LABIRINTO
E non ne esco
da questo labirinto
fosco di pensieri
mi si dissolve il corpo
in sguardi tremuli
che ricadono nell’occhio
e non vedono
che il riverbero convulso della pelle
quando si snuda
lentamente
da ogni buio sgraffio
e veste inerme
il velo lucido fecondo
dell’essere
-me stessa-
fino all'(e)stremo
sul precipizio del Mondo
-oscena- tesa
una vertigine di Luce
accesa
nella carne.
COME UN SEGNO NERO A MARGINE
Ha una forma irregolare
il dire
quando gli spigoli improvvisi
del Tempo
scontornano parole
e tace lo schioccare vorticoso
della lingua sul palato
come un frullare d’ali
a misurare -stanco-
il perimetro del Vuoto.
Ha un movimento in girotondo
ogni lemma, prima dello schianto,
prima di precipitare
in coincidenza del Silenzio
incrinandosi nel centro
e più dentro, nel profondo,
fino all’origine di Senso.
Il mio Corpo cede peso all’Anima
e cambia di significato e di sostanza
nello spazio del discorso
si appunta come un segno nero
a margine,
nel bianco di una pausa
muto, fugge la distanza
-annullandosi-
si fa Eterno, senza Verbo, sconfinato.
(ANATOMIA DI) UN ASSOLO
Per sentire vivo
questo corpo
in superficie ricompongo (di te)
il muscolo contratto del pensiero
lacero l’imene del ricordo dal profondo
per il peduncolo avvizzito del tuo nome
risalgo l’occhio muto di carezze e d’ombre
impastando il desiderio fino all’argine
del fianco, che si sloga -smagrito-
in frustoli di ruggine e vocali di respiro
ma non volo
mi sciolgo asciutta
un coagulo abortito di piacere
esangue al suolo.
(Sono stanca)
La metrica severa del tuo
andare e tornare e andare
mi puntella nelle tempie
un contrappunto quest’indecisione
un tarlo fra le cosce un’effrazione
che non raggiunge l’osso molle del godere
che non mi fa venire (a te)
per quanto ripercorra con le mani pube ventre seni
al ritmo che impone la tua assenza
fino al nucleo alla molecola della Parola (quel tuo niente)
un esercizio fonetico -sì no forse- che mi arrende
e mi squaglio tra le costole
nell’inguine nell’immaginazione
ma non muoio
mi addormento fredda
vuota schiusa
in un assolo.
SULLA CRINA
L’incavo del derma
che si irrora di piacere
sulla crina
ti offro, amore, alla tua mano
che mi monta marea di cellule e tracima
lievitando sulle labbra un crampo
un fremere rappreso in uno squillo
-sì- ancora fino allo spigolo umido (del cuore)
e non ti guardo fisso il Cielo giuro
quando mi oscilli
in un brusio di stelle dentro
imbastendo di sussurri e di respiro
la ferita che mi segna d’Infinito al centro
e si dilata la matrice del mio Essere
in un’emorragia di Senso l e n t a
che muoio sola godendo(ti)
nei singhiozzi della lingua tua
in punta di preghiera
benedetta.
(IN) SINTESI D’ASSOLUTO
Per esempio, sai,
quando ti voglio
sto tutta lì, impigliata
nel cono minuscolo
che pulsa nascosto -di taglio-
tra le mie gambe.
Ma se non fossi dentro a questo corpo
se solo lo potessi abbandonare
allora mi farei perfetta
sintesi di parole e sogno
senz’ombra, desiderio carne dubbio
(in) Assoluto
ti potrei amare.
QUANDO MI SFRONDO D’INQUIETUDINI
Riposo questo nereggiarmi
di fogliame intricato nelle viscere
-io, isola di rovi abbandonata,
che mi sporgo sul deserto di me stessa-
quando mi sfrondo d’inquietudini
persa nella bruma solitaria del piacere,
dormendo infine il sonno delle piante
che palpitano frasche verso il Cielo
e si piegano nel tronco, appena,
a godere del vento che le arrota
inanellandole
e si diramano di frutti gemme e voglie.
