Quartetto d’archi (dedicata a Arthur Rimbaud)

Quartetto d’archi

(dedicata a Arthur Rimbaud)

I)

Ecco il suono

che trapassa il silenzio

come un violino scordato

che ferisce il buon senso,

ecco il colpo

sferrato,

con forza,

dalla spada sguainata dello sdegno,

ecco l’alba

illuminarsi in un lampo

e mortificare

il trionfo

della folle, magnifica tenebra

che ha guidato

i miei piedi scalzi

su quei ciottoli acuminati

che un dio increscioso

ha disseminato sulla mia strada.

Ho perso l’altezza,

ho smarrito la gravità,

non ricordo più

quel verso aureo,

inciso col fuoco,

sulla lastra di marmo della tomba

dei miei avi periti

sotto il giogo dell’inquisizione.

Sembra quasi vino

quell’acqua

che il demone

dispensa

in Rue Soufflot

a tutti quelli che,

come me,

non possono permettersi

il lusso di dormire

e vagano,

senza sosta,

alla ricerca di un’offesa.

Ecco l’ennesima prova,

che sia finalmente l’ultima?

Ecco la sfinge

che sparge il suo seme maligno:

 “ciò che rotola dal pendio

è polvere all’alba,

un sasso a mezzogiorno

e un macigno la sera”.

Chi è che dà voce all’enigma?

Una donna, senz’altro!

Una madre che getta i suoi figli

nella bocca famelica

di Nostra Signora la Vita,

quella signora

dallo sguardo beffardo

che il latte

ha trasformato in veleno.

Ho smarrito il suono del violino

reiterando il boato del macigno

che si schianta

sui corpi pietrificati

di chi non riesce a sciogliere l’enigma.

II)

C’è come un soffio diverso quest’oggi,

una specie di brezza glaciale

che proviene da oriente.

Cos’è che vibra ancora?

Forse quell’urlo selvaggio

che risuona, flebile,

diradandosi nell’eco

di un gesto guerriero.

C’è un cielo plumbeo quest’oggi,

è costellato di nubi

che sembrano di marmo.

Dietro il nero velo della morte

non s’odono che singhiozzi

e le lacrime

precipitano

come chicchi di grandine

su una lastra di vetro.

C’è un sentore di morte quest’oggi,

e tutte queste garze

che fasciano il mio corpo

sono sempre più nere.

Presto,

un litro di quello buono,

un rosso al nero

come il sangue aggrumito

di tutti gli eroi

caduti

sotto il fuoco

del plotone d’esecuzione.

C’è  un nero invadente quest’oggi,

più nero delle ali di un corvo

e del carbone ammonticchiato

sulle rive del fiume.

C’è uno strano silenzio quest’oggi,

non sento voci d’araldi

né acuti d’eunuchi sviliti.

Dov’è il banditore?

Dov’è la sinfonia?

Cos’è questo silenzio protratto?

Dove sono i barbari?

Un invasato in più o in meno

non danneggia

il quadro della passione,

la scena dell’apocalisse

è già gravida

d’ossa spolpate

e fumi rancidi

di carne bruciata.

C’è un odore di cancrena quest’oggi,

una musica di miasmi

e piaghe purulente

infestate dai vermi.

C’è una gola arsa dalla febbre quest’oggi,

c’è un povero malato

che ha sete

e che chiede

solo

un ultimo bicchiere d’assenzio.

III)

Castello di sabbia,

rorido,

malato…

Son forse bottoni di carne

quei due punti luminosi

che svettano

sulle cime ellittiche

delle torri?

C’è un unto blasfemo

nell’idea del ritorno,

quel viscido che impera

nel segno del comando,

che si pone di fronte

ed ostenta la sua forza.

Osservo il sole

deflorare la stanza

in strali inauditi

tra gli scuri socchiusi

e i vetri azzurrati

sulle note cristalline

di un pianoforte

dimenticato

da dio e dagli uomini.

Castello di sabbia,

umido,

infetto…

Son forse due uomini

quei corpi avvinghiati

che fanno capolino,

a tratti,

dalle lenzuola di lino

ricamate con trine d’altri tempi?

Ecco la morte al lavoro

nell’inesausto fluire della vita,

un sorriso amaro,

residui di saliva e di sperma

sulla coscia

incollata all’addome.

Perché tutta questa luce?

È forse un supplizio?

