Qualcosa di weird – Ne travaillez jamais

Oggi, cronaca di una metamorfosi materna, di un inquietante cambiamento cellulare ed epidermico. Quell’esatto tipo di trasformazione che nessuno vuole nominare, ma che tutti osservano trattenendo il fiato.

 


Di Carlotta Balestrieri

 

Il ginecologo si allunga sulla scrivania, mi fissa negli occhi, fa un mezzo sorriso. È un’increspatura minuscola, appena percettibile, ma è sufficiente per confermare la mia impressione iniziale, e cioè che non crede a una parola di quello che dico. Pensa che io sia uscita di testa, una pazza ipocondriaca che teme la gravidanza anche più della morte. Affabile, mi offre un bicchiere d’acqua: «Signorina, si calmi, tutto procede secondo natura».
Io lo guardo e sorrido a mia volta, ma dentro lo odio. Anche se è vecchio, avvizzito e un po’ sguercio, farei a cambio col suo corpo pur di non sentire male, pur di dargli la prova della mia sofferenza.
«È colpa degli ormoni se si sente così» dice, e il sottinteso è chiaro: la smetta di inventarsi malattie che non ha. Della spiegazione scientifica che ne segue non capisco una parola, perché le mie orecchie, da ieri, si sono messe a fischiare e non riesco a mantenere la concentrazione per più di qualche secondo. Poi ci sono le dita che si contraggono fin quasi a slogarsi, la pelle che senza ragione comincia a bruciare, le ossa che tirano come quando da bambina le sentivo crescere sotto la carne. Come faccio a dimostrargli che sono sintomi veri? L’unico aspetto positivo di questa mia condizione è che non sono più miope.
Mentre il ginecologo parla continuo a pensare a te, che nuoti dentro il mio corpo e ne prendi un poco ogni giorno per crescere. Questo schifo è iniziato da quando ci sei. Anche se sei piccolo, informe e appena abbozzato, nella tua maniera istintiva e primordiale sei intelligente: sai bene che vivi perché io ti permetto di farlo. Da quando hai messo radici nell’utero, però, si è acceso qualcosa. Un processo si è avviato, e temo che sia irreversibile. 

*

Stanotte mi sono svegliata gridando. Avevo male ovunque e paura di morire. Poi mi sono ricordata che esisti, e allora la paura di morire è diventata paura di ucciderti. Ho provato ad accendere l’abat-jour ma le dita si sono chiuse attorno al filo, con uno spasmo, tirandolo forte. La lampada è caduta a terra, il pavimento si è trasformato in una gigantesca tagliola di cocci. Mi sono precipitata fuori dal letto e ho corso lungo il corridoio per lo spavento, fermata solo dallo specchio, dalla mia immagine riflessa, quando il cervello ha cominciato a connettere e i piedi a fare male. Sotto di loro, una pozza di sangue; dietro di me una dozzina di orme. Mi sono appoggiata al mobile dell’ingresso perché mi girava la testa, e sono rimasta lì finché il respiro non è tornato normale.
Mia madre si è presentata davanti alla porta che non erano neanche le otto: «Passavo di qua», ha detto, anche se la mia casa è in aperta campagna e la strada per raggiungerla non porta da nessuna parte. Da quando ha saputo della mia gravidanza non smette di assillarmi a ogni ora del giorno. Vuole sapere chi è il padre, io non ho intenzione di dirglielo perché tanto non cambierebbe nulla. Lui ha scelto di lavarsi le mani di questo bambino e io ho deciso di dimenticarmi di lui.
Ci ho provato a fare finta di niente, ma coi piedi fasciati, la camminata sbilenca e la casa in condizioni pietose, ha insistito fin quando non le ho raccontato cos’è successo stanotte.
Ha pianto, si è battuta le mani sul petto e ha emesso la sua sentenza: depressione post-partum.
«Preparto, semmai… sono ancora incinta» ho puntualizzato.
«Sì, come ti pare, basta che vai dal medico o ti ci porto io con la forza».

