J.R. Wilcock: poesie da riscoprire (seconda puntata) (post di natàlia castaldi)

[poesie da riscoprire: prima parte]

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7. p. 64

Dall’erba verso il cielo slanciati steli
alzano ombrelle, complesse simmetrie
gialle con semi sullo sfondo azzurro.
Eppure laggiù, si stende la città
come una malattia della pianura,
con le sue file di case biancosporche.

E in ogni stanza un apparecchio
di metallo e di vetro con antenne:
tetri lemuri, spiriti folletti
ballano e cantano intrecciando il messaggio
segreto sullo schermo che colgono gli idioti:
non si è felici se non si è idioti.

In una gabbia del giardino zoologico
è stato visto l’ultimo animale;
nelle altre qualche schema ideologico
fa la parte del cane e del maiale.

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9. p. 65-66

Chiudiamo gli occhi per attraversare la strada,
chiudiamoci gli orecchi per entrare in casa,
forse così riusciremo a ricordare
quella visione lontana di un mondo di foreste
e laghi e il sole tra le foglie,
autunni rossi, il rosso sotto i piedi,
crepitio di bestiole sui ramoscelli,
pensieri sparsi a caso ma privati.

E l’estate era l’uccello che cantava
dietro le persiane, nelle acque del silenzio.
Stridulo un grido, un richiamo di bambino,
non turbava le pagine del libro;
i pesci ghiotti nel fiume melmoso
disegnavano scatti, lampi d’oro.

Oggi il mare ci tende sulla riva
le sue mani rognose tra due fabbriche.

Ma ancora si può vivere, basta chiudere
gli occhi gli orecchi il naso e anche la bocca;
gettarsi avanti come sotto la pioggia,
dimentichi, protetti dai pensieri.

Le strade sono tutte polverose
le facciate delle case lebbrose
e gli urli dei figli dei portieri
tremanti ancora dell’atavico strazio,
come dapprima gli angeli, riempiono lo spazio.

L’uomo dall’uomo si difende uccidendo,
oppure, finché può, fuggendo.

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LUOGHI COMUNI

2. p. 15

A chi giova il piacere dei sensi? All’intelletto,
che d’altronde sopporta dolori e infermità
indipendentemente dalla sua capacità
di godimento proprio; perché non è perfetto,
e sfoggia carne e peli come altri animali,
senza mai liberarsi degli ingombri carnali,
senza essere del tutto lieto neppure del tutto abietto;
lui che sognò di volare sul mare senza confine
con dietro le spalle un paio di ali turchine.

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6. p. 17

Nonostante i trionfi della scienza applicata
gli strumenti migliori per osservare l’universo
sono ancora la penetrante lampada del verso,
la musica, la voce di una gola privilegiata,
oppure nella penombra delle candele sparse
il pulpito cosmatesco di diorite incrostata;
qualsiasi luce indicante dove un pensiero arse,
semplici torce o splendidi lampadari,
monasteri carpatici tra i boschi secolari,
rune d’Islanda con principi bruschi,
falli d’ambra nella foresta, sarcofaghi etruschi.
Alla luce di questi lumi l’uomo si muove più sicuro,
vede  tramonti, vede le rive del mare,
e pronuncia parole il cui senso oscuro
gli si comincia infine a rivelare.

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9. p. 18-19

La nostra idea del tempo è ineffabile
e quella che ci vien proposta è quasi sempre puerile,
sia il tempo statico che quello misurabile,
quello che scorre all’inverso o il semplice tempo civile;
nessuna di queste ipotesi riesce abbastanza universale,
se si pensa, per esempio, a un morto o un animale.
Poiché la soluzione del problema la si trova in fondo a noi stessi,
non è facile scendere a questi recessi
il cui il tempo della materia e il tempo della coscienza
non conservano la stessa corrispondenza;
infatti non conservano alcuna relazione
accessibile alla comprensione.

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2. p. 31

Talvolta ho visto alberi secchi che irti
sul tramonto imitavano
il fogliame degli alberi viventi.
Esuli, ignorano l’estate glauca
e a poco a poco li distrugge il vento.

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3. p. 32

Questo silenzio che da me dipende,
echeggia pure d’infiniti dèi;
ci sono mille mondi sovrapposti
presso quell’albero fra gli alti cardi,
e questa foglia che mi vola innanzi
può sconfiggere u uomo, cancellare
un verso millenario, essere un sogno;
i mille dèi stanno a guardare l’albero
e ognuno vede un mondo, e non si vedono.

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4. p. 32

Come quell’erte brulle, roccia nuda
dove l’erba che aprile ha suscitato
l’aridità d’agosto non consente,
né l’elitra vetrosa dell’insetto
svolazza morsa dall’uccello assente,
è il pensiero dell’uomo finché amore
con la sua grazia azzurra e gialla e rosa
non vi si posa.

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21. p. 126

Mettiamo che io fossi un cacciatore
come nei tempi, vestito di verde,
e fossi uscito a cacciare qualcosa
con un’arma, mettiamo, da fuoco antica
e un cavallo qualunque, nell’Alto Lazio
per i boschi che franano nell’argilla
e scendendo con gran difficoltà
per via del cavallo dietro un cinghiale
nei pressi di un ruscello a cascatelle
avessi visto te. Non so che dire,
la cosa sembra troppo straordinaria,
eppure accade, persino a Porta Furba:
com’è, lo sanno tutti, si apre il cielo,
cala una luce che cancella tutto
cavallo, cane, cinghiale e ruscello,
tutto tranne la luce che promani,
ma questa non è luce vera e propria,
piuttosto è un caldo che penetra dagli occhi,
un sentimento fatto forma visibile,
una metafora, un abbigliamento,
vai a descrivere il viso dell’amore,
sarà diverso per ogni cacciatore.

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6. pag. 56

Ballano stanchi sfruttatori e sfruttati.
Con lunghe fruste girano intorno al cerchio
industriali, politici e pensatori,
ma la stanchezza di frustare è pari
alla stanchezza di dover ballare.
E nel centro, follemente contenti,
ballano i giovani, ignorando i lamenti.

Un sole rosso e una luna azzurra
accendono di sbieco la danza infernale.
Urla si levano: “Papé Satan aleppe!”
ma nessuno ne intende ormai il senso.
La gioia è acre in questo girone
come una smorfia di disperazione.

Arida è la terra, frastagliata da crepe,
e nelle crepe si annidano larve umane.
Rauchi, barbuti, frugano con le unghie
tra le rocce per funghi, esili insetti.
La peste li ha lasciati senza cervello,
nei crani vuoti sono entrati i ragni.
Ma loro non praticano la danza
ché sono stati già sfruttati abbastanza.

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