Luigi Romolo Carrino – Racconto inedito

La madre mangiata

esercizio 2
ore 22.02 – la seconda ora
Racconto inedito tratto dal romanzo “esercizi sulla madre”

by Vasily Bodnar

 

Lo so. Non riesci a uscire dalla stanza. È un inverno particolarmente rigido, questo. Ma tutti gli inverni in questa schifosa periferia sono freddi.
Non bastano le foto della primavera appiccicate sui vetri della finestra, i disegni di fiori gialli e soli blu e cieli viola per fare azzurro questo freddo, per fare in questa stanza un caldo arancione come maggio.
Lo so, sei lì. Nella tua stanza fredda. Apri questa porta e fammi entrare.

Hai avuto un incubo? Ti ho sentito urlare poco fa.
No? E cos’era allora?
Sono certa. Era la tua voce.
Perché mi guardi così? Non mi sono mica spaventata. È solo che non esci mai da questa stanza. Te ne stai sempre qui, come sospeso, anzi direi ‘appeso’ a testa in giù proprio come un coniglio scannato che attende di essere scuoiato.
Hai capito cosa voglio dire? Ti ho fatto vedere come si fa a togliere la pelliccia a un coniglio? Te lo ricordi? Sì? E come si fa?
Va bene, non te lo ricordi, ma non volevo parlare di questo.
Cioè, in realtà, volevo semplicemente dire che te ne stai a leggere tutto il giorno con quel morto di Shakespeare tra le cosce e non ti accorgi nemmeno che sono in casa, che ho bisogno di qualcosa, che sono viva, che la gatta ha fatto i figli. Li ha fatti, sai? Quattro batuffoli bianchi.
Li vuoi vedere?
Una volta ti piacevano tanto, i gatti. Non ti staccavi mai da Emily. Quella grigia, la certosina, te la ricordi? Sempre insieme. Tu le tiravi i baffi e lei con la zampetta ti accarezzava la mano senza graffiarti. Di sicuro voleva farti capire ”smettila di premermi il corpo come un cuscino, finiscila di spremermi di affetto e di coccole a due mani, che gli occhi quasi che un po’ mi escono dalle orbite”. Questo voleva dirti Emily. Che altro?
Allora tu, per farti perdonare, la prendevi per le zampe posteriori e le facevi girare tutt’intorno la stanza. E lei miagolava felice e tu ridevi, ridevi forte, forte e… Perché piangi?  Esci ogni tanto. Non vedi? Oggi c’è il sole nonostante il freddo. Magari incontri… Perché mi guardi così?
Scusa.
Non volevo, credimi. Devi convincerti che è stata colpa mia. Soltanto mia. Lo lasciai io il martello sul tavolo. Tu non potevi sapere che la testa di una gattina è tanto fragile, troppo fragile per giocarci allo schiaccianoci.
Perdonami. È stato un errore di madre.
Perdonami e non parliamone più, vuoi? Sorridi su: se sorridi anche la vita ti sorride e tutto diventa semplice e poi…
O mio Dio! Ma cosa è successo al mio pavimento? Assolutamente indecoroso. Mi meraviglio di te. Sei sempre stato così pulito, ordinato. Invece, guardati adesso! La faccia sporca. I capelli sporchi. E il mio pavimento… Il mio pavimento pieno di macchie, di cartacce, pennarelli, grembiulini sporchi… E tutte quelle braccia ammucchiate lì nell’angolo? Che orrore. Vai a prendere immediatamente acqua e secchio.
Che schifo, che sozzo che sei.
E non guardarmi così. Sbrigati, datti da fare. Sempre a leggere, sempre a studiare. Shakespeare. Ti piace tanto, così tanto da farti dimenticare anche i doveri più importanti. Ti annienti con Giulietta e ti torturi con Desdemona. Ti strofini pure con Lady Macbeth.
Le mie mani hanno lo stesso colore delle tue: mi vergogno di avere un cuore così bianco.
Hai sentito? Anch’io sono brava a leggere Shakespeare.
Mi ascolti?
Ehi, mi senti?
Sei lento, lentissimo. Lascia stare, non sei capace di pulire, non sai fare nulla. Neanche a respirare sei buono.
