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Qualcosa di weird – Carnevale di pezzi

Quando perdiamo qualcuno ci sembra davvero di perdere qualcosa. Qui però quel qualcosa è fin troppo legato alla conformazione del nostro corpo e potrebbero capitare risvegli (e incontri) decisamente inaspettati…


Di Dalila Boi

 

Lidia si svegliò, in una nera mattina di dicembre, senza un braccio. Qualche lembo di carne dilaniata ancora penzolava appena sotto al gomito. Il resto dell’avambraccio? Scomparso. Stordita dal sonno, fece oscillare  la parte menomata davanti agli occhi, la rigirò più volte per osservarla meglio. Non usciva sangue, ma la ferita era ancora fresca, morbida e appiccicosa al tatto. Non aveva odore. D’istinto la leccò: aveva il sapore ferroso dei vecchi cucchiai della nonna. 

Nausea. Panico. Pensando che fosse un sogno, tentò di risvegliarsi cercandosi le mani, ma abbassando lo sguardo ne trovò solo una alla fine delle appendici. Allora cercò di corsa uno specchio per riconoscere la sua immagine riflessa.. Stette lì a fissarsi per qualche minuto. Non sembrava diversa, aveva gli occhi un po’ più neri, leggermente infossati, quasi a volersi nascondere nelle caverne dello scheletro. Non succedeva niente. Sentiva solo aumentare il calore nella pancia e diminuire la forza nelle gambe. Si schiaffeggiò la faccia, si morse un labbro fino a farlo sanguinare. Non era un sogno. Governata da chissà quale forza innata, incosciente, rivoltò la stanza in cerca della sua parte scomparsa. Alzò ogni tappeto, controllò dietro le tende, negli scaffali, tra i cuscini del divano, nella vasca, nel cesso, tra i libri, sotto al letto, strappò via le lenzuola dal materasso, strappò via il materasso dal letto, ma nulla. Le lacrime trovarono finalmente la via di fuga. Era in totale confusione. Ma cosa era successo? Come? E quando? Non riusciva a ricordare, a ricollegare un evento scatenante. Bevve qualche bicchiere d’acqua per riaccendere il circuito biochimico del ricordo, ma non sarebbe bastato il mare. Forse era successo mentre dormiva, forse lo aveva tagliato da sé, forse qualcun altro si era appropriato di un pezzo del suo corpo. Davvero poteva essere un’ipotesi esatta? Si guardò intorno, posando ancora  gli occhi velocemente da un punto ad un altro senza vedere niente.
Nessuna traccia di quel pezzo di carne. 

Si lasciò cadere sul pavimento, si accovacciò su un fianco, come faceva da piccola quando Babbo Natale sbagliava per l’ennesima volta il regalo, e lei si convinceva di essere una bambina cattiva. Era veramente cattiva, allora, se le era successo anche questo, anche questa volta. Appoggiò la testa sul gres effetto legno, reso disordinato e caotico da tutti gli oggetti precipitati durante la caccia. A pochi passi da lei un quadretto di sua madre in una bella cornice color avorio. Alla donna nella foto mancava la parte destra del corpo, il braccio all’altezza della spalla, la gamba sembrava essere stata strappata da un morso gigantesco partito dal bacino, il viso privo di pelle. Era stata scattata poco dopo la morte di suo padre. 

– Devo andare da un medico – decise.
Si vestì in fretta, coprendo con cura ogni margine di pelle, l’arto monco, la testa, gli occhi per sembrare almeno invisibile. Camminava a testa bassa, evitando gli sguardi, correndo a glutei stretti.

– Mi scusi, è occupato questo posto?

Sull’autobus una dolce voce di donna disturbò la sua ansia. Lidia istintivamente si voltò e si trattenne dal gridare. La graziosa signora di fronte a lei sorrideva come sorridono le persone grate, come sorridono quelle che si prendono cura del prossimo, anche quando fa male. Le mancava un occhio. Un buco rosso arredato da brandelli penzolanti le colorava il viso pallido, appena ravvivato da un leggero filo di trucco. 

– C… erto. Prego. 