Un olio,

viscido,

sgocciola dal soffitto

mirando all’unghia dell’alluce.

Dall’altra parte del letto

lo sbottìo fastidiato

di chi pretende l’ozio:

“chiudete quegli scuri”.

 Un rintocco di nocche

alla porta,

un raggio

di un blu più intenso,

un’intera secchiata d’olio

ed ecco la cameriera,

seminuda,

i seni e il pube ricoperti

da un leggero velo d’organza,

ecco la donna

avvicinarsi

coi frutti del bosco

e il caffè rubato

in quei paesi lontani

ove fluiva

la mia voglia di libertà.

Castello di sabbia,

fangoso,

increscioso…

Separare l’azzurro dal cielo

vuol dire, forse,

separare la donna dall’uomo?

Quella visione d’organza,

trapassata

dall’incombere del turchino,

si soffermò

sulla mia barba incolta

lisciandone

il pelo brizzolato.

Con le sue mani di velluto

formò una treccia,

poi un’altra

ungendole con l’olio

raccolto dall’alluce,

poi d’improvviso s’alzò

e spalancò gli scuri.

L’azzurro si fece da parte

e fu un tripudio

d’aurea luce,

una cornacchia

entrò nella stanza

starnazzando

il verbo dell’aberrazione.

Il mio corpo nudo,

umido e unto,

si levò dal torpore,

mi inginocchiai ai piedi

della visione d’organza

e recitai

la preghiera del mattino:

“Ah, giovinezza!

Quel tratto smarrito

del passo spedito dell’incoscienza,

qualche grugnito,

qualche risata

e la lascivia

intorno ai tavoli

ove si consumava

il rito dell’oppio.

Ti saluto giovinezza,

con l’inchino irriverente

di chi ha usato il tuo nome

nell’abuso e nel sopruso;

un rivolo verde

di bava d’assenzio

scivola

dagli angoli delle mie labbra

e precipita

sulle mani tese

ad invocare

l’ennesima tenebra

in cui mortificare

definitivamente

la luce.

È il mio saluto.

Fanne tesoro”.

C’è un unto sacro

nell’idea

di un viaggio senza ritorno,

quel viscido destituito

privato del comando,

destinato a soggiacere

sotto il peso del destino.

Ricordo la luna

sovrastare il mio corpo

in un perlaceo amplesso

scandito dal canto suadente

di un coro di ninfe.

Son forse due donne

quei corpi avvinghiati

che fanno capolino,

a tratti,

dalle lenzuola di rugiada

ricamate

con lembi di pelle umana?

A chi appartiene

quella pelle

usata come ornamento?

Ecco la morte al lavoro

nell’esausto fluire della vita,

un pianto sincero e sofferto,

ettolitri di bile

in un tripudio

di sperma inacidito

nella piaga aperta sul costato.

Si disfa il castello

nella marea

che avanza implacabile

e trasale il mio sguardo

al chiodo dell’inevitabile.

 IV)

Pregusto già l’inferno

come degna ricompensa

al mio gesto

e sono sicuro

che è eroico

morire poveri

in una vampa di fuoco.

L’acqua è tiepida,

un gruppo di mercenari

ha affondato il battello,

i miei uomini si sono dati alla fuga,

cos’altro mi resta da fare?

Potrei invocare gli avvoltoi

e ballare sui cadaveri,

potrei dissetarmi

in quel brodo catartico

che ancora s’ostina

a fluire d’intorno.

Potrei sognare una donna

e un calice d’assenzio,

potrei desiderare un uomo

e lo stelo di un papavero,

potrei sfibrare il mio fallo

nell’ultimo amplesso selvaggio

e gridare al vento:

“eccomi, sono pronto”.

Potrei volgere lo sguardo

a quel dio

che mi ha sempre ignorato,

potrei impostare la voce,

come un attore consumato,

e dirgli:

“guarda, questo è quello

che sono diventato”.

Eccomi quindi

nell’angoscia che sale,

eccomi ripercorrere,

con lo sguardo teso e vibrante,

le nefandezze di tutta una vita.

Chi può conoscermi

meglio di me stesso, chi?

Chi può sapere

cosa  mi ha dato il passato, chi?

Nell’alchimia del verbo

scrissi dell’idea

di una libertà assoluta

camuffandola in follia

e parlai di una scintilla

come tramite per il crollo.

