Poetarum Silva è lieta di presentavi “Mimì, l’uomo che voleva diventare borghese“, romanzo di Giovanni Chiappisi, che verrà pubblicato in capitoli con 2 uscite per settimana. Al termine dei capitoli, sarà nostra cura editare l’intero romanzo in forma di e-book scaricabile dal nostro sito.
[Un ringraziamento da parte della redazione va a M.G. Galatà per averci introdotto questo valido autore siciliano]
buona lettura
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CAPITOLO 1

«Vogghiu moriri appresso a tìa». L’urlo di Saruzza rintronò selvaggio e inaspettato nella chiesa di San Giacomo. Non era previsto quel sonoro diversivo nel bel mezzo del funerale di don Mimì, un uomo che il destino fece morire di subito a dispetto di una vita fatta di rinvii.
Saruzza Bellavia, da un giorno vedova Lo Bianco, era una donna minuta e nello stesso tempo piacente. A qualcuno sembrava magari un po’ tozza, ma non a Mimì che su di lei mise un’opzione in tempi insospettabili: lui aveva vent’anni e nel campare alla giornata era già un professionista; lei appena dodici, ma per acume, esperienza e fattezze ne dimostrava molti di più. Quattro anni dopo, complice la fuitina resa obbligatoria dalle scarse sostanze disponibili per corredo e ricevimento, disse sì davanti a don Pino Scannaserpe, lo stesso prete che poi fu chiamato a benedire la bara della buonanima, a consolare la vedova e ad accarezzare la testa dei figli della suddetta. Il giorno delle esequie, don Pino faceva su e giù con la testa, come a dire sì-sì, no-no, a chi l’interrogava con gli occhi sulla vera essenza di don Mimì: era questi un buonuomo che il destino tolse anzitempo ai piaceri della terra e ai doveri dello spirito, oppure un malacarne il quale, dietro la sua aria paciosa, era l’incubo di chi aveva qualcosa in tasca e magari anche delle ragazzine che da lui si sentivano (o erano) insidiate? Il parrino continuava a dire con la testa sì-sì, no-no, chi lo sa?
Che don Mimì fosse un tipo strano non lo negava nessuno. Da piccolo andava a scuola solo per fottere i compagni col gioco delle figurine. Ma doveva farlo, sosteneva la buonanima. Doveva farlo, diceva, perché non aveva una lira e non avrebbe nemmeno potuto chiederla ai suoi genitori: Nenè Lo Bianco, becchino comunale, e Assunta Mangiacavallo, donna santa non foss’altro che per i meriti di aver sposato il beccamorto e di riuscire a camminare impettita accanto a lui mentre chi li incrociava pensava subito a toccarsi i cabbasisi.
E così, il piccolo Mimì giocava a nucidde coi compagni e vinceva le figurine che rivendeva, ma solo in parte, per comprarsi quei panini con panelle e cazzilli che non avrebbe mai potuto comperare se non in cambio di moneta contante. Con le figurine che gli restavano, continuava a giocare e, grazie ad un’innata abilità a pigliare per il culo il prossimo, anche a vincere. Quando finiva la scuola, lo stesso gioco lo continuava coi compagni di vacanza. Solo che, in questo caso, il ricavato della vendita delle figurine gli serviva per comprarsi quegli attrezzi che gli sarebbero serviti anche da grande: coltelli, tagliabalsa, temperini e quant’altro fosse buono a tagliare borse, tasche di cappotti o pantaloni, aprire cassetti e scrittoi. Mimì era tanto bravo a tenere in ordine i suoi attrezzi che tutto il paese si rivolgeva a lui col rispetto dovuto a un vero professionista. In effetti il lavoro era eseguito a regola d’arte: se una mosca, per sua sventura (della mosca) fosse finita su un coltello affilato dalla mola e dalle mani esperte di don Mimì, avrebbe fatto la fine di San Giovanni Decollato.
Col passare degli anni, Mimì mise assieme un piccolo capitale fatto coi portamonete sfilati dal dietro del culo delle ignare vittime. Vittime che, quelle poche volte che si giravano perché sentivano che stava accadendo qualcosa di strano dietro di loro, si ritrovavano davanti una faccia paciosa: quella di don Mimì. Un attrezzo più efficiente di mille lamette. Se a questo vogliamo aggiungere il suo passo lento e stentato, la sua pancia precocemente abbondante e l’assoluta mancanza di peli (ma non di virilità, come scopriremo in seguito) sul petto, sulle braccia e anche altrove, capiremo perché nessuno, nonostante i dubbi propri e le dicerìe altrui, scappava lontano quando vedeva don Mimì. Anzi, quasi quasi ne era rassicurato.
