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Qualcosa di weird – Monolimb.wav

Loop, glitch e amputazioni semantiche, accumulo di frammenti clinici, visioni rituali e detriti filosofici, fino alla costruzione di un paesaggio mentale in cui non esiste più distinzione tra  memoria e allucinazione, creazione e collasso.
È con questo racconto che si chiude la nostra rassegna dedicata al weird: non una conclusione, ma un cortocircuito finale, un segnale residuo che continua a pulsare…


Di Marco Pianti

 

Una sera, montando in cuffia i nastri su cui aveva inciso le registrazioni di una tachicardia notturna, Lukaš nota un suono di sottofondo che sembra provenire dalla sua cassa toracica, un battito doppio dal ritmo frenetico, due cuori che palpitano in dissonanza. In un primo momento, com’è naturale, si preoccupa della propria salute mentale, poi isola la frequenza e ne fa un loop. Lo ascolta e ha l’impressione che il ritmo e l’alternanza delle pulsazioni diano forma ad un dialogo dal quale è escluso e di cui non capisce né il senso né la struttura. Lukaš si chiede se è tutto nella sua testa o è reale. Quando alla debolezza mentale si somma uno stato di prostrazione fisica, il pensiero prende le distanze dal corpo, e inizia il delirio. Il contenuto del cervello contamina il mondo esterno e si sovrappone a esso. Tutto ciò innesca un meccanismo progressivo e irreversibile di logoramento. 

Il mattino seguente capisce di avere tra le mani la prima traccia di una nuova produzione. Il pezzo si intitola Residual Signal, ha una durata di diciotto minuti, durante i quali si alternano field recording ospedalieri distorti e le pulsazioni dei due cuori. Lukaš passa le giornate a letto a leggere pubblicazioni scientifiche, si isola un po’ alla volta, stacca il telefono e diventa paranoico. Di notte l’attività del cervello riproduce una tempesta magnetica. Si rende conto di aver perso ogni contatto con il proprio corpo. Il braccio sinistro è lì e può toccarlo, ma non riesce a percepirlo come parte integrante del corpo. Ha perso la coerenza che permette di riconoscere le diverse parti come unità di un insieme. Incide Phantom Limb (Left). Un basso sordo, simile al battito uterino. Suoni sintetici si sovrappongono a respiri affannati, poi si sente una serie di scricchiolii secchi: ossa che si assestano. Segue Nerve Choir (27 minuti). Suoni glitchati e riverberi che imitano le scariche elettriche monitorate durante il fenomeno di conversione della memoria implicita in memoria episodica. In Limb Séance combina field recording ritualistici di una tribù inùit, lenti battiti e armonie eteree. Si imbatte in un articolo pubblicato da un’equipe cinese sul Journal of Neuroscience. Apotemnofilia, legge, anche nota come Body Integrity Dysphoria (BID), chi ne soffre prova un desiderio intenso e persistente di amputare una parte sana del proprio corpo, spesso perché percepisce quella parte come aliena al proprio sé corporeo. Le parole dell’articolo confermano l’idea di Lukaš, secondo cui corpo e mente sono una sola cosa, ma non dovrebbero mai trovarsi nello stesso luogo nello stesso momento. 

