CAPITOLO 4

Mimì si svegliò, come sempre, col casino che faceva il Vicolo Platone quando si aprivano le putìe: le cassette di frutta prese allo scaro che dovevano essere messe a piramide sui marciapiedi e Ninetta la strudusa, mai contenta di niente, che cazziava quel povero disgraziato di Fifì, suo marito. “Megghiu travagliare che stare a casa con quell’arpia di mia moglie”, urlava con quotidiana soddisfazione don Nenè De Caro, muratore piu’ per necessità familiare (allontanarsi dalla moglie) che per pititto. E poi il passaggio dei marocchini che uscivano dal quartiere per raggiungere gli incroci dove avrebbero provato a pulire i vetri delle macchine: quelli sporchi e quelli puliti.
Una lavata di faccia come quella dei gatti, una pettinata fatta con le dita, indosso la prima camicia che trovava, il solito pantalone sfardato ma con le sacchiette capienti, una controllata a lamette e coltellini e via. Dal quel momento, in strada, c’era anche Mimì.
Sguardo basso, gambe strascicate, Mimì saliva per tutto il Vicolo Platone rispondendo a chi gli dava il buon giorno con un mugugno. Alla fine della salita, girava a destra e s’infilava nello stradone che l’avrebbe portato lì dove c’erano i culi a forma di portafoglio. Non era zona sua, quella, e così alzava le corna e rilassava i muscoli della faccia. Doveva sembrare uno qualunque. Se avesse potuto, si sarebbe mimetizzato coi muri, coi marciapiedi, coi semafori. Un occhio ai culi, uno alle donne. Meglio se giovani. Ogni tanto sentiva su di sè lo sguardo di qualche femmina. Lui rispondeva ai segnali solo se l’odore della signora (o della signorina) gli piaceva. Se con la pelle non sentiva nulla, andava avanti in cerca di culi preziosi e quando ne individuava uno, Mimì si trasformava. Si avvicinava alla preda senza farsene accorgere, manco fosse invisibile; lui, non la preda che, invece, piu’ era voluminosa e piu’ era appetibile. Poi la seguiva e, quando quella rallentava, magari per l’eccessivo traffico pedonale, entrava in azione: un taglietto nella parte inferiore della tasca posteriore dei pantaloni e dopo qualche secondo che poteva diventare anche qualche minuto (dipendeva da come la preda muoveva il culo) il portafogli cascava a terra. A quel punto Mimì non faceva altro che calarsi e prenderlo così come fanno gli scoiattoli quando aspettano che le noci cadano dagli alberi.
Da invisibile diventava sfrontato, invece, quando il portafogli non stava a contatto del culo, ma all’interno della giacca. Lì, per evidenti ragioni, non poteva usare lamette e coltellini, ma le mani. O meglio, le dita. E a volte, anche se la cosa gli dava tanto fastidio, anche la bocca: per parlare. Bastava lasciare cadere un “che ore sono”, cosa della quale non gliene fotteva un beneamato cazzo, per distrarre la preda, avvicinarsi ad essa e prendere quel che doveva prendere. E poi, ritornato invisibile, scompariva.
Sempre che, ovviamente, non sentisse sulla pelle l’odore di una femmina che gli piaceva. Allora il copione cambiava e nessuno, nemmeno lui, avrebbe mai potuto sapere come le cose si sarebbero svolte per davvero. In questi casi restava con gli occhi bassi e si studiava la femmina. E il piu’ delle volte anche quella studiava lui. O per meglio dire, cercava di capire che tipo di uomo fosse quello che emanava un odore capace di annebbiare vista e cervello. Se quella femmina gli piaceva e se capiva di avere via libera, Mimì entrava in azione. Come? Come un selvaggio che sa far di conto: la metteva in società. Fottendosene del Professore che ogni sera dopo il Vespro gli cantava un vecchio proverbio siciliano: “I fatti sono masculi e le parole sono fimmine”. “Se mi fotto a questa che è?, un fatto o una parola?”, si chiedeva Mimì prima di passare all’opera. E la risposta era sempre la stessa: “Il Professore parla bene, ma di fimmine non capisce un cazzo”.