*

Entro nello studio del dottore accolta dal suo sorriso affabile.
«Novità?» mi chiede, ma quando comincio a spiegargli quello che mi è capitato, subito si irrigidisce.
«Dovrebbe parlare con uno psicologo. Io non posso aiutarla».
Mi alzo per andarmene, cercando di mostrarmi calma, e intanto maledico mentalmente mia madre che mi ha convinta a fare questa visita e me stessa per averla assecondata. Faccio per girare la maniglia della porta ma le dita si contraggono e il dolore che sento, come una staffilata, mi costringe a gridare. Il dottore mi raggiunge, quando vede le mie mani tutte contorte e arrossate chiama al telefono.
«Vieni subito qua, mi serve un parere urgente» dice piano alla cornetta, con la mano davanti alla bocca per non farsi sentire. Io però lo sento. Anzi, da quando il fischio alle orecchie se n’è andato sento tutto, anche quello che dicono le persone in sala d’aspetto.
Qualcuno bussa:
«Tutto bene, dottore?»
E lui si affaccia alla porta e conferma di sì:
«Non si preoccupi, signora, non è successo niente. Ma sarebbe meglio se lei e gli altri tornaste domani».
Rientra con un sorriso tirato che anziché rassicurarmi mi agita, ma non oso fare domande perché ho paura di quello che potrebbe rispondermi.
«Come sta?» domanda, mentre butta l’occhio sulle mie mani che nel frattempo si sono chiuse a pugno.
«Fanno male».
Per qualche minuto restiamo in attesa del collega, ed è un tempo che mi pare interminabile anche se lui continua a parlare per riempire il silenzio. Io fingo di ascoltarlo ma in realtà sono concentrata a fissarmi le mani: rispetto a mezz’ora fa la pelle è più spessa, più dura, mentre all’altezza del polso si è sviluppata una peluria fitta e chiara che si arrampica verso l’avambraccio. A interrompere la mia contemplazione l’arrivo del collega, uno spilungone con la faccia rubizza che mi guarda dietro due inquietanti occhi a palla:
«Eccomi» dice, infilandosi rapido nella stanza, e il mio dottore si affretta a rispondere un «Menomale!» che tradisce tutta la sua agitazione.

*

«Le facciamo una puntura di antidolorifico così per qualche ora sta tranquilla…» annuncia lo spilungone dopo avermi visitata.
Lì per lì mi chiedo se sia un’affermazione o una domanda, ma quando vedo il mio dottore trafficare con una siringa, i dubbi svaniscono. Senza oppormi, arrotolo la manica della camicia e li lascio fare; ora che ho ottenuto la loro attenzione, sono disposta ad accettare quasi tutto.

*

Una luce mi lampeggia sulla testa. È fredda e mi dà fastidio agli occhi. Il soffitto è bianco, un po’ scrostato, e non capisco a che stanza appartenga. Non sono in casa mia. E nemmeno in quella di mia madre. Mi guardo intorno e capisco di essere in una camera d’ospedale, sola. Ho il corpo intorpidito e un gran dolore alla testa. Quando faccio per sedermi, una fitta mi si irradia dal centro della schiena fino alle dita, e sono costretta a sdraiarmi di nuovo.
Resto distesa per almeno mezz’ora, finché non sento dei passi raggiungere l’ingresso della stanza. Un tintinnare di chiavi, tre scatti di serratura e la porta si apre.
«Buongiorno. Ha dormito bene?» domanda un’infermiera come se niente fosse.
«Perché sono qui?» ribatto io.
Ma lei tergiversa, non spiega, col sorriso sulle labbra finge di non sentire quello che le sto chiedendo. E va avanti con le sue chiacchiere ignorando la mia domanda. Poi arriva un altro dottore, e lui invece si sbottona un po’ di più:
«Dobbiamo tenere monitorata la sua gravidanza» dice.
«Che cosa c’è che non va?»
«Stiamo facendo degli accertamenti»
«Ma il bambino sta bene?»
«Di lui non deve preoccuparsi»
«E mia madre? Lei l’avete avvertita?»
«Sì, ma le visite sono rimandate. Ora deve riposare»
Le due ore successive le trascorro facendo ipotesi e girandomi nel letto in cerca di una posizione comoda.

*

Sono qua già da una settimana e più passa il tempo e più dormire diventa un problema. Fisso il vuoto nell’attesa di sentire i tuoi movimenti per distrarmi dal tormento dei pensieri. Continuo a chiedermi come andrà il parto, cosa succederà, se questa cosa che mi sta capitando non possa mettere in pericolo la tua vita. E poi dov’è mia madre, e perché non si fa sentire? Per quale ragione mi negano anche le telefonate? Nei brevi momenti in cui scivolo nel dormiveglia, le paure che riesco a dominare quando sono cosciente rompono gli argini trasformandosi in incubi da cui riemergo di colpo, sudata, gridando. Ogni tanto, a svegliarmi, sono formicolii in zone precise del corpo: schiena, braccia, gambe, piedi, viso. Solo dopo pranzo riesco a prendere sonno, ma è un sonno artefatto per i sedativi che sono certa mi mettano nel cibo. Al risveglio, infatti, ho sempre la testa confusa e le lenzuola cambiate di fresco. Tutti, però, fanno finta di niente, sembrano tranquilli, hanno modi affettati e sorridono con quei denti che sembrano ogni giorno più grandi e mi luccicano in faccia come zanne. Li assecondo per capire dove vogliono arrivare, senza mai abbassare la guardia.
Stamattina mi sono ritrovata con una fasciatura a una mano. Credo che me l’abbiano messa per impedirmi di vedere quello che sta succedendo sotto le bende. 

