, , ,

L’estate dell’umanità periferica, giorno II: ‘È nuovo?’ ‘È raro’.

De-gio, Giulia Bocchio + Midjourney

 

Doveva essere una serata speciale, era la sera in cui ci saremmo detti addio definitivamente, doveva per forza essere speciale, anzi la migliore, un imperativo lucido di per sé, eppure sentimentalmente elaborato. Per organizzarla ho dovuto prendere e sprecare tre giorni di ferie.

Come prima tappa ho scelto il discount, quello più in periferia di tutti, semplicemente perché era il meno caro.
Aveva inaugurato da poco ma era già al centro della polemica sul giornale della provincia perché, mentre la ditta incaricata per sistemare gli ultimi lavori di muratura ultimava la zona parcheggio, erano misteriosamente morti alcuni pesci ospiti di una viscida fontana situata al lato opposto della strada, sì c’era una fontana decorativa e più in là una sorta di parco per bambini pieno di giochi scrostati e vecchi, sostanzialmente qualcuno aveva dato la colpa ai muratori, c’era chi aveva giurato di averli visti non solo pisciare con ardore machista nella suddetta fontana ma addirittura nell’atto di versarci dentro il contenuto di strane bottigliette e rifiuti di cantiere. La notizia era morta lì, insieme ai pesci. Era la prima volta che entravo in quel discount ed era giovedì, un tipico giovedì estivo, sudato e anonimo. Non c’era molta gente, ma mi sembrava di capire che l’età media del cliente medio fosse la cinquantina, ma c’erano anche un paio di mamme ultra quarantenni con bambini delle medie già muniti di quelle occhiaie tipiche dei conservanti delle merendine e delle pizze surgelate, dettagli a cui penserà il pediatra. Ero la più giovane lì dentro, ero certa di essere una presenza atipica, mi sentivo osservata a tratti. Mi piace essere guardata ma non quando ho voglia di rubacchiare qualcosa in pace, ma nei posti nuovi è difficile, prima bisogna studiarli. Ho fatto un giro senza né carrello né cestino fra i surgelati, a dire la verità ero senza idee, però avevo fame e ho preso un sacchetto di patatine gusto pizza e sono uscita. Pagando. Dicono di non andare mai al supermercato a stomaco vuoto, perché si tende a comprare più cibo junk del dovuto. Ho vuotato il sacchetto in pochi minuti, davanti alla fontanella, avevo le dita unte e sotto le unghie i resti giallastri di quella schifezza, mi sono pulita le mani nell’acqua ormai senza pesci.
Ci sono gesti che se osservati dall’esterno di se stessi restituiscono immagini originali rispetto al termine disperazione. Ma c’era in me anche molta inettitudine, lo riconosco.
È lì che mi è venuta l’idea, con le mani a bagno, è nata così, all’improvviso, nella solitudine e nella più superficiale indecisione. Tutto merita un brindisi mi sono detta. Esistono momenti, immagini, lampi che ti invadono il cervello e tu pensi che sia la svolta, la chiave per risorgere, per uscirne almeno. Sono tornata a casa con la nausea (non ho digerito le patatine, nessun’altra causa sospetta) e ho vuotato nel lavandino il contenuto di alcune bottigliette di plastica, tipo i muratori ma era casa mia ed era acqua sgasata da giorni, l’aveva aperta lui senza finirla, tipico di un coglione. Non è successo altro quel primo giorno di ferie, ed è proprio in giorni così che può succedere di tutto.
Si trattava di un invito a cena, sostanzialmente. Avrei dovuto organizzare qualcosa, non dico un vero e proprio menu, ma almeno un’idea per bere qualcosa. Ci avrei pensato dopo.

