La vita in me non ha il mio nome – La passione secondo G.H. di Clarice Lispector

Di Lorenzo Tomasoni

Nel 1873, nella fattoria della madre a Roche, l’adolescente Arthur Rimbaud scrive la sua Saison en enfer, testimonianza di un’esperienza di trasformazione interiore terribile che si concluderà con la pressoché totale rottura con la sua vita precedente, oltre che primo passo verso la drastica decisione dell’abbandono della poesia a diciannove anni. Nel vagliare diverse prospettive di vita, Rimbaud scava nella cultura occidentale e, a tratti, constata il proprio fallimento dopo aver tentato di concepire una poesia inedita che fosse in grado di intervenire direttamente sulla realtà.

Poco meno di un secolo dopo, nel 1963, viene pubblicato un libro altrettanto scandaloso intitolato La passione secondo G.H., in cui  la passione è da intendersi come dolore all’interno di un percorso progressivo, conquistato a fatica e non senza incertezze, come quello vissuto da Cristo e culminato con la croce. In una mattina assolata, dentro un appartamento a Rio de Janeiro in Brasile, una donna non meglio definita che dalle sue iniziali G.H., entra nella stanza della domestica dopo che questa ha appena lasciato definitivamente la casa. Trovandovi una blatta e provando un innato senso di repulsione, la schiaccia istintivamente con l’anta dell’armadio. Per G.H. inizia un travaglio interiore in prima persona che la porterà a una trasformazione esistenziale violenta.

Tracciando un parallelo tra Arthur Rimbaud e Clarice Lispector, ciò che entrambi portano alla luce attraverso le loro metamorfosi interiori è innanzitutto l’eccedenza dell’essere umano rispetto alla propria autoconsapevolezza. L’uomo vive come sospeso sulla realtà, ignaro di detenere la chiave che potrebbe dischiuderla. La scoperta della realtà più profonda coincide allora con l’emersione del sé più autentico.

In questo movimento, Rimbaud e Lispector varcano una soglia esistenziale nuova e rischiosa, indagando il nesso relazionale tra l’Io e il mondo. Rimbaud ne esce sconvolto, come se l’alterazione del proprio statuto umano generasse una frattura irreparabile. G.H., al contrario, sembra individuare una modalità per non soccombere alla vertigine: un varco che le consente di attraversare il pericolo senza trasformarlo in rovina.
Ma andiamo con ordine.

 

Clarice Lispector (10 dicembre 1920 – 9 dicembre 1977)

 

Definire un libro come La passione secondo G.H. a partire dalla trama è esercizio inutile.
Dopo la lettura, ogni termine finisce per essere parziale, inconsistente. Si finisce solo con il deformare malamente quello che vi si trova dentro. L’opera di Clarice Lispector chiede al lettore di entrarvi nudo, e di abbandonare ciò che sa fin dall’inizio.

Il particolare utilizzo del linguaggio, solo trasversalmente utilizzato per descrivere ciò che accade, spremuto invece di continuo ai limiti della sua visionarietà, cerca di rompere la propria forma, e di creare le condizioni per quel vuoto che è la premessa per ogni diversa e seria esperienza interiore: «l’indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio».
Gli ancoraggi tramite cui ci aggrappiamo al mondo e crediamo di possederlo, ossia le parole, entrano qui continuamente in cortocircuito dando espressione a stati interiori piuttosto che a fatti, e questo è fondamentale se è vero che, come si dice all’interno del libro, «l’arte quando è di buon livello tocca l’inespressivo». 

Si potrebbe dire che prima di questa esperienza, la protagonista G.H. sapeva bene chi era. Tutta la sua vita era stabilita da un ordine più o meno solido, più o meno comune, che è quello che a tutti noi deriva dal sapere con certezza quale sia la nostra identità apparente e superficiale. In una mattina invece, la vita di questa donna viene stravolta dalla consapevolezza bruciante che il nucleo vibrante della vita va ben oltre tutto quello che amiamo raccontarci per mantenere faticosamente coerente la nostra realtà: «Il resto era il modo in cui a poco a poco io mi ero trasformata nella persona che porta il mio nome. E ho finito con l’essere il mio nome».
La rivelazione che attraversa G.H. è che il neutro rappresenta l’essenza autentica dell’essere, e non il desiderio. Questo neutro, che spesso chiama Dio o l’Essere, coincide con una vita vera che si rivela insipida, vuota, puramente materica, e dunque inaccessibile proprio perché priva di quei contorni simbolici che normalmente la rendono tollerabile. La verità che irrompe in lei prende avvio dalla visione diretta e scandalosamente materiale di una blatta in agonia: dalla pastosità delle sue interiora che affiorano, dalla crudezza di una vita che, esposta nella sua nuda evidenza, non lascia più spazio a consolazioni interpretative.

