A cura di Annachiara Atzei
“Io non so nulla di tutto questo
lasciatemi andare
mi stanno aspettando
mi fate male
cosa devo spiegarvi? Io non…”
(Tiziano Rossi, Il brusio)
Tiziano Rossi, all’età di 90 anni, ci regala Il brusio – la raccolta poetica pubblicata per Einaudi e candidata al Premio Strega Poesia 2025 – per portarci in una realtà variegata, mescolando ricordi e aspettative per il futuro e ponendosi nella prospettiva di chi molto ha vissuto e ancora spera e prevede qualcosa di buono per il nostro esistere. Osserva il fenomeno umano, Rossi – come del resto ha sempre inteso fare la “Scuola Lombarda”, corrente letteraria alla quale è tradizionalmente appartenuto, che si discosta dall’ermetismo del primo Novecento per aprirsi alla realtà circostante, alle persone, ai luoghi e alle cose – e lo racconta con distaccato umorismo, tuttavia mai superficiale, forse anche in ragione della sua età, nella quale qualcosa può finalmente scivolare di dosso proprio per la raggiunta piena consapevolezza.
Ma cos’è il brusio al quale l’autore si riferisce? Non è altro che l’insieme delle voci che provengono dal mondo, tutte intrecciate insieme: una polifonia di diversi toni e anime che portano le più diverse istanze, da lui interpretate e riportate nel libro con intensità emotiva e rigore formale: quelle di chi è stato testimone di una guerra o di violenza (lui per primo), quelle di chi è artefice e vittima del surriscaldamento globale e del disfarsi della natura, o ancora quelle di chi è attento alla situazione politica e sociale internazionale e ne sente il peso e la preoccupazione. Ma ci sono anche voci più rasserenanti e felici, che arrivano dai piccoli, dai loro giochi, le recite a scuola, le altalene.
L’opera è divisa in quattro sezioni. Nella prima, si affronta il tema della guerra – “porcheria mondiale” – come reminiscenza infantile, come ricordo dei genitori e della premura dei parenti, di muri che si spera restino ancora in buono stato, di preghiere affinché tutto torni alla normalità. Segue una seconda parte che tratta ugualmente temi di attualità: l’ambiente o il logorarsi delle relazioni. Nella terza parte il sentimento dell’autore sembra cambiare e aprirsi alla dolcezza e alle possibilità. Infine, nell’ultima sezione, il messaggio di speranza è affidato ai bambini, con le loro potenzialità, la loro capacità di vedere il mondo con purezza e il loro germogliare, immersi in un tempo che appare senza misura.

Ma, oltre allo sguardo beneducato e ironico e alla cauta disperazione dell’autore per quanto accade e ci accade, c’è un altro aspetto che caratterizza la raccolta: l’istante, la descrizione del particolare, di un personaggio o di un luogo corrono parallelamente al lungo respiro delle reminiscenze passate e, in particolare, all’immagine del padre, che infonde nel lettore un delicato sentimento di tenerezza. E, pur se i ricordi sono imperfetti (forse, fortunatamente), resta la percezione di un uomo indifeso – “persona sola nell’andato secolo” – gentile e caloroso, che di certo una forte influenza ebbe sul poeta fin dalla giovanissima età. Torna dalle parti del cuore di Tiziano Rossi, dunque, quest’uomo mite (Vanni Rossi, “pittore scoiattolo” simbolista), con l’odore del suo sigaro. Emerge dal rumorio di fondo quasi come una figura rassicurante e il poeta appare, allo stesso tempo, figlio singhiozzante e adulto ancor più in là con gli anni del genitore nel quale sembra, dunque, riconoscersi. Scrive: “Eccomi papà, sono nell’inverno/ roba di neve e di ghiaccioli,/ il cielo buio e il poco: era/ la tua stagione preferita, ma perché?/ La gentilezza conoscevi della lana/ e forse amavi/ il disperdersi, il fuggire./ Nella tua chiesa personale genuflesso,/ anima ignota, ascoltavi/ soltanto il bisbiglio che più conta./ Certo, imperfetti sono i ricordi/ e tu, magari, non proprio così/ ma rimane il tuo calore che non scotta/ e io – finalmente – in un singhiozzo.”. C’è qualcosa, allora, che, nell’incompiutezza del ricordo, nel suo essere spesso fuori fuoco, nei suoi margini sottili, sfugge al tocco e alla occasionalità del presente e investe di sé colui che tenta, nonostante tutto, di afferrarlo. La memoria (che tracima, per la troppa esistenza), del resto – sosteneva Sant’Agostino nelle Confessioni – è una delle facoltà umane che serve al distacco, alla serena separazione: ciò che sfugge agli occhi non viene meno dentro di noi. E dentro di noi lo cerchiamo, anche se sembra perduto – quelle “amate persone sparite” – per riconoscerlo ancora una volta e trattenerlo al di là della assenza fisica.