Guarda lo schermo del computer e poi fuori dalla finestra senza registrare differenze sostanziali. In preda a un’euforia malsana incide Absent Grasp (53 minuti), ritmo asimetrico e melodie interrotte. Elementi, questi, che evocano la progressiva perdita della percezione di sé. Dimentica di lavarsi e di mangiare, sembra manifestare i primissimi sintomi di una demenza precoce. Legge la testimonianza di una donna scandinava che racconta di essersi mozzata un braccio che la tormentava e spiega come abbia provato un sollievo immediato e duraturo. Cerca materiale etnografico. Legge di rituali di amputazione con finalità antropofaghe. L’album si chiamerà Monolimb, l’illustrazione in copertina è una fotografia di Lukaš, un autoscatto in cui appare mutilato, risultato ottenuto per mezzo di inconsueti fenomeni di rifrazione. Ogni mattina, svegliandosi trova nella DAW una nuova traccia, salvata con un titolo provvisorio: Tibia.wav, Ulna.wav, Clavicola.adg. Le ascolta e gli sembra di trovarsi nella testa di un altro e di vedere i suoi pensieri e ricordi. Tracce con toni dissonanti, droni profondi e rumori corporei manipolati. Silenzi improvvisi e prolungati. Campioni neurologici. Vecchie registrazioni incise su VHS. I suoni non rassicurano, ma alimentano il disagio. Rappresentano la mancanza, il vuoto. La tensione è costante. Durante un episodio maniacale incide Shadowed Abscence (126 minuti) e Phantom Touch (46 secondi). Ormai agisce senza alcun calcolo preventivo. Il pensiero segue l’azione, pensa, non accade mai il contrario: non c’è nessuna possibilità di dare seguito ai propri pensieri, e pochissime possibilità di capire quanto è accaduto. Bisogna lasciarsi determinare da queste pulsioni che trascendono il pensiero, e in molti casi lo smentiscono, coprendoci di ridicolo. È ridotto a una coscienza delirante in costante contatto con la scheda madre del computer. Due intelligenze automatizzate che si scambiano codici e frequenze. Ora che ho cancellato la mia presenza fisica, pensa, dovrei sentirmi risolto, pacificato, e invece no. C’è qualcosa di più terrificante di un corpo, e sono i ricordi. Il ricordo del corpo, unito alla percezione del corpo, nonostante la completa assenza di un corpo, lo conduce sull’orlo di una crisi nervosa. Basta l’idea del corpo ad attivare il desiderio. E in alcuni casi, la nostalgia. Eliminare i ricordi. Trasferire i ricordi. Annientare ogni residuo di ricordo nella memoria. Precipita in uno stato alterato in cui abbondano visioni paradossali. Inizia a parlare e registrare su nastro. Dal ricordo più remoto al più prossimo, devo dire tutto, pensa, ogni cosa, come in una confessione. La sua voce monocorde racconta di quella volta in cui è entrato in salotto e ha visto una mela sul tavolo. Una mela perfetta. L’ho afferrata, dice, e mi sono guardato intorno, come se mi rendessi colpevole di un’infrazione gravissima. Me la sono infilata in tasca. No, non avevo tasche. I bambini non hanno tasche. Cosa se ne fa un bambino delle tasche, se non possiede nulla e non desidera possedere alcunché? Forse le ho dato un morso e sono corso via. E ora, permane come un’ombra, alla periferia del ricordo, qualcosa di macabro e incantato, tale e quale alle fiabe, nelle quali, nonostante l’atmosfera di pace assoluta, sono conservate le tracce di un massacro. Andiamo avanti, pensa. Inutile soffermarsi su ogni dettaglio. Intanto il nastro continua a registrare. Dopo diciotto ore ininterrotte fa una pausa e trascorre le diciotto ore successive ad ascoltare il contenuto del nastro. Nei ricordi permane il sospetto di un’assenza quanto mai presente, qualcosa di rimosso con estrema urgenza, della quale non saprebbe riferire niente, anche se è pronto a giurare che sia rannicchiata lì da qualche parte. Incide una traccia della durata di trentasei ore che intitola semplicemente Silenzio provvisorio.wav. Distorce la voce che parla, aggiunge il suono di un pianoforte che suona una sola nota ossessiva da una distanza al contempo fisica e temporale. Sembra che provenga da ieri o da domani. Ascolta la traccia senza riuscire a staccarsene, nemmeno per un istante. Continua a registrare i propri pensieri, senza rendersi conto che da un certo punto in poi non si tratta più di semplici pensieri, ma di autentiche riflessioni filosofiche. Le fasi successive dello sviluppo, dice una voce stanca, prevedono che uomini e donne, una volta giunti all’impasse che attende ogni singolo individuo, e che è sempre dietro l’angolo, siano tenuti a pianificare ed edificare il proprio carcere mentale, nel quale rimarranno segregati finché campano. Nuova incisione della durata di sedici minuti che intitola pensée1.wav a cui seguono altri pensieri fino al numero tredici. Li ascolta con interesse. Decide di montare la sua attrezzatura dentro l’armadio e di trasferirsi lì. Ascolta i suoi pensieri, prima in ordine sparso, rallentati, poi dal primo all’ultimo, a velocità doppia, e in senso inverso. L’acustica è perfetta, nell’armadio. Una voce sentenzia, in tono oracolare: 

Non c’è mai una completa adesione alle attività quotidiane. 

Pensare all’ostinazione con cui si nega una nuova realtà. 

Lo faccio per sottrarmi alla necessità di farlo. 

Pianure mentali. Edifici mentali. Oceani mentali.

Gli alberi sono strumenti per misurare il tempo. 

Nella nostra mente sono tutti morti. 

Quando pensiamo a qualcuno, pensiamo a un morto. 

La nostra mente è un cimitero.

Provare nostalgia del luogo in cui ci si trova.

Il pensiero talvolta rassicurante, talvolta spaventoso, che le nostre vite siano predeterminate.

Il cervello pieno di chiodi.

Ho bisogno di sapere che la mia permanenza in un edificio abbia uno scopo preciso.

E questo cerchio, il cerchio dei miei pensieri, si restringe fino a soffocarmi.


 

 

Marco Pianti ha trentadue anni, è nato in Francia ma è cresciuto in Gallura.
Ha pubblicato i suoi racconti su Nazione Indiana e Poetarum Silva.


 

In copertina: Glitch 

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