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L’estate dell’umanità periferica giorno VI : Fame collettiva

Construct V-?, digital collage by Muff

 

Il cielo è un velo rischiarato da raggi laser di luce flebile, che trafiggono le nuvole sopra la mia testa, mentre con gli occhi rivolti verso l’alto un angelo con un’ala sola sbuca da una micro fessura scissa in altrettanti arcobaleni multicolori. Le giornate scorrono una dietro l’altra senza distinzione, e le rondini trapassano la volta celeste illuminando retrospettivamente le orme dei miei passi sulla sabbia, dove per errore avevo scritto T’amo.
Un cane insegue un essere umano che lo teneva al guinzaglio, un bambino annusa della plastilina appiccicata tra le dita sporche di patatine al formaggio, un pesce acrobatico si eleva al di sopra del mare per compiere una coreografia perfetta contorcendosi su se stesso emettendo un suono inarticolato, che mi riporta a certe ouverture ascoltate quando il sipario è ancora calato e senti venire, come una eco lontana, accordi che si stringono simili a movimenti a tenaglia per circondare il nemico nella sua postazione.
Il mare è una distesa salata di inquietudini spente sul nascere, il sole un orizzonte crepuscolare steso sopra le nostre facce stanche, impresse come incudini sui pezzi di marmo inscalfibili delle nostre incertezze.
Lasciai casa quando avevo tutto, cioè niente. Mi imbarcai con i denti d’oro e bracciali di cristalli, un arcobaleno in tasca e un cerchio d’argento sulla testa; infransi i miei sogni sugli scogli spogli di questa distesa infinita d’acqua, e sotto i miei piedi schifosi lasciai crescere le radici come edera sui tetti, mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno a cui tendere la mano, ma trovai soltanto nocche dure e terra arida.
Il mondo è un taglio all’altezza del torace, con il cuore che sanguina e gli occhi che piangono. Tutto questo l’ho capito presto, almeno da quando ho aperto le mie mani tendendole a quelle di una qualche entità che, soltanto tempo dopo, scoprii essere rinominata dai più con l’appellativo di madre. Ma io dei genitori veri e propri non ne ho mai avuti, né saprei cosa farmene ormai.
Un aquilone prende il volo trasalendo sul pianoforte dei miei pensieri che si rincorrono, e che forse si conoscono tra di loro, sullo sfondo di una qualche stella sparuta rinchiusa nella sua ermetica solitudine, e il mio telefono che si illumina a intermittenze scandite di solito da una decina di minuti per ricordarmi che sta succedendo qualcosa: sta sempre succedendo qualcosa. Il bagliore termonucleare dei suoi cristalli liquidi a volte è la mia unica fonte di energia rinnovabile, quando trascorro le notti accartocciato sulle coperte rosa e verdi lasciatemi dalla Signora Teresa, e rivivo con gli occhi della mente il film della mia odissea, solcando mari impervi, torrenti impetuosi, salite scoscese, drammi incompresi, matrimoni solenni, nascita e morte del mio paese, della mia famiglia, delle galassie, costellazioni variopinte come i quadri che ho pescato fuori dal mio inconscio collettivo: lo stesso dell’universo intero, dove siamo tutti intrappolati dall’interno, e la coscienza è soltanto una gita al faro nel porto delle nevi raccolte sulla riva dei rimpianti.
Oh dio, ma è che ore sono? Avrò trascorso dieci ore qua disteso con il caldo alle tempie che zompano dalla grata del mio sistema nervoso, e gli occhi sono due diamanti incastonati nella macchina della mente che tutto guida, e orienta i miei passi claudicanti nell’oceano di niente da cui tutti proveniamo e a cui tutti torneremo.
Ho già vissuto questo tempo, che voi chiamate presente, ho già vissuto il futuro, che voi chiamate passato. Un cratere giallo tuorlo colerà dal cuore della terra infrangendosi sulle labbra salate, umettate di zucchero e candeggina per lavare via i rimorsi e i sensi di colpa: siamo tutti inconsciamente cristiani, e questa potrebbe essere la prova fattuale che Dio alberga in tutti noi, e coltiva il seme della nostra discordia dall’interno per renderci più simili tra di noi, ovvero più nemici, più divisi: perché l’odio è tutto, e l’amore è soltanto il suo involucro. 