Con la stessa sensibilità, l’autore milanese affronta anche il tema della morte. La morte è ciò che la guerra porta con sé, che lascia i corpi per strada, in attesa che qualcuno li ritrovi e li metta al riparo (allora come oggi). La morte sbadiglia, si scoccia, si dà da fare come se fosse umana. Ma è anche un luccichìo, un incontro in forma di brezza, un andare altrove nell’aria. L’altra faccia di questa medaglia, alla quale necessariamente tende il destino, è il prepararsi, porsi inevitabili domande sulla fine e sulla definitiva dimenticanza, senza tuttavia poter fare sul dopo alcuna previsione certa. Nella sua lunga e intensa esistenza, infatti, Rossi ha appreso i “ghirigori del rinviare”, ossia il complesso affaccendarsi dell’esistere e prova a raccontarli qui, insieme agli aneddoti di una intera vita: un resoconto, forse, sul senso del limite e sul moltiplicarsi, con gli anni, delle nostre fragilità.
Lo fa usando la parola poetica (dopo essersi dedicato, nel passato recente, solo alla prosa e aver pubblicato racconti brevi dissacranti e disincantati), con versi piani e gentili che corrispondono al suo modo di guardare quello che accade e chi ne è coinvolto, mai sopraffatto o perduto. Nessuna rima o assonanza, nessun lirismo o spazio all’io estremo, ma un tono colloquiale, quasi amichevole, capace di avvicinare il lettore alla pagina senza pretesa di fornire alcuna ammonizione o insegnamento calandoli dall’alto (“D’accordo, esistono i tanti/ perché dei perché/ e allora soltanto un consiglio Le dò:/ bisogna in primo luogo rispettare/ i propri limiti/ dato che il vero suo problema è come/ guarire l’anima”).
Non ci sono risposte, da parte del poeta, che si fa strumento di conoscenza nel solo senso di mettere a disposizione il proprio vissuto, le ferite subite e le gioie avute. E c’è la maturità della vita – che l’autore condivide generosamente con il lettore – l’esperienza da lui vissuta, la capacità di concentrarsi su ciò che è davvero essenziale. C’è un porto sepolto, diceva Ungaretti, nel nostro io più profondo e verso di esso ci dirigiamo. Così fa Tiziano Rossi in questo libro (come se la vita coincidesse con la poesia) dopo aver cercato di comprendere ogni giorno cosa ha spinto i suoi passi fin qui. E in fondo – facciamoci caso – non è che la sua maniera di partecipare al brusio del mondo.
Tre poesie da Il brusio (Einaudi, 2025)
Ancora nel tempo abitare?
Ma mica tintinnano spade:
vicini li senti
i cannoneggiamenti?
Cose remote la rocca, il baluardo,
la robustezza degli acciai, che già
vengono avanti vessilli sconosciuti,
e l’inadatta brigata familiare
orami va randagia
tra non eroica polvere.
Guardali i sangui e la sopraffazione
Mentre là un tale
senza più gambe si rizza e farfuglia:
‹‹Porcheria mondiale››.
*
Chi è che sgattaiola lungo il muro?
Chi sta trafficando per chiudere l’ombrello?
Chi perfino accenna ad una rumba?
In poche parole
si tratta della morte
che sbadiglia, si scoccia, poi
proprio come noi si dà da fare.
E dunque noi con la nostra
stipata valigia
andremo altrove nell’aria:
un nuovo trasloco, come tanti.
*
Emersi dall’oceano dei possibili.
Il padre spargeva per casa
L’odore del suo sigaro, e i bambini
dentro ci galleggiavano:
ah, quelle tre stanze da niente
come una buffa matassina!
e il cane Bill che tutti salutava
bravissimo in feste e saltelli…
Forme fantastiche da quella broda,
poi si va dentro nel futuro e
del seguito, in fondo, che importa?
Ma, papà, le mosche dormono?
*
Tiziano Rossi, nato a Milano nel 1935, è autore di varie raccolte di poesia: Il cominciamondo (Argalía, 1963), La talpa imperfetta (Mondadori, 1968), Dallo sdrucciolare al rialzarsi (Guanda, 1976), Quasi costellazione (Società di poesia, 1982), Miele e no (Garzanti, 1988), Il movimento dell’adagio (Garzanti, 1993), Pare che il Paradiso (Garzanti, 1998), Gente di corsa (Garzanti, 2000) – raccolte poi confluite nel volume Tutte le poesie. 1963-2000 (Garzanti, 2003). In seguito, ha pubblicato Controvento (Il Faggio, 2005), Cronaca perduta (Mondadori, 2006), Faccende laterali (Garzanti, 2009), Spigoli del sonno (Mursia, 2012), Qualcosa di strano. Raccontini (La Vita Felice, 2015), Piccola orchestra. Antifavole e diceríe (La Vita Felice, 2020), Bestie e affini (Zacinto, 2022), Gli affaccendati (Moretti & Vitali, 2024).
In copertina: Johann Heinrich Füssli, La solitudine all’alba, 1794-1796, Kunsthaus, Zurigo