«L’umano tende sempre a trascendere», osserva G.H. nel culmine della sua esperienza, come a dire che l’essere umano aderisce quasi meccanicamente a una catena di superamenti che lo sottraggono costantemente alla cosa che ha davanti, devitalizzando il contatto con il vuoto della realtà e schermando lo scontro frontale con una verità che, proprio perché inevitabile, assume sempre una tonalità oscena rispetto al soggetto. Questa verità è orribile, afferma G.H., perché «contraddiceva senza parole tutto ciò che io ero precedentemente abituata a pensare anche senza parole», disarticolando alla radice le abitudini percettive e concettuali che le avevano finora permesso di abitare il mondo.

La passione di G.H. avviene per gradi e approfondisce, durante la sessione con la morte lenta della blatta, numerosi aspetti di una sorta di rivelazione progressiva . A premessa del libro, infatti, Clarice Lispector pone come esprime la preferenza che il libro venga letto solo da persone già formate, in quanto «consapevoli di come la conoscenza di ogni cosa proceda per errori e per gradi». E gli errori, nel processo trasformativo di G.H., le varie contraddizioni che affronta nel corso della sua passione, sono decisivi: «Solamente quando sbaglio io esco da ciò che conosco e da ciò che capisco. Se la verità fosse quella che posso capire – finirebbe per essere appena appena una verità piccola, a mia misura. La verità deve consistere esattamente in ciò che non potrò mai comprendere».
Insieme a questa rivelazione, si accompagna la scoperta di quella che Lispector chiama «l’ora di vivere», questo «ininterrotto e lento stridere di porte che spalancandosi si aprono in continuazione» sulla vita, il momento presente, dimensione temporale decisiva in cui la verità emerge. È il momento in cui il mondo diventa sempre nuovo, e in cui risiede la nostra libertà di scegliere continuamente il significato che ogni momento assume. Ogni attimo ha il volto di Dio: «Ma senti un attimo: non sto parlando del futuro, sto parlando di un immediato permanente (…) il Dio non promette. Egli è molto più grande di tutto ciò: Egli è, e non smette mai di essere. Siamo noi che non sopportiamo questa luce sempre attuale, e perciò la rimandiamo a dopo, solamente per non sentirla oggi stesso e ora (…) L’orrore è sapere che è in vita che vediamo Dio».

Ma che cosa scopre davvero la protagonista durante questa esperienza? G.H. assiste e si lascia cadere nella rivelazione di se stessa. E questa trasformazione è feroce, terribile, perché il «neutro» parla la lingua del vuoto, richiede sottomissione e umiltà («l’umiltà è assai più di un sentimento, è la realtà vista con un minimo di buon senso»), mentre la nostra identità colorita, fatta di dolore, gioia e di speranza, di convincimenti, della presunzione di capire e di bastare a sé stessi, malgrado ci mantenga in uno stato confuso, ci sembra preferibile al gesto terribile del suo abbandono. A essere sconvolgente per G.H. è proprio la rivelazione che questo abbandono ci libera, e ci mostra che siamo molto più di ciò che crediamo di essere. 


Eppure le domande non finiscono, sono essenziali.
Chi è l’uomo?
Che cos’è la verità? Che cos’è la realtà?
Per scoprirlo G.H. deve ri-nascere, ancora una volta


Per ottenere questa consapevolezza deve morire alla propria falsa identità e nascere nuovamente, in ogni attimo, in un rinnovato stato interiore scoprendo la consistenza insapore dell’Essere. E la fonte dell’Essere è sempre disponibile, sempre presente, appunto come il momento presente è un portone «che non smette mai di aprirsi». Ciò che conta è la scelta, la decisione ad assumersi la responsabilità di nascere autenticamente umani: «E se quello è l’inferno è davvero il paradiso: la scelta è mia. Sarò io a essere demoniaca oppure angelo; se sarò demoniaca, questo è l’inferno; se sarò angelo, questo è il paradiso». Proprio nella Stagione all’inferno, in maniera simile Rimbaud aveva scritto: «Un uomo che vuole mutilarsi è dannato sul serio, non è vero? Mi credo in inferno, dunque ci sono».

Martin Heidegger definiva l’Essere come «una radura da cui tutto emerge», non un oggetto che si possa conoscere o possedere. Allo stesso modo la Verità era per lui anche la disposizione a questa apertura, a lasciarsi colmare da questa presenza, non certo una corrispondenza tra enunciati ed enti. L’Essere non si può possedere, si può solamente ricevere, e per farlo, sostiene Heidegger, l’uomo deve innanzitutto imparare ad «esistere nell’assenza di nomi (…) deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire. Solo così viene ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sua essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella verità dell’essere». Proprio come sostiene G.H, bisogna allora lasciare che il mondo si apra, e proprio ciò che sembra negare all’uomo ogni certezza, la scomparsa della sua identità, è ciò che più ne rivela la natura relazionale con l’Essere.