– Che fortuna che sia uscita questa splendida giornata! Mancano solo pochi giorni a Natale e devo ancora comprare un regalo per mio figlio. Sa, abbiamo perso da poco il nostro adorato Whisky e si sente ancora molto triste. Gli abbiamo promesso che quest’anno faremo una grande festa, anche se i soldi sono sempre pochi. Ma sa com’è, i figli si cerca di accontentarli come si può. 

Sorrise rasserenata,  un pezzetto di carne rossa le invadeva il viso . Lidia trattenne un conato di vomito. 

– Mi… dispiace molto. Mi scusi ma la prossima è la mia fermata 
Non sopportava tutta quella dolcezza mescolata a una ferita.– Certo, la faccio passare. Allora buona giornata e  buon Natale!

Ma porca troia guarda dove vai!

Aveva attraversato senza guardare. Galoppò verso l’altro capo della strada, non riuscendo a smettere di fissare l’automobilista che imprecando agitava le braccia sopra il volante. Braccia da cui mancavano entrambe le mani. Sul marciapiede opposto finalmente c’era il portone dello studio medico. 

– Ce le hai due monetine? Ho fame, dammi qualcosa 

Si divincolò da un mendicante aggressivo. Aveva un buco sulla faccia, da cui mancavano un’intera guancia e mezzo naso, e una voragine nella pancia, da cui si poteva guardare attraverso.

Nella sala d’attesa del medico la situazione non migliorò. Era intrappolata in un horror splatter, circondata da zombie. Un uomo corpulento insultava la minuta segretaria.

– Questo è il tuo lavoro, non posso tornare ogni santa volta perché sbagli la ricetta, non ho tempo da perdere cazzo. 

Indossava un abito blu, una cravatta rossa e si passava continuamente la mano nei capelli tinti di un nero innaturale. 

– Mi dispiace signore, ma non era stato chiaro. Può parlare con il medico.

– Non voglio parlare con il medico, io parlo con te per non andare dal medico, non mi serve, pensi che sia uno stupido? 

– No signore, non intendevo questo. A volte capita di sbagliare la ricetta.

– No invece, è proprio qui che ti sbagli. Non deve capitare. È il tuo lavoro, se non sei capace neanche di copiare e incollare il nome di un farmaco che ci stai a fare qua? Ma a questa qua chi l’ha assunta, vorrei sapere –  aggiunse con una risata profonda guardando la sala.
Era evidentemente un maestro nella recitazione. La giovane segretaria sembrò diventare ancora più piccola, ma non potevano uscire lacrime dai suoi occhi, perché li aveva persi entrambi, chissà quando. L’uomo invece portava appesi sulla schiena una serie di arti sconosciuti, mani e piedi di uomini e di donne saccheggiati chissà dove. Nessuno si azzardò a parlare, né a guardarlo negli occhi, per paura di essere la prossima vittima. 

– Devo aver preso qualche malattia nervosa… sì, per questo ho le allucinazioni. 

La dottoressa non era dello stesso parere. Era intenta a raccogliere qualcosa da terra, completamente immersa sotto il tavolo, di cui a stento si intravedeva il colore del legno per la presenza di fogli, bottiglie, posaceneri pieni di mozziconi ancora fumanti e carte di merendine ipercaloriche.  

– Dimmi pure cara, di cosa hai bisogno?

– Dottoressa, ho le allucinazioni. 

La dottoressa si alzò di scatto, sfiorando con la testa la massiccia scrivania. A Lidia venne un altro conato. . L’intera parte sinistra del corpo era menomata, sdrucita da quello che ne restava. Le era rimasto un solo occhio e mezza bocca. 

–  Che tipo di allucinazioni?

– Mi pare che a tutte le persone intorno a me, me compresa, manchi una parte… del corpo.

– Hai la febbre alta, quindi?

– No, non ho febbre. 

– Mal di testa? Mal di gola? Raffreddore?

– No dottoressa, sto bene, ho solo le alluc…

– Dormi abbastanza?

– Un pò meno del solito ma…

– Mia cara, hai bisogno di un po ‘ di  riposo. Si vede che sei stanca. 

