Κάϊν: la III edizione del Festival dell’arte Nomadica : un’anteprima

 

 

 

 

“tra remi e rocce
si si smagra con gli spersi

il mio giglio

e nell’orcio delle

voraghe del mare

affoga la sua voce

nei bisbigli delle valve.

Nel fondo, socchiusa nell’ovario è la voce, il ticchettio,
il diluvio, il fiume raggrumato
e il fossile scarnito
del gemello .

 

E il Dnepr si afflosciò
e la risacca aprì la sua fonte;
Il fiume gonfiava le sue bolle
traboccavano i fumi
sbocciava un fiato
sghiacciava dal fosso
una luna, due, salendo
alla casa d’eclissi
E Gaya guardava
sgocciare i Mhyr, i suoi figli abbarrati
in vagiti di lune latenti.”

 

Tempo, acqua e sangue: qualcosa di ancestrale lega questa triade, ed è il perpetuo scorrere.
La ramificazione dell’essenza che ha fame di spazio, che plasma la materia, trascendendo l’esistenza stessa di un luogo o di un corpo. L’immagine è la parola e la parola sconfina nel pensiero che è costruzione e decostruzione costante di limiti, incertezze e metafore sociali.
Tra grani e polveri s’apriva, schiumante, la Valle del Sacco e sotto scorreva il fiume, marcio e intossicato.
In esso si specchia lo spettro di comunità passate che hanno sacrificato se stesse e i propri figli in nome del denaro, del potere capitalista, della sovrapproduzione, dello sfruttamento delle risorse.
E nella rena, dischiusa e volatile, un’ombra collettiva nuota fra le sue acque. Il fondo è limaccioso, perché è annegato qualcosa lì, ma ne è rimasto lo spirito. Uno spirito che conserva la latenza di una vita che annaspa, di una rinascita possibile e che ha il volto della trasformazione: quel fiume è il fiume Sacco.
Un tempo non lontano si specchiarono in lui venticinque mucche al pascolo, le innocenti morirono tutte, fatalmente avvelenate dall’arsenico. Si accasciarono sull’erba tremanti, la bocca convulsa spalancata in una smorfia di dolore e spasmo, la lingua gonfia. Le trovarono poco dopo, danzavano mosche sulle loro retine. Lenta lo loro agonia, veloce la notizia sui giornali, tragedia fagocita tragedia, sino alla prossima.
I loro occhi, oggi, sono anche i nostri, quella transumanza è il nostro nuovo passo.
Spes vermis et ego: saremo dalla parte del verme, l’impronta della carcassa.
Per ogni giorno che muore una nuova notte nasce: saranno e saremo il totem di questa terra intossicata, svuotata, macchiata.

