IL POETA* ……………………………………..
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Il poeta, pidocchio
delle leggende d’altrove, che lascia i solai
per giungere alle nostre case editrici
alle nostre stampatrici, al pubblico
che stuzzica nel profondo, sotto le grida avverse,
di pagina in pagina e poi
di versicolo in versicolo, limati,
sempre più pungenti, sempre più nel macigno
che è il cuore, filtrando
fra gorielli di birra finché un giorno
una luce scoccata da uno sguardo
ne ispira il guizzo da pensieri d’acqua smarcia,
nella perdizione che declina
da deliri d’assentio alla vinaccia;
il poeta, torturato, frustato,
freccia d’amore nei paesi in guerra
che solo la disperazione o disseccate
vene contratte riconducono
a paradisi di pubblicazione;
l’anima cieca che cerca
vita là dove solo
urla il dolore e la decomposizione,
l’allucinazione che dice
la parola comincia quando tutto pare
ingrovigliarsi, inchiostro pasticciato;
specchio gemello, rovesciato
da quello che credono gli uomini
incastonato in mezzo ai cigli,
sempre più nel contrario, nel fango lasciato
dai figli
di un dio, puoi tu non crederlo profeta?
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DANZICA E UN TAMBURO*
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Se per l’Elsenstrasse volgi il tuo passo
rasente i muri un giorno che piove,
non prestare attenzione
all’autobus numero nove
coi vetri appannati e (ci giurerei) l’intenzione
di bagnare i passanti infreddati.
Se verso Marienstrasse ti porta il tuo passo
in un giorno che piove fitto
volgi il pensiero al piccolo Oskar
che durante lo stesso tragitto
interruppe di scatto
il suo cinque quarti sincopato
e restò impazzito del nulla sparso
aspettandosi l’applauso del pubblico
(o almeno un segno d’apprezzamento)
convinto che stiamo tutti recitando
senza saperlo.
Se verso le vetrate del Sacro Cuore
volgerai il tuo sguardo,
non giudicare il piccolo Oskar
per la sua sconfitta
(ahi la sua voce, una fitta
sottile, spigolo al cuore)
e in te ritieni senza riguardo
le voci che lo dicono matto;
lui che batté la sua pazzia
su un tamburo di latta
e nelle cicatrici dello scaricatore
toccò la carne degli angeli,
si burlò dell’Inferno vestito a festa
nei giorni indecenti di un nero delirio.
Demone insaziabile di vetri infranti
segreto figlio di padre presunto
segreto padre di figlio negato,
conobbe la forza della disperazione
nell’impotenza delle sue mani,
ma tutto potrebbe accadere
se solo ricordasse il silenzio
che apre a infernali tentazioni
in incisioni di coltelli sonori,
gli amanti risorgerebbero
e i monti toccherebbero il fondo del mare.
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LA SEPOLTURA DEL SABATO*
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Sabato è il giorno più crudele, destando
bramosie ormonali dalla carne frolla, mischiando
routine e desiderio, fondendo
il vizio ed il vanto
il blasfemo ed il santo
il sospiro ed il rantolo.
Venerdì ci tenne caldi, coprendo
la pelle di abiti neri feroci di sole, offrendo
un Varietà quasi familiare
nella vastità del naufragare.
Domenica arriverà già con le strade
impozzate di neve sporca
e di residui di sangue feriale.
Città invernale,
la notte nella solitudine ormai rara
una nebbia da ciminiere mi lascia
voglie di zolfatara.
Siamo gente vuota
nel senso e nel corpo
nei gesti del torpore
usati
dal riflusso dal flusso
dal flusso d’ore.
Siamo gente di nota,
sapranno
che siamo vissuti (almeno quella sera)
per le lettere che intonano la lastra
dove ci scioglieremo come cera.
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NESSUNO
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Era una vita piena di onde
e tempesta
nemmeno sdegnosa alla festa
all’ubriachezza alla donna
lasciva,
una vita che non si fermava
incrostata al salino di un porto
bagnata da un odore di pioggia e di terra
pestata.
Tu pensa la ricchezza
e la donna,
e l’avventura che pensi
di aver già tutta sfidata.
Tu pensa poterti fermare,
esser lontano di vaghezza infinita.
Tu pensa i servi e gli ori
e un’isola per cui
il tuo viso è il viso
perfetto di un re.
Ma trovarti poi a guardare
altre onde, un altro mare.
E pensare
dove dorme il tuo cane,
se ancora gli arriva la sbobba
e sotto i tavolacci
il pane raffermo e gli ossi,
se ancora ingarbuglia l’aria
a stanare il selvatico
se lo aizza la traccia
del cinghiale ferito
se la primavera ancora lo attizza
come brace nella sterpaglia.
Tu pensa allora partire,
anche solo per vederlo
sbatter la coda e morire.
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In memory of Abebe Bikila
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Chiamatemi grido
correrò come la fiamma
in un cielo di cherosene,
non veloce come il lampo
ma più a lungo del tempo
e della morte.
Chiamatemi urlo
getterò
via le mie scarpe e correrò
contro chi crede che questo
non sia sognare,
contro la vostra abitudine glaciale
contro la vostra tangenziale,
correrò
finché dai miei polmoni
non nasceranno i monsoni,
finché la strada non chiederà
pietà.
Chiamatemi grido
correrò
contro la sete
contro l’inconscio
contro la mente,
contro chi mi riporterà le scarpe
e allora saprò
che avrò corso per niente.
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*Tratte da Occhi di pirata, Blu di Prussia editrice, 2006.
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Sono nato a Savigliano (CN) il 24/12/84, ho conseguito la Laurea triennale in Lettere presso l’Università di Torino nel 2007 e in questo momento sono laureando in Medicina Veterinaria presso la stessa Università.
Nel 2006 è uscita la mia prima e unica pubblicazione, “Occhi di pirata”, Blu di Prussia editrice, con cui ho ricevuto una segnalazione al Premio Internazionale “Mario Luzi” nel 2007.
Altri premi e segnalazioni: vincitore nel 2002 della Biennale di Alessandria, nel 2005 decimo classificato al Premio di poesia “Club 3”, nel 2006 vincitore del Premio “Giacomo Leopardi” Città di Savigliano e terzo classificato al Premio di poesia “Alba Beccaria” Città di Roddi, nel 2007 vincitore del Premio Selezione al Premio Internazionale di Poesia Archè, Anguillara Sabazia Città d’Arte.
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Una replica a “POESIE DI GIANVITTORIO SCAVINO”
Grazie Gianvittorio per questo contributo. Davvero ambiziose e interessanti, in particolare, le tue riscritture di Montale ed Eliot.
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