Il secondo giorno di ferie, venerdì, lo dedicai a un certo bar della città. Uno di quelli con le sedie in plastica fuori, occupate da uomini con la pancia gonfia e la barba unta, le unghie consumate, la disperazione che sibila attraverso il diastema. Quelli che insieme non abbiamo mai frequentato. Sono riflessioni inutili, lo so, ormai è deciso. È una serata per celebrare la fine. Verso le 15 uscii di casa portandomi dietro una bottiglietta di quelle vuotate il giorno precedente. Mi recai al bar ‘Degio’, un locale piccolissimo, abbastanza in centro, non così lontano dal nostro appartamento. Non c’ero mai stata ma lo conoscevo perfettamente perché tra gli amici di Facebook, non so come, avevo la proprietaria che condivideva l’attività con il marito. Lui si chiamava Dede e lei Giorgia, ecco la crasi dell’insegna. Erano stati per un periodo agli arresti domiciliari per spaccio, poi si erano riscattati e avevano aperto insieme il bar. Passavamo le serate a scandagliare i loro reciproci post molto melensi e boomer e una volta Dede aveva scritto, taggandola, una dichiarazione molto punk e quindi molto romantica: “Ti ho trovata che dormivi sui treni e guardaci adesso”, in allegato una loro foto dietro il bancone del locale con in mano birre talmente ghiacciate da indurre qualcuno a commentare “Solo voi servite la birra con l’abito da sposa, bellissimi e auguri”. Degio, non so pensarli individualmente, sembravano molto felici, più felici di noi, questo è certo, di una felicità molto psichedelica, prosaica e leggera, quelle tipiche facce che non sanno cosa sia l’ipocondria ad esempio. Sicuramente hanno anche loro (o hanno avuto) il vizio di rubare nei discount, solo che da quel punto di vista danno più nell’occhio, hanno qualcosa di malinconico e di strappato sul viso, sono figli del pregiudizio più banale e bieco, pagano bias culturali stupidi, che detesto, di me invece non lo direbbe nessuno (e infatti non sono mai stata scoperta) che mi eccita mettermi in tasca qualcosa, farmi piccoli regali, perché in fondo sono regali e nulla più di questo. Rubare è davvero un’altra faccenda. Comunque non so cosa ci spinge a spiare in maniera così compulsiva la quotidianità di persone che non frequenteremo mai, di sviscerare attraverso le loro pubblicazioni sui social dettagli inutili, che non riscattano nessuno. So che al bar Degio il martedì era dedicato all’aperibirra con asopao di pollo cucinato dalla ‘moglie di Ruben il Biondo’, così diceva la locandina. Quindi da una donna a cui non serviva nemmeno un nome. Dettaglio terribilmente sessista. Postavano anche i video di quelle serate, che erano sempre full di gente, sembravano pieni di amici e conoscenti pronti a far festa. Quindi verso il bar Degio nutrivo grosse aspettative. Quando arrivai lì comunque c’erano al massimo sette, otto persone, molto silenziose, tutte davanti alla solita birra e incollati al telefono. Però c’era lei dietro al bancone. Talmente onesta da non usare filtri, Giorgia era identica dal vivo. Poteva avere l’età portata male di mia madre, forse anche più giovane. Ho ordinato il caffè più acido e amaro mai bevuto ma l’obiettivo non era quello. Lei non sembrava però così socievole come nelle dirette Facebook (avida di contenuti l’ho ossessivamente cercata anche su Instagram e Tiktok ma non c’è, e nemmeno lui, è fedele al primo social che spopolò qui in Italia nello stesso anno della crisi economica), le ho sorriso in maniera maliziosa mentre bevevo dalla tazzina, mi ha guardata un po’ stranita, forse mi ha trovata ambigua, cosa molto eccitante comunque. Perché anche lì dentro ero una presenza insolita. La tentazione di rubare un cioccolatino dalla ciotola vicino alla cassa fu fortissima.
‘Passo sempre qui davanti, è la prima volta che mi fermo’. Le ho detto la cosa più banale per rompere l’imbarazzo generale. Sembrava la scena di un fotoromanzo, molto cringe.
‘Bene, dai’. Forse fa finta di non riconoscermi, possibile? Qualche volta le ho lasciato dei like. Certo è che io posto molto meno di lei-loro, anzi io Facebook non lo uso proprio, in ogni caso che cazzo di risposta è? Sembrava più brillante.
‘Scusa per il bagno?’
‘La porta a destra dietro l’ultimo tavolo, però il bagno delle donne ha lo sciacquone rotto, ti conviene andare in quello degli uomini perché non è ancora venuto nessuno, è da stamattina che aspetto’
‘Tranquilla, grazie’.
Con tutti i casini che hanno avuto (compreso uno sfratto che li ha uniti ancora di più, parola di un altro post molto commentato) non ha chiamato nessuno, stava aspettando sicuramente Dede, anzi forse Dede era da qualche parte a comprare pezzi di ricambio per il wc.
Scelgo ovviamente il bagno delle donne e non potrei desiderare altro. È stata onesta ancora una volta, effettivamente è intasato. È gonfio di carta igienica che contiene miscele di merda e sangue, chi l’ha usato prima di me aveva certamente il ciclo e un forte mal di pancia da asopao. Nella borsa però ho tutto quello che mi serve, specie i guanti che di solito uso per lavare il mio, di bagno.