Mi chiamano Jimmy, a volte sono Gianni, altre ancora sono il dolore delle ferite che mi infliggono quando mi trovano disteso su una qualche panchina in centro, e allora mi perquisiscono, mi trovano le tasche piene di sogni, e quindi di niente, le buste della spesa con dentro i biscotti di merda che mi rifilano i volontari di qualche centro per la povertà – come se la povertà la si potesse sconfiggere rimandando all’infinito il gesto estremo, quello che non abbiamo il coraggio di compiere da soli, e rincorriamo una indefinita speranza contronatura che un giorno ci risveglieremo e saremo guariti da tutte le nostre mancanze, e non avremo più bisogno di tendere la mano (come facevo da bambino a quella entità chiamata madre) per avere qualche briciola colorata per mangiare, e ancora mangiare, e non finire distesi lungo questa riva trascinati dalla corrente che inghiotte tutto: o Mare Nostrum Che Sei Nei Cieli, sia fatta la tua Volontà, venga il Regno: sono pronto –.
Ma che ore sono?, oh dio, sono le undici e mezza della notte del mondo, e i giochi sono ormai fatti. Quella che scrivo, ma che in realtà non conoscerà mai nessuno perché è tutta nella mia mente, sotto dettatura, è la mia lettera d’addio. Basta, ho chiuso con il mondo. Sono nato e non l’ho chiesto. Mi avete gettato in un barcone che non sapevo nemmeno il mio nome. Ho vagato con gli occhi giallo ocra e le fauci spalancate alla ricerca di un pezzo di pane, e ho trovato solo birra. Birra e vino che ho consumato nelle eterne solitudini del mio mendicare sollevando le labbra arricciate al soffitto della Cappella Sistina di baracche tumefatte, fatiscenti, con gli scarafaggi che mi camminavano sopra come fossi già mangime per il suolo, escremento incompreso, feticcio reificato dalla ricchezza di qualcun altro, che proprio per essere tale ha bisogno di me, di noi: perché siamo un esercito, e stiamo per marciare. Avanzeremo compatti diretti al palazzo dove tutto questo è stato deciso, vi spodesteremo dai posti che ricoprite per apparecchiarci sopra un banchetto che dovrà ricordare quello degli antichi romani, e vi taglieremo i polsi, divertendoci a guardarli grondare sangue dalle cicatrici aperte.  Perché l’unica consolazione che ho avuto fino a oggi sono state le poesie, quelle che scrivevo rincantucciato negli angoli bui di queste strade, perché le strade parlano, dopo essermi scolato una cassa di birra da solo, e mi sedevo di fronte ai cantieri, a guardare gli altri fare il mondo, conferirgli la sua forma predestinata, e io trasformavo i miei pensieri in golem di argilla, animati da una potenza perversa che non conosco, ma che in notti di luna piena si impossessa di me e mi fa fare cose che non so nemmeno di fare. Come adesso, oh dio, ma che sto facendo, sto urlando, sto sbraitando contro un cane, sto indicando un bambino, o forse è un pesce guizzante come una carpa che mi piacerebbe mangiare, e allora tutto questo non è altro che allucinazione indotta, anzi, è la conseguenza diretta della fame: la fame dei poeti assassinati, dei guitti, dei senza dio che quando aprono gli occhi ogni giorno non sanno distinguere che ore siano, in che mese e tantomeno l’anno.
Raccolgo le mie cose e me ne vado, tanto qua è tutto inutile. Non cambia niente, il mondo corre rapido e io resto fermo.
Mi calmo ora, e mi tolgo tutto. Resto senza vestiti, e mi guardo l’uccello: è forse qua la fonte di tutte le mie energie. E se una goccia del mio sperma sganciata qua, sulla riva, finendo in mare si trasformasse in oceano?, e poi ancora in Universo? Potrò dire anche io di aver seminato il nucleo della discordia, fatto nascere qualcosa, una qualche progenie che una volta aperti gli occhi potrà reclamare i suoi diritti alla prossima generazione che verrà, o magari sarà parte di quell’esercito di poveri che rovescerà l’ordine nella notte dei cristalli del nuovo mondo.
Cosa sono quelle luci che si vedono in lontananza? Sono venuti forse a prendermi?, anche se fosse: non mi avranno mai. Il mio nome è NESSUNO.

 

Omar Suboh
Poetarum Silva + Collettivo Montag

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