Questo è ciò che conta e di cui è necessario ottenere consapevolezza. Rendersi conto di questo salva sempre: «La verità è che lo stato di grazia esiste in permanenza: noi salvi lo siamo sempre. Il mondo intero è in stato di grazia». È sempre possibile dunque per noi accedere a quello stato interiore di consapevolezza che ci consente diventare autenticamente umani, ossia sempre altro da noi. «Je est un autre», diceva Rimbaud. La condizione più radicale dell’uomo è quella di essere in relazione con l’Essere, con ciò a cui appartiene ma che allo stesso tempo non gli appartiene, con ciò che lo contiene eppure lo supera. In questo processo il linguaggio può essere una trappola («Il nome è un’eccedenza e impedisce il contatto con la cosa»), così come l’afasia può diventare invece un’opportunità per superare anche il linguaggio e comunicare l’indicibile che risiede nella profonda superficie della realtà. Profonda perché serve sempre andare oltre, eppure sempre in superficie perché disponibile in ogni momento. 

«Il divino per me è il reale», sostiene infine G.H. verso la fine del suo travaglio, dopo aver compiuto l’estremo gesto di cibarsi della blatta e aver capito che anche quello, in fondo, non era altro che un gesto estremo verso la trascendenza. Per fare questo è necessario rinunciare alla pretesa di sapere cosa siamo, e mettersi in ascolto. In un altro capolavoro della maturità dal titolo Acqua viva, Lispector scrive : «Non voglio avere la limitazione terribile di chi vive soltanto di quanto può avere senso. Io no: io voglio una verità inventata».
La verità è sempre la scelta di una condizione, è sempre un evento che ci possiede e non possiamo possedere. Si può soltanto essere nella Verità, non comprenderla. 

La passione secondo G.H. ci ricorda la terribile condizione di spaesamento che viviamo quotidianamente, e allo stesso tempo ci ricorda che non è possibile evitarla, malgrado i nostri continui tentativi di dimenticarci chi siamo.

Noi abbiamo dentro di noi «il Dio», questa possibilità di aprirci alla realtà in una relazione stravolgente, e malgrado questo, facciamo di tutto per negarlo perché ci fa paura. Questa relazione è sempre presente perché ogni attimo racchiude in sè la potenzialità della Verità. Eppure le nostre domande ci allontanano da questo evento; nel nostro domandare ossessivo, proiettiamo un’ombra che ce ne preclude l’accesso. Per aprire un varco verso l’Essere bisogna saper abitare gli spazi vuoti del mondo, rinunciando alla presunzione di bastare a noi stessi nella sua comprensione: «Ora ti racconterò come sono entrata nell’inespressivo che è sempre stato la mia ricerca cieca e segreta. Come sono entrata in quello che esiste fra il numero uno e il numero due (…) Tra le due note musicali esiste una nota, tra due fatti esiste un fatto, tra due granelli di sabbia, per quanto uniti, esiste un intervallo di spazio, esiste un sentire che sta in mezzo al sentire – negli interstizi della materia primordiale passa la linea del mistero e di fuoco che è il respiro del mondo, e il respiro continuo del mondo è ciò che noi udiamo e chiamiamo silenzio». 

Scegliere la nostra autentica umanità dipende da noi, dalla nostra capacità di accoglierne le conseguenze, il senso estremo, riscoprendo cosa questo significhi davvero: «Il mistero del destino umano è che noi siamo fatali, però abbiamo la libertà di compiere o meno il nostro fatale: da noi dipende realizzare il nostro destino fatale. Mentre gli essere inumani, come la blatta, realizzano il loro ciclo completo senza mai commettere errori dal momento che non scelgono. Ma da me dipende che io passi liberamente ad essere quello che fatalmente io sono (…) essere umani deve essere il modo in cui io, cosa viva, obbedendo in libertà al percorso di quanto è vivo, io sono umana».

 

 


 

Clarice Lispector (1920-1977) è nata in Ucraina in una famiglia ebraica costretta a emigrare in Brasile quando Clarice ha solo due anni. Dopo un’infanzia passata nel Nordest del paese e la morte della madre, la famiglia si traferisce a Rio de Jaineiro dove Clarice frequenta l’università e scrive i primi racconti. A ventitré anni pubblica il suo primo romanzo, Vicino al suo cuore selvaggio(Adelphi, 2003).  Con Feltrinelli ha pubblicato Legami familiari(1986), La passione del corpo (1987), La mela nel buio (1988), L’ora della stella (1989), La passione secondo G.H. (1991), Un apprendistato o il libro dei piaceri (1992),  Le passioni e i legami (2013), che raccoglie tutti suoi più importanti romanzi, e Tutti i racconti (2019).



In copertina: Leonora Carrington, La joie de patinage (1941; olio su tela, 45,7 x 60,9 cm; Madrid, Collection Peréz Simón)

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