo portano a voler sbiadire lentamente e confondersi col resto, come se smettendo di riconoscersi nel rapporto dialettico con l’altro, fosse venuto meno il senso dell’identità e dell’esistere. Simoncelli usa, allora, versi come questi: “Sento che evaporo come fossi pioggia o rugiada”, oppure: “Bruciatemi – chiede – poi, verso sera disperdetemi”, o ancora: “Ho elaborato un piano: mimetizzarmi un poco/ alla volta (…) scomparire”. L’autore confessa di non sentire più alcun bisogno della vita e di volersi proiettare in un oltre più rassicurante perché i giorni, ora, sono pervasi da uno straziante senso del lontano e dell’irraggiungibile e vecchiaia o morte non fanno più differenza, se l’isolamento in cui è precipitato è la sola condizione dello stare al mondo.
Ma è possibile reagire? E qual è il modo di creare un ponte con chi si trova in un altro universo, in chissà che tenebra o luce accecante? Avere un obiettivo. Scrivere. Pensare a un libro in cui qualcuno è ancora presente e sia possibile parlargli. Mandare cartoline al silenzio. E immaginare che, dall’altra parte, quel qualcuno risponda, invii un messaggio, chiami. Ecco che, in questo modo, la distanza si annulla e quell’ordine postumo della casa vuota nominato in uno dei versi della raccolta acquista l’unico significato possibile, quello di ricevere finalmente una visita improvvisa o un ritorno. Del resto, come per Borges, è reale ciò che del reale distinguiamo e di questo possiamo almeno possederne l’immagine per sempre.
“Ho visto qualcuno arrivare/ da distanze impossibili,/ impercorribili, abbracciarmi forte”: in queste parole di Simoncelli la pulsione di rivedere chi si è amato diventa definitivamente percezione tangibile dell’altro, nuova verità e immanenza. Qualcosa si dissolve – è certo – ma qualcos’altro attraversa un aldilà sconosciuto e diverso per riemergere qui e addolcire una lunga e inevitabile speranza.

 

Speciale Premio Strega Poesia
Una rubrica a cura di Annachiara Atzei


Cinque poesie da Sotto falso nome (peQuod, 2022)

Il tormento dice che non posso restare
in questa casa più di due o tre giorni
nemmeno se cambiassi aspetto

e sotto falso nome. Mi sento la colpa
dei sopravvissuti, in ostaggio e stremato
come se avessi camminato per chilometri

e chilometri nella neve fino alle ginocchia.
Eppure mi impongo di resistere passando
da una camera all’altra e su per le scale

fino al soppalco dove mi butto sul letto
sperando di addormentarmi presto
e sognare che sei giovane, allegra

e immensamente innamorata.
*

L’alba si è come rattrappita
sui versanti delle colline
che guardo dalla ferita

di una finestra a ghigliottina
mentre una neve misericordiosa
copre come un lenzuolo funebre le tracce

di chi se n’è andato per sempre.
Ho così tanti lutti sulle spalle,
così tanto silenzio e dolore

che in momenti di grazia
o forse di senile demenza
sento addosso la tenerezza

dei soffi e turbini d’aria
con cui mi accarezzano
e baciano i miei morti.
*

Quasi ogni notte spenta la luce,
il libro e gli occhiali sul pavimento,
trattenendo il respiro più che posso

immagino come sarà la mia morte
e vedo una figurina in disparte,
paziente, smangiata dal male

come era diventata mia madre
poco prima che fluttuasse
in chissà quale etere

dolcemente arresa
e annientata. Anch’io
spero di consumarmi così,

tutto sguardo, pelle e ossa,
in una quieta demenza
di visioni e morfine
*

È come se guardassi gli anni
dietro un vetro smerigliato,
opaco o rigato di pioggia,

sempre più indistinguibili, confusi
ma è rimasta intatta nella mia memoria
ogni giorno più provvisoria, la tua comparsa

nella vestaglia di seta viola aperta sulle gambe
slanciate, eleganti, le caviglie impareggiabili,
mentre salivi le ripide scale di questa casa

a due piani («da vecchi le malediremo»
imprecavi) per venirmi a trovare.
È questa la scena che rivedo

nelle insonni notti solitarie.
*

Dicono che me la sto cavando
e può darsi sia vero. Leggo, scrivo
e ogni tanto guardo la tua fotografia,

l’unica che ho conservato, carezzandola
con la punta del dito mentre sorridi
e sorridi benissimo

come le volte che ti raccontavo
qualcosa di divertente o una sciocchezza
se ti vedevo triste, malinconica, il muso lungo.
«Cos’è che non va, principessa?» ti chiedevo
sapendo che la colpa era mia,
sempre e soltanto mia,

ipocrita che non sono altro,
tale e quale a mio pare che detestavo
finendo per imitarlo e amarlo più di me stesso.

Non me la sto cavando. Affondo ogni giorno
un poco, invecchio, stravedo e se allungo
una mano dall’altra parte del letto

o se per uno spostamento dell’aria
si spalanca e si chiude una porta di colpo,
se mi sembra di sentire appena un respiro

alle spalle o se sussurrano il mio nome
da qualche parte che non vedo
è a te, principessa, che penso.
*

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