Del suicidio di razza.

L’atto del commettere suicidio nasce, si sviluppa e si compie attraverso una complessità di dinamiche, che sono superficialmente riconducibili all’idea generale del senso di colpa: sia esso generato verso se stessi, verso l’altro, verso gli altri.

Non può quindi passare inosservato nel momento in cui l’atto in sé può diventare testimonial di un senso di colpa collettivo, per il valore della causa apparentemente scatenante e soprattutto per il grado di interazione con l’altro da sé; elementi che d’altra parte, inevitabilmente contribuiscono all’annullamento definitivo della persona.  Il suicidio diventa quindi “notizia del suicidio” e va ad assumere una sua valenza nella giustificazione collettiva; sia esso atto di disperazione o atto purificativo.
Quanto di più rassicurante il suicidio del violentatore o dell’omicida, quanto di più confermante il suicidio dell’imprenditore fallito o del disoccupato, quanto di più pietistico il suicido della madre depressa che si uccide col figlio.

Quello che è successo giovedì a Firenze, non apre un nuovo “filone”; facilmente si inserisce in quella disperazione, che oggi è naturale affidare a chi non riesce a stare al passo. Quello che invece spaventa e che trova conferma in un esemplare articolo di Andrea Inglese uscito su Nazione Indiana (la frase nazi) è la permanenza non più latente  di un pensiero a mio parere comune, che si avvicina all’idea nazista di razza, tale per cui ogni atto sociale, viene attribuito o valutato in relazione alla cultura presunta che lo potrebbe generare. Andiamo ai fatti:  un ragazzo di 31 anni, africano, arrivato in seguito ad uno dei tanti sbarchi e che viveva in un palazzo occupato della periferia fiorentina, si toglie la vita gettandosi sul cortile. In mancanza di cause certe o scritte, se non è per espiazione  di un qualche peccato, niente di più naturale,  matematico, che assicurare le ragioni di questo suicidio, alla necessità di un permesso di soggiorno. Questo ci fa sentire complici  del dramma in sè, attribuendo la nostra idea di pietà all’assolvimento di un destino e contemporaneamente  ci rassicura pensare che l’atto compiuto trovi fondamento nell’impossibilità di assolvere un aprioristico dovere legale che retoricamente, formalmente, apparentemente  rende una persona degna di equa pietà e dignità: le parole non nascono a caso, stiamo parlando di PERMESSO: cioè dell’autorizzazione ad essere presente o meno in quel luogo.
Il problema nasce quando tale causa viene sfatata. Lo status di rifugiato era stato o no concesso? Quanto di più destabilizzante per il pensiero comune (i quotidiani parlano infatti di “mistero”) pensare che un 31enne, africano, formalmente “illegale” possa essere degno della stessa pietà che si concede alla disperazione di un imprenditore fallito o della madre che si butta col figlio dal balcone. Del resto il ragazzo in questione, viveva in un palazzo occupato, dormendo su un materasso, i suoi compagni raccontano che soffriva di depressione.
E allora dove sta il mistero? Non è che forse permane il bisogno di giustificare razzialmente, culturalmente anche quest’atto?  L’articolo di Andrea Inglese in questo caso è fondamentale perchè scardina dalla latenza un pensiero fin troppo scontato di relativismo antropologico, che non si ferma solo all’identificazione culturale di un reato (lo stupro), ma anche a quella del Diritto ed è presumibile pensare che ancora, quando parliamo di Africa, sia sempre più rassicurante immaginarsi il negretto che vive nella capanna, e che sia quindi naturale  pensare che si possa sopravvivere in situazioni tali o peggio ancora immaginare il fatto che sia socialmente impensabile che il destino di chi reputiamo “inferiore” non possa dipendere esclusivamente che da noi.

Jacopo Ninni

11 risposte a “Del suicidio di razza.”

    • Miodddio… no. Questo commento è tristissimo. “Italiani condannati all’estinzione”: si può avere una considerazione così ristretta e triste della vita, del suo scorrere inarrestabile e indicibile, da millenni. Non siamo ancora capaci di stare in silenzio di fronte ad ogni singolo caso di disperazione altrui, così estremo… sospendere la propaganda, lasciare andare i luoghi comuni e magari, pensare di offrire una preghiera, un invisibile fiore?

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  1. MI illumini, la prego: perchè non capisco se lei mi sta parlando di un problema legato all’andamento del campionato di calcio, che in seguito alla presenza di molti (troppi) giocatori stranieri (mondiali?) rischia di perdere per estinzione la fiera stregua dell’eroico calciatore italico o alla musica che gira su MTV che rischia di affossare i grandi artisti italiani che la televisione italiana propina alle menti italiane (Amici?). Per rispondere alla sua domanda, visto che lei non mi sembra in grado di dare una qualsiasi speranza di barlume al suo banalissimo commento, le dirò che vivo a Firenze, città la cui economia e la cui cultura si basano non solo sul turismo (e non parliamo solo di gite di classe da Voghera), ma anche sulla presenza di scuole internazionali (anche oltre oceano, quindi ahimè per lei, mondiali), sulla presenza di imprese importanti come Gucci, Prada, Ferragamo che hanno un mercato (mi spiace per lei) mondiale e le dirò anche che ho vissuto a Londra, insieme a tanti altri italiani e nessuno ha temuto per l’estinzione dell’altrettanto fiera ed eroica razza britannica. Buona italica domenica!

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    • Oh, che ridere!!! Grazie Jacopo del tuo brillante commento, condivido in pieno. Poi sono andata a farmi un giro nel sito che segnali sopra, dove chi volesse “familiarizzare con i temi della cospirazione mondiale” può trovare indicazioni di lettura.
      Ok. Della serie coltiviamo la schizofrenia di massa… perché è chiaro dove conduce una visione del mondo e della vita che ritenga che “piani degli Illuminati si possano trovare in forme di comunicazione insospettabili: album di fumetti, cartoni animati come i “Simpson”, copertine di dischi di Michael Jackson conterrebbero allusioni agli attentati dell’11 settembre, nonché a stragi e a disastri naturali provocati ad arte…”
      Ah sì, stamattina davvero mi sono fatta due risate, di gusto.
      :DDDDD

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  2. Un ragazzo africano, perchè mai dovremmo riconoscere un suo libero, e certamente intimamente motivato, arbitrio? Il suicidio palesemente motivato ci da modo di decidere da che parte dello schieramento stare, ma quello apparentemente immotivato, e quindi “libero” crea un problema, una variante che non si può “dibattere seriamente”.
    Noi, magnanimi.
    Noi, ai quali non solo non è stato dato modo di affrontare il caso per tempo, ma addirittura veniamo tanto indifferente catalogati da non potere neppure addossarci colpe… Come potremo generare il solito gran chiasso?
    Grazie Jacopo.
    c.

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  3. – indifferente”mente”_

    scusa, trattasi di foga nello scrivere il commento (foca, mi piaceva di più).

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