—
[…] “sola voce”, sì, ma per un “assolo” di corpo declinato e insieme rimosso. Il paradosso è solo apparente perché la dicotomia qui espressa e l’intera silloge si rivolgono alla riconciliazione dei contrari. Da un lato l’offerta sacrificale (“L’incavo del derma / che si irrora di piacere / sulla crina / ti offro, amore, alla tua mano”) e dall’altro lato l’urgenza – anche metafisica – di una trascendenza (“dormendo infine il sonno delle piante / che palpitano frasche verso il Cielo / e si piegano nel tronco, appena, / a godere del vento che le arrota / inanellandole / e si diramano di frutti gemme e voglie”). Per confutare questa tesi basta leggere “(In) Sintesi d’assoluto” dove, in due sole strofe, Silvia Rosa sintetizza, mirabilmente, il senso di questa silloge e il leit motiv della sua poetica. Ma le occorrenze si moltiplicano a vista d’occhio: la “sola voce” come pensiero e il “solo corpo” come peso. Quando Silvia Rosa dichiara: “il mio corpo cede peso all’anima”, sta semplicemente esponendo un sussulto, uno spasmo, una vibrazione sotto forma di peso e di pensiero. È più pesante il pensiero o il corpo? Questo non ci è dato saperlo. L’importante è che il peso attraversi quella “pausa” ( “si appunta come un segno nero / a margine, / nel bianco di una pausa”), quell’intervallo – necessariamente atemporale – ove conferire senso ai sensi, quel buco ove il “finito” mette in mobilità la sua finitezza, ovvero l’infinità che è caratteristica precipua del supplemento letterario, al solo scopo di conferire, per così dire, un nome proprio alle fratture che qui vengono, pedissequamente e lucidamente, disseminate. La proposizione è naturalmente reversibile: l’anima cede peso al corpo. Così la “carne astratta”, tra innesti, scavi e recisioni, rinviene alla sua concretezza. Questo perché si può dare concretezza anche nell’assenza e nella mancanza. Da qui la celebrazione e, per così dire, la cerebrazione del vuoto e della privazione da cui derivano passioni e desideri. Ma questa pratica avviene per effrazioni. Silvia Rosa investe – anche con dolo – quel vuoto con il proprio corpo visibilmente esposto (cioè: pesante e pensante). Corpo metaforicamente fumante, ma tangibilmente sfumato in sogni, odori, distrazioni, delusioni, amori, ferite, assenze. E tocca alla “voce” declinare le peculiarità delle passioni che fibrillano all’interno di quel corpo. C’è una poesia che, per la regola della riconciliazione dei contrari, si leva inabissandosi, ed è quindi emblematica in tal senso. Il titolo, “Ovulazione”, ci dice già tutto, ma è il modo in cui si snoda l’asse paradigmatico (mondo-ventre / terra-mondo / ventre-terra) a conferirle una valenza specifica. Il tono musicalmente pacato, il ritmo quasi appercettivo e quella “liquida” sensazione che aleggia su questa terra (madre di corpi) e su questo corpo (madre di se stesso e, in potenza, madre dell’altro a venire) ci trasportano verso un divenire che è stato già consumato in sé ancor prima di spiccare il volo. Ancora un infinito e un finito quindi, ancora una doppia declinazione che è, metafisicamente e anatomicamente, corporea sia nel pregresso che nella sua (in)naturale prosecuzione. Ma non si pensi che questa poetica si riduca ad una sorta di apologia; è anzi essenzialmente impegnata nella ricerca non tanto di un destinatario quanto di una destinazione, di una dimora ove il senso possa trovare il suo aver-luogo. Se “Poesia significa per lo meno toccare la cosa delle parole” (J.L. Nancy), la poeticità e la poematicità di Silvia Rosa toccano, simultaneamente, la trascendenza del corpo verso le parole e il sacrificio delle parole verso il corpo. Non ci resta che dettarle, ma con una voce che preservi e amplifichi l’innata e originaria risonanza di cui sono pregne.
(dalla postfazione di Enzo Campi)
—
È il martirio della lucidità ciò di cui si nutre il poeta, secondo Maria Zambrano. Quella contraddizione che non si vuole annientare ma bensì rendere visibile, come una cicatrice portata da un eterno innamorato. C’è una bellezza tutta da soffrire, nel giorno ghermito dall’ombra, in quel fare puntellato che si aggrappa all’esistere. C’è una bellezza dotata di senso, poi, ché a cercarla sembra difendersi dalla tempesta del mondo. Un modo speciale di r-esistere lo ha trovato Silvia Rosa nel suo esordio poetico che riferisce del tentativo inesauribile di rimanere appigliata a terrestri radici di senso/ incerta nostalgia di un Altrove, percorrendo il baratro per raccontarcelo, lucidamente. Si tratta di un languore originario che si fa domanda poetica immedicabile e muta promessa. Così i versi di Silvia Rosa sono una cronaca del giorno a venire, della conta dei passi che servono per uscire dal fondo di sé per farsi Sola Voce. Il verso chiama una profonda cura del dettaglio e dello stile così come una parola piena, contundente e circolare che si fa carne nuda: il mio Corpo cede peso all’Anima/ e cambia di significato e di sostanza/ nello spazio del discorso/ si appunta come un segno nero/ a margine. Ecco che la nudità diventa la possibilità di decifrare con la pelle la scrittura e il segno del mondo: resta come un coagulo che si distingue dall’anima e accede al Senso. Tutti i dispositivi poetici di Silvia Rosa ci dicono il modo di accogliere il Senso per poi accettarne il distacco. È un rapace – IO -/ che si nega la natura necessaria/ degli artigli (in)segnandosi al rovescio/ la regola del più forte tra i più deboli/ ché siamo tutti deboli come una promessa/ di quelle che (non) mantieni in silenzio/ mantenendola -. La silloge raduna erosioni e calchi che segnano la lingua poetica, l’eterno crocicchio tra ciò che l’autrice sente e il suo manifestarsi: s’imprime in ogni lettera/ che leccando l’alfabeto/ (non) godo,/ e spalanco le mie labbra/ e muta punto le ginocchia// in cerca di salvezza. Ecco che torna quell’impressione di lucido martirio, di nitida ferita di cui si sa avvertire il significato verticale; e si cerca una sbavatura d’Eterno per tornare a domandare, in punta di preghiera, che cosa quell’Io, dopo una litania di combattimenti, sia ancora capace di cantare: una carità, forse, d’Assoluto amore.