Saruzza, invece, a scuola ci andava per imparare. Della geografia e dell’italiano non aveva conoscenza e, a dirla tutta, nemmeno curiosità. Per non parlare della religione. Le sue materie preferite erano storia e matematica. La prima le serviva a capire come mai l’umanità fosse riuscita a sopravvivere e a moltiplicarsi nel corso dei millenni; la seconda, invece, per appropriarsi degli strumenti giusti per fottere il prossimo ed evitare il viceversa. Sua madre che, detto tra noi, era ignorante come la calia ma che non si faceva dare punti da nessuno, le diceva sempre che la storia serviva a capire perché uno più uno fa due. E quando qualcun altro aggiunse che la matematica non era un’opinione, Saruzza -che aveva in uggia ogni opinione che non si limitasse a circoscrivere il dare e l’avere- si convertì alla scienza dei numeri. Doveva essere, questa sua inclinazione, una costante di famiglia.
La mamma di Saruzza, Concettina, era l’ottava e unica femmina di nove figli, l’ultima -proprio perché femmina- a vedersi riempire di minestra il piatto. Ed ecco, dunque, come Concettina si era abituata fin da piccola a far di conto: guardava il pentolone della minestra, contava i piatti fondi che sarebbero stati colmati prima del suo (che era piano), faceva le divisioni e scopriva che sarebbe rimasta con la pancia vuota e con la fame addosso. E al termine delle operazioni scoprì che non è giusto tutto quello che tale appare.
Prendiamo la storia dei piatti, per esempio. La mamma di Concettina (e nonna di Saruzza) era una donna d’ordine che sapeva bene come tenere a bada quel branco di figli. Guai se qualcuno cominciava a mangiare prima della preghiera e, soprattutto, prima che tutti i piatti fossero colmi di minestra. «Figli miei, quel gran cornuto di vostro padre se ne è andato e mi ha lasciato povera e pazza, ma come vedete, io qualcosa in tavola riesco a portarla lo stesso. E quel poco che c’è lo dividiamo in parti uguali». Concettina sentiva la litania quotidiana, guardava i piatti tutti egualmente colmi, poi mangiava sapendo che la sua minestra, grazie al trucco dei piatti fondi e dei piatti piani, non era la stessa di quella dei suoi fratelli: era di meno. Mangiava, imparava a far di conto e scopriva che «sembra» ed «è» sono cose diverse. Ma guai a dirlo o a far cenno di averlo capito: c’era il rischio che per un giorno non vedesse nemmeno quel poco di brodaglia. Per punizione, s’intende.
Concettina si sposò presto, anche perché finalmente voleva essere lei a fare le porzioni. Fu presa in moglie da tale Ninuzzo Bellavia, marittimo mobile. Mobile nel senso che, essendo privo di raccomandazioni, non poteva starsene a bighellonare tutto il giorno lungo i moli, ma era sbattuto navi navi da una parte all’altra del mondo. Ogni bimese mandava a casa i tre quarti di quello che guadagnava; quando tornava, invece, completava i doveri coniugali. E puntualmente, nove mesi dopo, la famiglia s’allargava. Sette figli, tutti maschi, tutti ricollegabili al padre al quale assomigliavano come a uno sputo. E se qualcuno ammiccava e mostrava di avere qualche dubbio, Concettina prendeva il calendario, faceva i conti e la discussione finiva lì. Saruzza, invece, nacque prematura: cinque mesi dopo il fulmineo arrivo e l’altrettanto fulminea partenza di Ninuzzo al quale Concettina, per amore e solo per amore, diede la notizia del lieto evento solo quattro mesi dopo.
La piccola, a onor del vero, fu trattata dalla mamma alla stregua degli altri: piatto fondo per i suoi fratelli, piatto fondo anche per lei. Anzi, meglio. Saruzza, infatti, era la nipote prediletta di zu’ Turiddu, l’arriffatore del quartiere. Il sabato mattina, giorno di mercato, la bambina veniva vestita di tutto punto (completino con gli svolazzi sotto, calzettine bianche e scarpe di nero lucido) e fatta girare per le strade mano manuzza a zu’ Turiddu. Un uomo piccolo, tarchiato, secondo alcuni anche un po’ tozzo, ma riveritissimo: era lui, infatti, che estraeva i numeri (a volte dando retta al caso, a volte alla sua coscienza) e distribuiva quel poco di fortuna che faceva felice ora questa, ora quell’altra famiglia. Saruzza camminava petto in fuori e anche lei era riverita e omaggiata: una rappa di racina, una gomma da masticare, ogni tanto una matita colorata. L’uva la mangiava subito, così come subito masticava la gomma. Le matite colorate, invece, le conservava in una specie di scrigno che le aveva regalato don Pino Scannaserpe, il parrino che anni dopo avrebbe benedetto il suo matrimonio con Mimì e che poi, diventata vedova, l’avrebbe consolata: «Sarò per te padre, marito e amico».