Mille diecimila centomila volte ti ho detto che tutto deve accadere per le mani. E tu? Dimmi la verità: ti sei servito anche del tritacarne, del tritaverdure? Ma ti rendi conto di quello che hai fatto? Erano cosi piccoli e indifesi, i miei teneri batuffoli bianchi. Sei un mostro, ecco cosa sei.
Devi farlo con amore, lentamente.
È peccato farlo così. Una macelleria, ecco cosa è diventata questa stanza. E oltretutto quelle braccine sono ancora lì, nell’angolo e…
Ma cosa mi nascondi sotto il banco? Scòstati.
Oh, il nostro album di famiglia! Che tenero che sei. Mi commuovo sempre a vedere le nostre foto. Guarda! Qui è quando avevi ancora cinque anni, vedi? Sei sul go-kart e hai tutti i capelli biondi, biondo cenere, non come adesso, scuri come asfalto consumato. E questa qui? Non lo ricordavo, sai? Qui la nonna ti tiene a testa in giù, sì questa. Guarda la nonna com’è giovane, ha ancora i capelli neri e i denti. Ti tiene proprio come il coniglio appeso all’albero, a testa in giù. Che buffo. Non ti fa ridere?
Noooo. Ma la foto di tuo padre: che muscoli. Che bicipiti! Che pelle lucente… Basta. Chiudi quest’album che mi viene l’acquolina in bocca. Tra l’altro è proprio ora di mangiare.
Non guardarmi così. Ti ho pensato, cosa credi? Sono tua madre.
Nel capanno ce ne sono due, proprio come piacciono a te. Non hanno ancora tre anni, due maschietti. Sono due gemelli. Pensa! E prima che combini il solito macello ricordati che li devi stordire, poi li appendi e solo dopo…
Ehi, dico a te, mi senti?
Dicevo, solo dopo li puoi scannare. Il sangue deve fluire dall’alto verso il basso. Ricordati di legare i piedi. È sempre difficile tenere fermi i piedi. Soprattutto, quando ne scanni uno non farti vedere dall’altro altrimenti la carne si guasta.
E butta via il fegato che non lo mangia nessuno.
Non mi guardare così: non ho tempo per cucinarti.
No sciocchino, non intendevo dire cucinare ‘te’. C’è ancora tempo. Non sai quanto tempo, amore mio piccolo infinito grande, ci resta da restare insieme.
Volevo soltanto dirti che non ho il tempo per fare da mangiare. Per favore: arrangiati da solo.
E poi lo sai: qui solo uomini maggiorenni. Ma di famiglia però, non quelli acquisiti. Quelli acquisiti meritano molto, ma molto di meno.
L’amore più grande è essere divorati da chi ti ama. Almeno questo, a tuo padre, glielo dovevo.
Anche tu un giorno sarai così. Crescerai e capirai solo i morsi della fame. Sarà il bisogno a giustificare ogni tuo movimento.
Te lo ripeto: se non ce la fai, perché io ti conosco, a me non puoi mentire, ti prego non fare il solito casino e aspettami. Li preparo io e ti faccio da mangiare con queste mie mani.
Le mamme a questo servono, sai?
Su, e sorridi almeno una volta! Non guardarmi sempre così, come se ti fosse morto il gatto.
Ho detto che cucinerò io, semmai. Tra l’altro, tu non sai nemmeno pulire. Vedi? Vedi lì ancora nell’angolo? Ci devo ripassare, come sempre.
Adesso però devo andare all’asilo a fare la spesa per la domenica che viene. Ceneremo con zia Adele e le tue cuginette.
Mi raccomando. Se non ce la fai a usare soltanto le mani lascia stare, va bene? Ricordati che io me ne accorgo. Mi accorgo sempre di tutto.

6 risposte a “Luigi Romolo Carrino – Racconto inedito”

  1. “L’amore più grande è essere divorati da chi ti ama. Almeno questo, a tuo padre, glielo dovevo.
    Anche tu un giorno sarai così. Crescerai e capirai solo i morsi della fame. Sarà il bisogno a giustificare ogni tuo movimento.”

    un grande Luigi anche questa volta

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