E così, rassicurato, pensava sia al bisnis che al pelo. In questi casi metteva da parte ogni prudenza e affrontava a viso aperto, guardandola dritto negli occhi, la femmina che gli aveva scombussolato il sangue. E senza peritarsi di quel che lei poteva pensare, le diceva papale papale: “C’è qua vicino qualche ricco fituso che conosci?”. Lei alluccava gli occhi e apriva la bocca in cerca di parole che non trovava. E lui: “Futtitinni, ci penso io. Tu stammi accanto e poi spartiamo”.
La femmina di giornata continuava a non capire, ubriaca com’era dell’odore selvaggio che quell’uomo emanava. E non le restava altro che rispondere a mezza voce sì-sì senza sapere perché e per come. A quel punto Mimì partiva per il culo ricco che gli veniva a portata di mano, con la lametta dava aria alla parte di sotto della tasca, raccattava il portafogli e, sorridendo alla femmina che aveva seguito tutto senza fiatare, l’afferrava per un braccio, se la portava dentro un portone e quella, senza capire, se lo trovava di sopra e, soprattutto, di dentro. Poi, dopo qualche minuto o qualche ora (Mimì continuava a non dare importanza al tempo), ognuno se ne andava per la propria strada: lui in Vicolo Platone, lei in quella parte della città dove sballonzano i culi dei ricchi. E la società che avevano provvisoriamente costituito? Sciolta. Mimì aveva la coscienza a posto: lui aveva preso il pelo e il portafogli, lei aveva provato l’ebbrezza del selvaggio. Ad ognuno il suo.
CAPITOLO 5
Saruzza quel giorno si svegliò strana. Per la prima volta nella sua vita cominciò a conzarsi come tutte le altre mattine, ma non aveva testa né alle caramelle, né alle mattite e nemmeno ai piccioli. Si conzava guardandosi allo specchio e cantava. “Minchia come sugnu bedda”, diceva senza preoccuparsi di fare uscire dalla bocca parole che una signorina per bene non doveva nemmeno pensare. A furia di disegnare, la sua mano aveva preso sensibilità a fare linee dritte e curve, ad assecondare le pieghe dei fogli e quelle del suo viso. Dopo un’ora davanti allo specchio (contrariamente a Mimì, lei sì che sapeva pesare il tempo), sembrava un’altra.
“Tu devi fare l’attrice di teatro, la ballerina”, le diceva ogni tanto zu’ Turiddu che aveva il cuore spezzato in due: il mezzo di destra, soprattutto al sabato, era quello che lo gonfiava d’orgoglio per quella fatta a nipote che faceva rivoltare gli occhi e le sacchiette di tutto il Vicolo Platone; l’altro mezzo, quello di sinistra, invece, lo ammosciava perché il suo naso gli diceva che prima o poi (piu’ prima che poi), Saruzza, il Vicolo, se lo sarebbe girato da sola. E cornuto di qua, e cornuto di là (a questo punto, a zu’ Turiddu salivano le quaranate), magari con qualcuno allato. “E che ci faccio in teatro?”, si chiedeva Saruzza che agli applausi continuava a preferire caramelle e gomma da masticare (sempre meno) o matite e piccioli (sempre di piu’).
Il fatto è che Saruzza, da quando aveva incontrato Mimì, di piccioli a casa ne portava sempre di meno. Non che fosse meno bella o che dispensasse meno sorrisi, anzi. Solo che non gradiva piu’ gli sguardi bavosi che incontrava nel Vicolo Platone. E così si fece preziosa: alzava il prezzo, pur sapendo che così diminuiva il numero degli svuotamenti di sacchietta. E cominciò a dir di no, serrando la bocca per evitare che l’abitudine la costringesse ad un sorriso, anche a Donna Pidda. Che significava dire di no a Nardino, che pure faceva un buon odore di maschio.