– Ma no dottoressa, io…

– Stai mangiando? Ti nutri a sufficienza?

– Certo dottoressa, ma io… 

– Ti posso consigliare una passeggiata al mare, della palestra e trovati un’occupazione magari.

– Sì, dottoressa, io ce l’ho un’occupazione, ma… 

– Ma allora non c’è niente che non va, suvvia. Vedrai che dopo una bella dormita starai meglio. Intanto posso prescriverti qualche integratore.

La dottoressa si alzò per andare verso la scaffalatura dove teneva i medicinali portati in dono dagli agenti farmaceutici. Quando si mosse, Lidia percepì una netta asimmetria. La donna portava un mezzo stinco penzolante all’altezza del ginocchio, con tanto di calzini di filo di Scozia e mocassino. Una mano ignota era incollata dal mignolo alla coscia destra, e veniva sballottata in su e in giù al movimento dei fianchi. 

– Ma che ci sta a fare, che ci sta a fare lei qua se non mi ascolta? E che sono queste cose che si porta appresso? Che ne è stato di lui? Che c’è, le piacevano le Sebago? 

La dottoressa rimase impietrita.

– Ma lei come lo s… Adesso vada fuori.

– …

– Ho detto esca, per favore.

– Senta dottoressa, mi dispiace, vorrei solo qualcosa che mi faccia tornare normale, non so a chi altro chiedere. 

– FUORI!

Ci fu un attimo di silenzio in cui le due si guardarono, si studiarono, si odiarono. Poi Lidia, sconfitta, se ne andò. 

Tutto quel gridare le aveva fatto venire caldo. Uscita dallo studio si tolse la giacca e una bambina a cui mancava un piede rimase a fissare il vuoto della sua figura. Il resto dei passanti sembrava . Si ricoprì velocemente, e mentre si impegnava a fuggire per una  strada laterale  li vide: madre e figlio camminavano con la stessa velocità sul marciapiede opposto, in un’unica figura. Il corpo del bambino si fondeva al bacino della madre, alla sua gamba, come fosse un piccolo fungo. Si guardò intorno e ne vide altri. Due amiche che passeggiavano con le buste dello shopping sottobraccio, unite all’altezza dell’avambraccio; una donna con il cagnolino appiccicato alla caviglia; due anziani sposi legati dalla testa ai piedi.  Lembi di carne si intrecciavano scompostamente, come fossero rami, radici, come fossero alberi cresciuti insieme.  Su una panchina in lontananza due giovani amanti litigavano. Erano uniti all’altezza delle spalle, ma si cominciava a intravedeva lo strappo. A questo carnevale sfilavano figure menomate nei modi più immaginifici: c’era chi, privo delle gambe, aveva perso per sempre la possibilità di camminare; e chi, senza più le braccia, non sarebbe stato in grado di offrire un abbraccio nemmeno volendolo.  C’era anche chi si portava dietro frammenti di corpi altrui, senza sentirne il peso, senza perdere l’equilibrio. In alcuni, qualcosa ricominciava a germogliare proprio dove le cicatrici univano i lembi della ferita. Tutti convivevano nello stesso spazio, ciascuno con la propria mancanza o con il proprio piccolo riscatto, con una naturale serenità, inconsapevoli gli uni degli altri.

La mattina seguente, Lidia si svegliò ancora senza il braccio, proprio come il giorno prima, ancora incompleta. Ma, per la prima volta, sentì un fremito sottile, un formicolio inatteso, là dove la cicatrice sembrava tentare di richiudere i bordi, come se qualcosa volesse tornare a farsi sentire.

 

Dalila Boi  è nata  nel 1994 e vive a Roma. Consegue un dottorato in Scienze della Vita e  lavora come ricercatrice nell’ambito della biologia del cancro. Coltiva la sua passione congenita per la scrittura impegnandosi in attività di comunicazione scientifica e scrivendo racconti per riviste letterarie. 


In copertina: Clemente Susini e Giuseppe Ferrini, Officina ceroplastica dell’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, Statua femminile giacente, detta “Venere”

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