E poi c’è un uomo, il biblico figlio di Adamo ed Eva, la cui colpa è a sua volta una macchia, una leggenda insanguinata, un incubo che sibila intorno a un fuoco. Osserviamone il racconto: i testi (e non li chiameremo sacri) narrano un omicidio, la prima cronaca di un fratricidio, l’est-etica della punizione: per aver tentato di divenire il solo padrone della Terra, eccolo condannato a vagare errabondo su di essa. Lo seguiremo perché nessuno mai lo uccise a sua volta, pena una vendetta da subire sette volte. Seguiremo la sua lunga e labirintica discendenza. La mappa che la memoria primordiale ci concede è una ramificazione di eventi e arterie che si intrecciano al tempo e alla storia, ne siamo interpreti e ne siamo simboli, ne siamo la genesi e l’apocalisse.
Chi dice che la genetica non sia una traccia di reincarnazione? Ci mischieremo le ossa perché il dna è un mosaico di piastrine e ci piove addosso.
La caduta di ciascuno cosa aggiunge alle rovine del mondo? Le rovine le ricomporremo e ricomporre significa edificare una nuova concezione dello spazio umano e urbano. Abiteremo la frattura di questa valle, di questo territorio, la cui geografia è una percezione fisica e una versione possibile di un mondo.
Ma tra l’anima e l’armonia di un mondo si situa l’arte che le esprime: Κάϊν è la III edizione del Festival dell’arte Nomadica [1].
Il 22, 23 e 24 [2] settembre saranno i nuovi giorni del passaggio: perché “Dopo la fine di Chronos, un vasto deserto si distendeva. In esso stavano le mappe dei secoli in rovina. Tutti i luoghi, un luogo. E la bambina avanza e li scruta”.
Ferentino, metonimia della più vasta Valle del Sacco, sarà l’epicentro della ri-simbolizzazione post – urbana di uno spazio che diviene vivo e brulicante teatro a cielo aperto all’interno del quale creazione e memoria lastricano nuovi sentieri, nuovi angoli, nuove vie per il rinnovo di una comunità aperta e non cannabalica nei confronti della natura, della diversità e della sostenibilità.
È un’autentica chiamata a raccolta, è un attraversamento, un connubio di strumenti fra i più diversi e stratificati, dall’arte figurativa, all’immersione teatrale, dall’eco della parola, all’inseminazione musicale, sino ad approdare al silenzio del passo e del fuoco.
Esserci significherà abitare anche un immaginario, l’imagus che è l’effetto dell’immaginazione proveniente da quel repertorio simbolico generato dalla cultura e dalla formazione: dal fantastico al chimerico, dalla parola al mito, ecco che il pensiero di ognuno contribuisce e contribuirà a dar vita a una rappresentazione, suggello della libertà e dello spirito vitale dell’essere umano.
Qui la Valle del Sacco – con le sue storture, i suoi detriti, il suo abusivismo e le sue cancrene – diventa struttura metafisica di quella forma-mondo che il rito in cammino, il rito nomadico, tratteggia, e con i suoi elementi narrativi linguistici e non linguistici permetterà la riemersione di un’immaginazione cosmogonica nuova. In perpetuo divenire…

 

Giulia Bocchio x Festival dell’arte Nomadica III ed.

 

 

 


Note

[1]Deserti – Nomadi – Rinascite: il festival nasce nel 2021, da un’idea di Danilo Paris e un dialogo con Mara Pennacchia poi sviluppato con Giammarco Pizzutelli, Charissa Volponi, Giuseppe Cellitti, Lorenzo Sisti, Luca Cialone e Germana de Vincenzi, ampliato con la collaborazione di Materia Creativa  e l’aiuto di Chiara Gerpini (Associazione Minima). Si tratta di una pratica di ri-familiarizzazione simbolica degli spazi del paese di Ferentino, colpiti dall’abbandono e da una più generale crisi dei luoghi in quanto spazi di incontro e memoria. All’interno del festival, Ferentino è metonimia della più vasta Valle del Sacco, il cui fiume è il terzo più inquinato d’Europa. La parola nomade proviene da una riflessione sul concetto di deserto presente in mille-piani di Gilles Deleuze&Guattari: nomade non è tanto lo spostarsi, quanto l’abitare il deserto, deserto quale è un luogo che sacrifica la vita di abitanti ed ecosistemi e immaginari per motivazioni speculative, di igiene e di economia. Il festival è un esercizio di risveglio del potere immaginale latente e sopito dei luoghi. Ogni nuovo partecipante è un visitatore nomade, un erede di Caino, che condiziona la configurazione spaziale precedentemente consolidata. Esercizio di abitare sistemico e complesso: l’ospite nomadizza l’ospitante e viceversa.

[2]Questo rito di passaggio sarà inaugurato da un battesimo in celluloide, il 15 Settembre, con il titolo Futura. Si tratta della sezione cinematografica/fotografica, all’interno della quale verrà presentato il libro di Arianna Massimi, Next Generation, un reportage fotografico-giornalistico sul popolo migrante residente a Roma.

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