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Riviera-Boom

Di Apolae

 

Tu sì la mé, ndundì, n’dë lë scurda’, sibilò tenendomi ferma dal gomito. Eravamo a passeggiare e il ripetitore sulle colline esplose come un dente di leone al vento, spargendo semi ferrosi di detriti su Pescara, metà Aprile o giù di lì, correva il periodo in cui l’ovatta dei pioppi suggeriva promesse lungo la valle inaridita. Sotto un cielo blu terso non ci saremmo mai aspettati di vivere una tragedia in stallo. Odiavo quando lui mi forzava, con quel colpo di glottide impaziente e il cipiglio aggrottato così, eppure da mesi una roba di quel tipo quasi non faceva più scalpore, piuttosto una debole ancora nella promessa di una minaccia. E odiavo quando mi stringeva troppo forte, stronzo, vampata di rabbia repressa sottopelle, la consapevolezza di odiare tutto quello scempio, continuando lo struscio sulla spiaggia, ennesima vasca, sicuro che nessuno intervenisse. La gente è un boato di silenzio accanto alla graduale distruzione del centro storico e dei suoi vicoli spolpati, sempre brava a farsi i fattacci suoi, di guai ne ha già da vendere e la primavera invece è corta come il ponte Flaiano e lo stadio Adriatico, la statua dannunziana crepata coi lombrichi negli interstizi di un sogno abortito. Questo, del resto, Rocco lo sapeva. Lo sapeva e approfittava che volevo usarlo dita e braccia, dopo aver scavato a lungo in cerca di qualcosa che non si sarebbe comunque trovato, per rubare qualche ora fuori, illudermi di creare un bozzo di novità, rimandare le annose paranoie, neanche a pagare platino e sangue. Il mare stava andando a fuoco, o almeno la sua superficie ormai, allora lasciò il braccio strizzandomi l’occhiolino, manco fossi una ragazzetta tutta casa e chiesa, coperta di petrolio in maniera irreversibile. Un lungo drappo d’inquinamento persistente e venefico, tra baci svogliati sulla guancia e frasi di circostanza sull’andare a vivere insieme, il mare immobile steso come un sudario sul maxischermo live del punto-di-non-ritorno, digitale sovrapposto al reale, cadaverico, noi mano nella mano fino a quando ormai ci credeva solo lui alla nostra inutile storia e bruciava nella sua fiamma formato pixel, davanti al pubblico non pagante sul lungomare crivellato, si giurava addosso. Davanti all’unico ambulante superstite mi offrì un fragola e limone, venti Euro, uno spettacolo stomachevole per occhi assuefatti. Un geniere dal nostro avamposto brillò una mina tanto per fare lo spaccone, boom, che lui poteva proteggermi se voleva, come se io ne avessi voglia e risposi un sussurro accorto a me stessa, come il fischio di una bolla pronta a esplodere e smettere di seguitare a inghiottire polvere. Sospesi la cialda friabile guardandomi altrove, a lungo, lui faceva il gioco dell’ognuno per sé e mio per tutti, Detto qualcosa, No no, Ah ok, conversazioni ridotte a selfie e postava su Instagram con hashtag #bellagiornata, poi spariva nello schermo a rispondere buoni propositi a sconosciuti, perché i cattivi li sfruttiamo già per amori e famiglia, ben centellinati, su commenti e cuoricini mentre il gelato seguiva la griglia del cono incollandosi al mio smalto nero, scivolati sull’obiettivo come bombe a grappolo per deturpare l’intollerabile atmosfera della serenità, finché cadde inerte in una buca, tonfo inevitabile, il respiro sordo del patetico fragolalimone sciolto, quel dolce desiderio di bontà iniziale, che forzando la mano avevamo preferito abbandonare mesti, sulla lingua di un cane fiondato nel cratere di una granata ad annusare scodinzolando e lappando, confondendoci con la massa di schegge accumulate dentro e fuori la città, oltre la cinta di baracche probabilmente Rocco non si era ancora staccato dal Galaxy illuminato, fatto sta che io volsi i tacchi alla rinfusa, fingendo di avere un piano collaudato se non fosse che invece, come tutte le volte, tornai semplicemente a casa. Titoli di coda. Gli avrei mandato un messaggio il giorno successivo. Portai lo sguardo indolente a quel cielo limpido che cullava il sole come un prossimo nascituro cui non avrebbe dato seguito. O forse quelle due spunte azzurre senza risposta esprimevano di per sé un benestare placido, enfatizzato dalla rottura del vecchio schema tramite il concetto riassunto in Sticazzi. Non importava, ad ogni modo, dato il valore residuo. Per ciò di cui avevo bisogno bastava qualsiasi parola noi pensassimo e dicessimo. Pure a scriverla veniva fuori un caos micidiale, come una doccia di Red Bull a getto continuo, l’abuso di Netflix e una riga bianca stesa per ripartire, deflagrata tra le righe alternate di due storie che si incastrano.

 


Si fa chiamare Apolae per scrivere liberamente. Piccoli premi locali per narrativa breve.
Pubblicazione nel 2022 nell’antologia di LibroMania (DeA) The Source. Scrivere sull’Acqua.
Suoi racconti compaiono online su: Altitudini, CrunchEd, Fiat Lux, Galapagos, Gelo, Grado Zero,
In fuga dalla bocciofila, Kairos, L’appeso, L’equivoco, Letture da metropolitana, Liberi di scrivere, Limen Pastiche, Linoleum, Lo Scisma, Nabu Storie, Narrandom, Nido di Gazza, Pulpette, Racconticon, Racconti Senzabuccia, Sicilia buona, Smezziamo, Spaghetti Writers, Squadernauti, Tango Y Gotan, Topsy Kretts e Tremila Battute. Altri testi popolano la pagina Instagram @apolae_fotoracconti. Ama la sua famiglia e la letteratura. Si impegna per coniugarle.


In copertina: Nice Cream by Salvatore Zito


 

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