(dalla prefazione di Alessandra Pigliaru)
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12 risposte a “Silvia Rosa – DI SOLE VOCI”
Che bel leggere… Non ho parole, ogni verso una scoperta. Non un passaggio scontato e perfezione nella coerenza discorsiva.
Colpita e affondata.
Anatomia di un assolo, la ricorderò per molto tempo.
Complimenti a Silvia e grazie a te, Natàlia per avere evidenziato questi lavori che meritano davvero d’essere letti.
clelia
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Grazie Clelia, ma ad onor del vero questo bellissimo post è stato curato da Enzo Campi, che anche io ringrazio…
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ops…non ho ancora imparato a controllare il “chi”.
Grazie Enzo (Campi) e complimenti anche a te per la postfazione e ad Alessandra (Pigliaru) per la prefazione.
Mentre ero nuovamente qui le ho rilette: ribadisco e rinforzo.
c.
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Silvia merita.Le poesie sono bellissime.Il mio più grande in bocca al lupo;)Complimenti anche a Enzo
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conosco da tempo Silvia, non avevo dubbi circa la sua scrittura e la limpida trasparenza della sua anima. una splendida conferma.
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Ma se non fossi dentro a questo corpo
se solo lo potessi abbandonare
allora mi farei perfetta
sintesi di parole e sogno
senz’ombra, desiderio carne dubbio
(in) Assoluto
ti potrei amare.
Silvia è davvero brava, molto brava.
le note di Alessandra ed Enzo sono preziose.
Saluto e abbraccio tutti, in bocca al lupo per il libro :)
s.
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Clelia, Vincenzo, Daniele, Stefania: vi ringrazio moltissimo di esservi soffermati a leggere e di aver lasciato le vostre parole (preziose) di apprezzamento.
Sono tanto emozionata e anche spaventata, ché oggi la mia creaturina vede la luce, oggi ufficialmente esiste, si può toccarla (io non vedo l’ora!), c’è, “di carta e d’inchiostro”.
Spero che trovi il suo spazio in un mondo già affollatissimo di libri, e che sia amata, con i suoi limiti e le sue imperfezioni, perché ne ha, io ne sono consapevole. E’ la mia opera prima, quindi so per certo che la Voce con cui (si) dice forse non è ancora abbastanza matura e *potente*, [però sentivo necessario farla ascoltare, comunque sia…]
Un ringraziamento speciale è per Natàlia: ti sono e ti sarò sempre riconoscente, per essere stata una delle prime persone ad aver creduto in me, accogliendo ed ospitando i miei lavori nella Silva. Mi auguro di cuore di essere all’altezza della fiducia e della stima che mi hai sempre dimostrato.
Enzo, a te dico il mio millesimo *GRAZIE* (ma non sono mai abbastanza) per il dono che mi hai fatto, accompagnandomi in quest’avventura con le tue parole, insieme ad Alessandra (Pigliaru). Se questo è, come mi piace definirlo, il mio *battesimo di carta*, non potevo sperare in un padrino e in una madrina migliori.
Un caro saluto a tutti i Poeti della Silva e a tutti i lettori.
Grazie ancora per l’ospitalità!
Silvia Rosa
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Silvia, hai superato di gran lunga le aspettative… la stima non è solo affetto ma vero apprezzamento per il tuo lavoro, svolto con serietà e sincertà che arriva e si incide, permanendo.
Sai che vorrei lavorare sui tuoi testi in maniera più sitematica, è un desiderio che ancora non ho potuto assecondare perché travolta da mille incombenze. Ma è solo un appuntamento rimandato.
è bello credere in te, come è bello “sentire” il rapporto che lega il tuo lavoro allo studio profondo che ne fa Alessandra; i vostri lavori sinergici mi affascinano molto, lasciandomi sempre più ricca.
Fare i complimenti ad Enzo, mi sembra quasi superfluo, sapendo lui bene quanta considerazione abbia della sua scrittura e capacità di lettura, una lettura che “rin-traccia” e dà luce alle pieghe più nascoste, a volte in maniera quasi “imbarazzante” :)
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Un mondo di auguri e complimenti , Silvia !
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Natàlia, aspetto con ansia di leggere il frutto del tuo lavoro sui miei testi: sono sicura che attraverso il tuo sguardo ogni mia parola si rinnoverà, spalancandosi alla nascita di nuovi significati, e il Senso non potrà che esserne arricchito.
Maria Grazia,ti ringrazio per gli auguri :-))
Un abbraccio a tutti!
Silvia
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personalmente farei un testo di ogni terzina del Labirinto.
In bocca al lupo per il libro e congratulazioni per la pubblicazione.ferni
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Grazie Fernanda, crepi il lupetto!
Un caro saluto :-))
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