L’ho fatto. Ho annusato il water del bar Degio, ci ho quasi messo la testa dentro per sentire l’aspro e il sudicio, per studiarne l’aroma, perché se una serata deve essere speciale deve esserlo nel senso più concreto possibile. Mi sono messa i guanti, ho infilato la mano destra nella tazza e ho preso tutto quello che potevo, cioè una poltiglia limacciosa e gocciolante, ho strizzato l’essenza di quella roba, distillandone le gocce e facendole finire nella bottiglia. Ma era poca cosa, non aveva senso, così ho infilato direttamente la bottiglietta nel wc e ho l’ho riempita. Il colore del contenuto era un marrone torbido, che tendeva al mattone. Un conato di vomito mi ha rovesciato lo stomaco, ma la colpa poteva anche essere del pessimo caffè che Giorgia mi aveva servito. Ho sputato la saliva schiumosa e ho chiuso il tappo. Ho messo tutto in borsa.
‘Scusami per il disagio del bagno ma è oggi è così’, che tenerezza lei. Ho pagato, uscendo le ho sorriso in una maniera che ho sperato percepisse maliziosa e che non ha nemmeno notato perché maneggiava la cassa. Ha ragione, è pur sempre la società della performance, tocca fatturare.

Sabato. Ultimo giorno di ferie e giorno della nostra serata. Ho pulito casa da cima a fondo, ho buttato via tutto quello che c’era di suo, che non era ancora venuto a riprendersi e che non gli sarebbe più servito.
Ho deciso di non pranzare e di fare un salto a dare un’occhiata alla spazzatura, al cassone dell’umido che c’è nel cortile in comune di questa palazzina. Luglio è il mese migliore, regala finitudini e putrescenze meravigliose. Per non dare nell’occhio ho fatto finta di buttare a mia volta della roba, ma sono tutti in ferie, quindi, nessuno mi avrà davvero notata. Con gli stessi guanti del giorno prima puntavo a un ingrediente speciale: la pelle del pesce, avete presente quella del branzino? Ecco. Non l’ho trovata. Ma ho trovato un’interessante vaschetta in plastica trasparente con dell’insalata russa ormai piena di strani puntini verdastri e un fondo d’olio di tutto rispetto. L’ho presa e portata in casa.
In frigo c’era già la bottiglietta del bar Degio, a quelle acque nere avrei aggiunto l’insalata russa resa liquida dal mini pimer e un po’ d’acqua di rubinetto. Sarebbe stato il nostro brindisi, prima di cominciare. Un brindisi che non prevede un lungo menu in effetti.
Nei tempi migliori, mi divertivo letteralmente a inventare cocktail sempre diversi e tutte le volte mi faceva sempre la stessa domanda ‘È nuovo?’, ‘È raro’, gli rispondevo io citando uno spot di Sorrentino. Vizio che non ho perso, anche se questa volta mi sono spinta un po’ in là.
Questa cosa dei cocktail e del cibo in generale ci divertiva perché lui soffre di un disturbo particolare, innocuo e pericoloso allo stesso tempo: anosmia congenita. In sintesi è la totale perdita del senso dell’olfatto. Non sente gli odori, non li ha mai sentiti. È nato così. È escluso da una porzione di mondo non indifferente, ma gli odori dei cessi del Degio chiunque se li risparmierebbe.
Ho shakerato gli ingredienti raccattati nei giorni di ferie più inutili di sempre, ho filtrato i residui di merda e ci ho aggiunto ghiaccio, colorante arancione e zucchero lungo i bordi del bicchiere. A vederlo, un drink liscio degno di un rooftop a Dubai. Bellissimo, curatissimo. La descrizione dell’odore ve lo risparmio.
Erano quasi le otto di sera, tutto pronto, tutto in ordine. Arriva.
Perché ci lasciamo? Non lo so, credo per noia, ormai insieme ci annoiamo e quando subentra la noia tutto si sgretola ma io stasera mi divertirò.
Dopo un po’ di tensione iniziale, lo convinco, facciamo il nostro ultimo brindisi. Lo beve tutto d’un fiato, ha fretta dice. La fretta aiuta in questi casi. Il suo viso si contorce in una smorfia che ricorda il soffocamento e il conato. In effetti vomita, poi si accascia a terra come un insetto rovesciato. Sembra sbronzo, sembra l’attimo prima di un coma etilico.
Io allora chiudo tutto, persiane, finestre, porte. E apro il gas. Il resto verrà da sé.
Scendo in fretta le scale, piango per la tensione, lo ammetto. Ma rido in maniera anche un po’ isterica e corro al bar Degio. Adesso voglio ubriacarmi anch’io. È sabato sera, non è la giornata dedicata all’asopao ma è pieno di gente, la musica è alta ed è vero, la loro birra ‘ha l’abito da sposa’.
Non sento l’esplosione.
Domani invece giureranno di averla sentita tutti.

Giulia Bocchio
Poetarum Silva + Collettivo Montag

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.