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Il demone dell’analogia #79: Cane

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».

Mario Praz

 

Leonardo Da Vinci, Studio di cane

 


I MIEI CANI

Io posseggo, e sono posseduto, da tre cani vivi e meravigliosi, forse non più belli degli altri cani che onorano questa valle di lacrime, comunque abbastanza meravigliosi. E cari.
Il primo è una boxer, di nome Tromba. Donde il vezzeggiativo Trombettina e l’abbreviazione Bettina, che comunemente si usa. Peccato che le abbiano tagliato male le orecchie, le quali pendono come quelle di un pipistrellino, ciò che non basta ad offuscare la sua sinuosa e provocante bellezza.
Creatura misteriosa, come sono troppo spesso le donne. Ha cinque anni. O sei? Preferisco non appurare. L’età dei cani fa paura. Vivono troppo poco. Vivono troppo meno di noi. Siamo costretti a vederli morire.
Il secondo è un boxer, di nome Napoleone III, però il terzo, nei discorsi familiari, viene per lo più tralasciato. È di ottima razza ma eccessivamente prognato, vale a dire la mascella inferiore è troppo sporgente. Per le sue forme e il suo comportamento, definirli sconcertanti è dire poco. Simpaticissimo e candido. Non ha ancora compiuto un anno. Di stupidità commovente.
Il terzo è un bulldog di nome Cicci, inglese. Ha appena compiuto tre mesi e sta tra l’ippopotamo, la cornamusa, il baule e gli angiolini di Raffaello Sanzio. Chi lo vede ne resta attanagliato. Arriverà molto, ma molto in alto, lasciatemelo credere. Non dico Presidente del Consiglio, ma quasi. Io posseggo, e sono posseduto, da quattro cani morti e meravigliosi, forse non più belli degli altri cani defunti nell’eternità del passato, che onorano questa valle di lacrime, comunque molto meravigliosi.
Il primo è un piccolo barbone e si chiama Tobi. Morì di nefrite alla Clinica veterinaria di Milano, coperto da una piccola gualdrappa di lana; e i medici, benché scienziati, furono molto pietosi.
Il secondo è un boxer di razza dubbia e si chiama Napoleone. Era giovinezza e primavera. Morì sotto un’automobile.
Il terzo è un magnifico barbone e si chiama Tobi come il precedente. Era un cane di immense capacità spirituali, capace di prendere da solo il tram giusto per andare da piazza della Repubblica a piazza Piemonte, e viceversa. Il tutto senza pagare il biglietto.
Il quarto è Napoleone II, il cane cui ho voluto e voglio ancora più bene. Non era un genio, ma non saprei dire il perché, era un cane immenso. Era il Moloc, era il dio degli Atzechi, era Sua Maestà, era la vita. Anche lui è morto. Di lui non resta più nulla se non una breve macchia sul muro bianco, sotto il tavolino, là dove si accucciava quando era arrabbiato o malinconico.
In questi giorni ho fatto imbiancare la casa ma quella macchia ho voluto che non la togliessero. È l’ultima cosa al mondo che rimane di lui, povero Napoleone. Però io la guardo, questa macchia (più che macchia è un’ombra sull’intonaco bianco). Di giorno in giorno misteriosamente impallidisce. Il tempo si porta via anche quella. Maledetto.

Monologo inciso da Dino Buzzati per la Rai il 10 marzo 1959

 

 

In questa notte di strappi invisibili
senza saperlo il mio cane prega
con le zampe intrecciate sul divano.
Ha negli occhi un sospetto di vertigine
una domanda di luce.

Testo inedito di Marco Brogi

Così tali parole fra loro dicevano:
e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie,
Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno
lo nutrì di sua mano (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra
partisse; e in passato lo conducevano i giovani
a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri;
ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,
sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte
ammucchiavano, perché poi lo portassero
i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo;
là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
E allora, come sentì vicino Odisseo,
mosse la coda, abbassò le due orecchie,
ma non poté correre incontro al padrone.
E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima,
facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva:
«Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame!
Bello di corpo, ma non posso capire
se fu anche rapido a correre con questa bellezza,
oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi,
per splendidezza i padroni li allevano».
E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi:
«Purtroppo è il cane d’un uomo morto lontano.
Se per bellezza e vigore fosse rimasto
come partendo per Troia lo lasciava Odisseo,
t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza.
Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia,
qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta.
Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano
dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano.
Perché i servi, quando i padroni non li governano,
non hanno voglia di far le cose a dovere;
metà del valore d’un uomo distrugge il tonante
Zeus, allorché schiavo giorno lo afferra».
Così detto, entrò nella comoda casa,
diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti.
E Argo la Moira di nera morte afferrò
appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.

Odissea di Omero (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)

2 risposte a “Il demone dell’analogia #79: Cane”

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