Saruzza saliva e scendeva per Vicolo Platone sempre col petto in fuori, ma senza piu’ guardarsi attorno. Stretta nella sua camicetta che rischiava di aprirsi ad ogni respiro e fasciata in una gonna che nascondeva tutto, ma che tutto lasciava immaginare, oltre al petto alzava anche il naso. Cercava l’odore di Mimì. “Il mio Mimì”, diceva lei senza chiedersi come la pensasse in proposito il diretto interessato. Ogni tanto si spingeva in basso fino alla piazzetta, dove c’era la taverna e, lì dentro, anche il Professore. Il suo coraggio le faceva vincere la paura e rompere la tradizione che definiva buttana la donna che entra in una taverna senza maschio allato.
“Buongiorno”, tuonava il Professore quando la vedeva. “E buongiorno a lei”, rispondeva Saruzza con lo stesso tono, manco fosse una sfida. Se non vedeva Mimì, faceva per andarsene, ma il Professore la bloccava con una delle sue solite, colte minchiate: “Sai che disse Stilbone a Cratete che gli chiedeva con chi stesse per uscire?”, le disse una volta. “No”, rispose lei che non sapeva chi fossero quei tipi strani che si facevano chiamare Stilbone e Cratete. “Te lo dico io. Stilbone disse che usciva da solo e Cratete gli rispose di stare attento ad uscire con le cattive compagnie”. Il Professore, pago della sua stronzata quotidiana, quella volta cominciò a ridere in maniera sguaiata e Saruzza fece altrettanto, ma solo per cortesia. Dentro di sè, se ne avesse avuto il coraggio, gli avrebbe sputato in faccia. Oppure, mira permettendo, direttamente in bocca. Poi uscì.
Ogni giorno lo stesso: su e giu’ per Vicolo Platone, poi alla piazzetta, infine dentro la taverna. Mimì non si vedeva. Di lui nemmeno l’odore. Ed era giusto così, visto che usciva dal Vicolo solo per dirigersi dove i culi fetevano di nobiltà e di piccioli. Saruzza si fece i conti e decise di uscire fuori pure lei e di affrontare il mare aperto delle strade dei ricchi. Piu’ per difendersi che per altro, sorrideva a destra e a manca. E quando le capitava una risposta a tono, non ci pensava due volte ad avvicinarsi, a concludere e a riempirsi la sacchietta di piccioli. Che erano tanti, molti di piu’ di quelli che racimolava dai bavosi del Vicolo. Poco a poco, la paura del mare aperto passava e lei si avventurava sempre piu’ lontano dalla terra. A volte anche il sabato, con grande tormento dello zu’ Turiddu.
Una mattina, conzata come al solito, cominciò a risalire il Vicolo Platone per poi girare a destra, proprio come faceva Mimì quando andava a caccia di culi ricchi. Ma appena girò, si sentì mancare il fiato: un braccio che sembrava una piovra l’aveva tirata dentro un portone. Non vide nulla, ma sentì l’odore di Mimì. Si lasciò aprire la camicetta e toccare i seni. La morsa che le aveva afferrato il braccio era sparita e al suo posto c’erano delle dita che le sfioravano il corpo, si infilavano in ogni anfratto. E man mano che quelle dita salivano, scendevano e la facevano da padrone, lei si sentiva mancare il fiato. Quando capì che la gonna si alzava, si ricordò che, nella fretta, non aveva messo niente sotto. Manco il tempo di pensarci e si sentì riempire tutta. Impazzì: l’aria, come se fosse pressata dal basso, le faceva scoppiare la testa. Saruzza urlò. Urlò “Mimì, Mimì, Mimì amore mio”.
Mimì non rispose. Si allontanò da lei per guardarla meglio. Poi si rialzò i pantaloni, controllò che i suoi attrezzi non fossero usciti dalla sacchietta e disse: “Le strade dei ricchi sono come la taverna. Una donna perbene non ci può andare senza un maschio allato, se no è buttana. E io una buttana non la sposo”. Saruzza, a quella che aveva tutta l’aria di essere una promessa di matrimonio, si sentì mancare, come e piu’ di cinque minuti prima.
L’indomani mattina si piazzò davanti allo specchio, ma lasciò le matite al suo posto. Non si sarebbe conzata piu’. E i sorrisi, quelli che valgono un capitale, li avrebbe dati solo al suo Mimì.