Sì, certo,

sono un barbaro e ho sete di sangue.

Cosa mai potrà darmi

quest’acqua meticcia

che ristagna

tra i relitti

del mio battello sventrato?

Cosa mai potranno darmi

quei cadaveri

che hanno già urlato l’addio?

Eccomi,

questi sono i miei ultimi sospiri

e la voce

comincia a tremare.

Ah!

Se potessi rinascere adesso,

se potessi urlare

al mondo intero

il mio primo vagito…

Chi può odiarmi

meglio di me stesso, chi?

Chi può amarmi

meglio di me stesso, chi?

 (scritta nel lontano 2002 e pubblicata nel 2009 in “L’inestinguibile lucore dell’ombra”- Samiszdat Edizioni- Parma)

46 risposte a “Quartetto d’archi (dedicata a Arthur Rimbaud)”

  1. esempio eclatante di transustanziazione intellettuale di sentimenti, spazi e tempi…la fiaccola che i poeti passano di mano in mano fino all’ultima goccia di cera dell’umanità.

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  2. Eclatante esempio di transustanziazione intellettuale…la fiaccola che i poeti passano di mano in mano fino all’ultima goccia di cera dell’umanità.

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  3. Un vero quartetto d’archi, Enzo. Già si avverte la propensione e l’attenzione al lessico, anche se molto diversa :-) dal precedente testo, decisamente maturo.

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    • giovinezza e maturità sono parte integrante del percorso.
      la scrittura è continua ricerca.
      se si riesce a praticizzare la regola di Bataille (“poesia è toccare la cosa delle parole”) si è già a buon punto.
      grazie!

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  4. ops… già si avvertono la propensione all’uso di un linguaggio consapevole e l’attenzione al lessico… Chiedo venia, ma sto per partire e volevo lasciare subito un commento veloce. La scrittura aborre la fretta, dovrei saperlo.

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  5. Primo movimento –

    (dedicata ad Enzo Campi)

    i)

    Trilla la corda tesa

    all’archetto

    dolente e stridulo il fiato

    del suono

    nell’armonia

    del vento,

    adesso –ascolta –

    s’alza come malinconico lamento,

    e s’apre

    la terra ai piedi

    ed alle dita

    che ne scavarono

    l’ombra antica della buca

    che ti fece grembo e seme

    prima che un dio

    iniquo stabilisse il fato

    e che all’arte ti bruciasse le parole.

    Caos ordinato tra le note

    che si spendono

    come pioggia

    di monete ed amuleti

    sulla spiaggia,

    lì dove incidesti

    i geroglifici reconditi

    alle marée

    che sorde conservano

    il canto segreto

    al timpano dionisiaco

    d’una vergine conchiglia –

    casa e guscio

    dei misteri

    che dall’origine

    al peccato ancora

    non conoscevi –

    “cosa vorrà mai quella cosa
    richiamandosi all’ellisse
    in cui abbacinarsi e sfibrarsi
    senza che l’occhio cieco
    abbia a dolersene?”

    – dicevi

    mentre il battito

    squarciando il tempo

    implodeva nella pozza

    delle vene.

    “Forse” – urlasti

    in nome del vagito

    della prima tua luce

    “Perché” – imprecasti alla terra

    alle ossa

    alla ragione

    di tutto il sentire

    che nella stretta

    dei piccoli pugni

    sentisti forte come

    lo strappo del dolore

    quando la carne

    diventa l’unica prigione

    per l’occhio incredulo

    di chi vorrebbe dire.

    Ah, se tu avessi riparato

    nella grancassa

    delle mie fragili ossa!

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  6. Rimbaud. Il tuo -estratto- è l’amore di lui che ti pervade, il suo effetto:

    Osservo il sole
    deflorare la stanza
    in strali inauditi
    tra gli scuri socchiusi
    e i vetri azzurrati
    sulle note cristalline
    di un pianoforte
    dimenticato
    da dio e dagli uomini

    e quei tasti risuonano in te, i suoi, i tuoi… i vostri…

    Per chi come me ne è da sempre affascinata, ritrovarlo così, in queste tue parole, è qualcosa come un regalo: “strali inauditi” da cui è bello farsi colpire.