*

A mezzogiorno l’infermiera entra nella stanza spingendo il carrello delle vivande. Me lo mette davanti e se ne va senza dire una parola.
Alla vista di tutto quel cibo lo stomaco comincia a brontolare. Con l’unica mano disponibile afferro il pane e ne strappo grandi pezzi con i denti, sparpagliando briciole ovunque, poi mi avvento sulla carne e la riduco a brandelli. Non ho mai provato una fame del genere, e riesco a fermarmi solo a pasto concluso, vergognandomi per avere ridotto la stanza a uno schifo. Mi passo il tovagliolo sulle labbra ma mi graffio con queste unghie coriacee che, nonostante le infermiere vengano a tagliarmele ogni mattina, da quando sono qui crescono anche di mezzo centimetro al giorno. Una goccia di sangue mi scivola in bocca, la succhio: ho di nuovo fame.

*

Per tutta la notte ti ho sentito scalciare. Verso le tre del mattino ho iniziato ad avvertire dei crampi fortissimi in fondo alla schiena, come una morsa. Ho suonato il campanello ed è arrivata un’infermiera che mi ha legato una fascia attorno alla pancia e l’ha collegata a un monitor.
«Dobbiamo farle un cesareo d’urgenza» ha detto dopo aver analizzato il tracciato.
Se n’è andata un momento ed è tornata con un’altra infermiera, e insieme mi hanno accompagnata nella sala operatoria.
Ora che sono qui sdraiata sul lettino, in attesa che tutto cominci, con il camice verde addosso, la cuffietta sulla testa e la sensazione di non avere alcun potere sul mio corpo, lotto con queste ondate di dolore che arrivano, raggiungono picchi impensabili e se ne vanno per poi ritornare. Non si tratta, però, solo dei dolori del travaglio, ma di tutti quelli che mi hanno tenuta in scacco in questo periodo e che sono stati la causa di questa mia degenza. Demoni sottopelle che si sono presi il mio corpo un pezzo alla volta, e ora lo straziano, lo sfiniscono, si accaniscono su di lui senza che io possa fare niente. Li sopporto solo perché so che presto potrò vederti. Osservo la mia pancia scendere e salire al ritmo del respiro e spero che questo dondolio ti culli, ti faccia sentire al sicuro.
Un dottore entra nella mia visuale e mi informa che stanno per addormentarmi. Poi mi posa una mascherina sul viso e il mondo intorno comincia a sfumare.

*

Al risveglio, di nuovo, non capisco dove sono. C’è luce, molta luce che filtra tra i rami di un albero. Sotto, con un po’ di sforzo, metto a fuoco una struttura di ferro oltre la quale scorgo il dottore che mi ha seguita per tutta la degenza e l’infermiera che si è occupata di me ogni giorno. Tra le braccia di lei ci sei tu, tesoro mio, e sei piccolo, perfetto, indifeso. Ancora più bello di come ti avevo immaginato.
Faccio per alzarmi ma sento una fitta all’altezza delle scapole che mi leva il respiro, e qualcosa mi si muove sulla schiena con una tale forza che presto mi ritrovo a terra. Provo a chiedere aiuto ma dalla bocca mi esce un verso acuto che mi terrorizza.
«Senti come grida!» dice soddisfatto il dottore.
L’infermiera annuisce, ti culla perché hai cominciato a piangere, svegliato dalla mia voce. Quanto vorrei farlo io, offrirti il mio seno, annusare il profumo dei tuoi capelli, accarezzare le tue guance, ma ogni volta che provo a mettermi in piedi finisco giù, schiacciata dal peso di un corpo nuovo che non sono più in grado di gestire. Perché non mi aiutano? Perché non mi permettono di prendermi cura di te?
«Shhh… non avere paura» ti dice l’infermiera cullandoti, «Questo mostro non lo rivedrai più», e mentre ti osservo sparire con lei lungo un sentiero fiancheggiato da alberi, il tuo pianto che si spegne piano piano, il dottore si avvicina, afferra da un secchio un povero ratto agonizzante e me lo getta accanto. Ha il sangue rappreso sulla piccola testa grigia, gli occhi spalancati che sembrano chiedere pietà. Appena mi vede cerca di scappare, trascinandosi sulle zampe davanti, ma riesce a percorrere sì e no mezzo metro. Anche se mi disgusta, anche se mi fa pena, non posso fare a meno di avventarmici sopra, e divorarlo.

 


Carlotta Balestrieri (1983) è autrice, sceneggiatrice e copywriter. Da 16 anni collabora con il regista e videoartista Rino Stefano Tagliafierro e dal 2013 anche con la sua società, Karmachina.
Ha curato alcune drammaturgie per deSideraTeatro. Il 5 dicembre 2023 è uscita “Alter Ego”, serie tv che ha scritto per RSI e Amka Films. Attualmente sta lavorando alla seconda stagione.


In copertina: Tras-formazione by Giulia Bocchio

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