Lui arrivò di buon mattino e salendo le scale si mise a fischiare. Concettina, la mamma di Saruzza, annusò un’aria strana. La figlia non le aveva ancora detto niente perché “meno si parla, meglio si campa”. Anche la picciridda aveva appreso l’arte della diffidenza, prima regola per campare a lungo. Le due donne si precipitarono verso la porta, ma Concettina fu piu’ veloce. Mimì s’era messo la faccia delle grandi occasioni: gli occhi, se possibile, ancora piu’ bassi; i capelli messi in ordine col pettine e non con le dita (il risultato finale non cambiò granché il suo aspetto); una giacchetta sopra la camicia buona di cotone; pantaloni con la piega e con le sacchiette svacantate dagli attrezzi. E poi le scarpe, le uniche che aveva. Disse: “Buongiorno Donna Concettina”. A Saruzza non dedicò nemmeno uno sguardo. “Buongiorno don Mimì”.
Nell’aria si sentiva odore di vecchio. Vecchia era l’”acchianata” a casa della fidanzata. Vecchia era la parte di chi parlava con la madre della propria donna quando le voglie di fare erano ben altre. Mimì sentì freddo alle dita pensando che ad un certo punto della sua vita, Donna Concettina avrebbe dovuto chiamarla mamma. E pensò a quella santa donna di sua madre, moglie del beccamorto del paese, talmente magra e denutrita dopo aver fatto cinque figli, quattro morti e uno solo vivo: lui. “No -si disse- che Saruzza si metta pure il cuore in pace, ma Donna Concettina non potrò mai chiamarla mamma”.
“Don Mimì, un caffè lo gradisce?”.
“Grazie sì, Donna Concettina”.
A Saruzza il cuore batteva forte forte, ma se ne stava appiccicata al muro. Voleva sparire, ma non poteva non assistere. La promessa sposa non doveva esistere nel giorno delle spiegazioni. Quello era un giorno da uomini e poco importa che Donna Concettina avesse la gonna al posto dei pantaloni. Suppliva all’assenza “di quel gran cornuto” di marito che l’aveva lasciata povera e pazza con tante bocche da sfamare e che magari se ne stava rintanato in qualche porto tra le braccia di chissà quale buttana.
“Allora, don Mimì -disse portando una tazza di caffè fumante- come pensa di fare vivere la mia picciridda?”.
“Bene, Donna Concettina, bene come bene voglio vivere pure io. E bene come voglio che vivano anche i nostri figli”.
“La casa ce l’ha?”.
“E’ quella mia dove vivo da quando la buonanima di mia madre se ne andò lasciandomi solo e con una rendita”.
“Una rendita?”.
“Perché, non lo sapeva? E’ quello che resta della pensione di mio padre. Mio padre, se lei non lo sapesse…”.
“Lo so, lo so”, disse Donna Concetta maledicendo di non essere un uomo e quindi impossibilitata a toccarsi i cabbasisi.
“E comunque, con un uomo come me lei può stare tranquilla”.
“Tranquilla non ci sto, ma non perché si tratta di lei. Tranquilla non ci sto con nessuno”.
“E fa bene, Donna Concettina. Mai fidarsi del primo venuto”.
“Ha già deciso quando se la prende, la mia Saruzza?”.
“Proprio di questo volevo discutere con lei”.
“Alla prima domenica del mese entrante? O è troppo tardi?”, domandò Concettina che, da un lato non vedeva l’ora di togliersi dai piedi quella figlia che stava diventando il parla-parla del quartiere, e dall’altro perché temeva, e non a torto, che Saruzza avesse combinato qualche fesseria.
“Alla prima domenica del mese entrante? Per me va bene”.
Saruzza, ignorata fino ad allora da entrambi, da quel momento decise di abituarsi ad essere una signora. La Signora Saruzza Lo Bianco. E da quel momento, si disse, nessuno potrà piu’ permettersi di rispondere ad un sorriso o ad allungare una mano. Altrimenti…

Una replica a “[Blogromanzo] – Mimì, l’uomo che voleva diventare borghese – di Giovanni Chiappisi – Capitoli IV e V (post di Natàlia Castaldi)”
sì, mi è piaciuto molto.
il perché non lo so,ma ho cominciato a leggere e non ho potuto smettere fino alla fine.
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