    Grazie, Doris

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  7. fase non pervertita, dicono che fosse, e io lo sento se mi allineano al somigliante, chè epoche e storia non fanno i codici, quelli d’anima, grazie x lo sprazzo di luce, di bello, agli unicorni non è resa credibilità, e si relegano nella magia, ma se vedi gli arabeschi più che il muro scalcinato, e le trine che piovono dalle fessure, e le lame che trafiggono i solai, sai che sei privilegiato, perchè lo sai raccontare, grazie x aver permesso questo, in una vita d’apnea, Margherita

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  8. A questi versi d’intensità tonante, aggiungerei un’eclatante apparizione di “Signor” tamburo. Signor che “annuncia”, “gestualizza” assieme a -Mrs Poesia-. Corpo che si ammala, voce fragorosa, movimento -tintinnante- degli arti.
    Affascinata dalla musicalità del testo: più si allontana più cerco di raggiungerla. Ho sempre pensato a RIMBAUD astrattamente, partecipando vivamente alla sua formazione, credendo nella “rinomata” potenza visiva. I versi, come al solito ricasco nel tranello, sono di una -forza fisica- o -fisicità- (se preferisci, Enzo) turbolentissima. Andrebbero recitati su un fastoso palchetto*

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    • il “movimento tintinnante degli arti” è un’intuizione geniale.
      Grazie Giada, sempre felice di incontrarti!

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  9. Leggo i tuoi versi… pensando a Rimbaud “seduto ai bordi di qualche strada” … ne sono rapita…
    Poeta tu, Enzo campi, come lui “veggente”.
    Grazie per le intense emozioni della mente e dell’anima.

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  10. Arrivo solo adesso per motivi “tecnici”, ma noto con piacere, caro Enzo, che la “musica” che stai suonando ultimamente affonda le sue radici in “note” già ben definite e salde fin dalle “origini”. Il quarto “movimento”, poi, ha un ritmo, una compiutezza e una tenuta sbalorditivi. Complimenti.

    fm

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  11. Quartetto d’archi, o semplicemente quattro movimenti d’esistenza. Una personale “stagione all’inferno”, un percorso se vogliamo mimetico, nelle immagini, nel clima di décadence, in diverse scelte lessicali (che mi ricordano anche la Scapigliatura), e persino nella visione di quel nichilismo che per noi contemporanei non è una prefigurazione, ma dato storico che che dal macro si infiltra nella coscienza solitaria del soggetto.
    E’ una presa d’atto dell’ “alba” che mortifica il “trionfo della magnifica tenebra”…in fondo una nascita, un venire al mondo, chiamati da un regno d’ombra in cui pure c’era “altezza [e] gravità”, una dimensione di non-essere che paradossalmente sembra avere tutta la consistenza di un essere ch’era stato possibile. Non vi è qui la possibilità di una “illuminazione”, una soltanto, la possibilità di risalire ad una dimensione a misura d’uomo (o sarebbe meglio dire: a misura di quella strana sensazione di un’esistenza possibile, un’esistenza che solo la poesia o lo stravolgimento sensuale, a volte, fa apparire come una sorta di “paradiso perduto”).
    Nel solco di una lirica contemporanea questo tuo testo, nell’anima di questo nostro tempo (questi nostri tempi non decadenti, non più, ma decaduti), dove l’ Io non si può muovere che come accecato, come una sorta di Edipo che una Sfinge predatrice e sanguinaria conosce, beffarda, nella sua assenza di risposte.
    Ed in questa scia interpretativa che sento la tragicità dei quattro versi di chiusura: domanda, domande. Senza risposta, senza risposte.
    Solo un epilogo, un epilogo soltanto: la sponda di un “narcisismo” che appare unica modalità di appartenenza al mondo, unica prova di consistenza nel mondo. Ma il prezzo da pagare è alto, il prezzo da pagare è la chiusura del soggetto )dei soggetti) all’interno di muri ermetici dove l’unica risorsa è l’Io, dove alla voce dell’Io può rispondere solo la voce rifratta dell’Io. In distorsione, in contorsione. O solo nei suoni ferrei di un “violino scordato”.

    Francesco Palmieri

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    • L’alba non come ri-cominciamento, ma come l’ “inevitabilità” che vanifica il fluire della tenebra.
      Di giorno il lumen si confonde con la luce e perde in pregnanza e valenza. Di notte anche un barlume può eguagliare la potenza di una folgore. Talvolta ci si chiede perché e non ci si può esimere dal rinnovare l’interrogazione ad aeternum.

      Grazie Francesco per la lettura!

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