La Lamia.
Non la creatura mostruosa, divoratrice di figli, segnata dalla maledizione degli dèi. Ma una figura antica e solenne, figlia delle acque e del dio che le governa: Poseidone. Di lei narravano i versi perduti dei Corinthiaca, attribuiti a Eumelo di Corinto, poeta dell’origine e del mito. In quella narrazione remota, Lamia non era un’ombra deformata dall’orrore, ma una madre — madre della Sibilla, profetessa e voce del divino. Fu proprio la Sibilla, figlia di questa Lamia, a raccontare la contesa tra Poseidone ed Elio, lotta di giganti per il dominio del luogo sacro che sarebbe divenuto Corinto. Da quel contrasto nacque la celebrazione dei giochi istmici, festa e rito in onore del dio del mare, memoria viva di un’antica sfida cosmica.
Ma quello era il mito classico, o almeno una sua versione.
Borges ci racconta che, metà serpi e metà donne, incapaci di proferire parola, ma abili ammaliatrici, le Lamie abitavano le recondite valli africane, chiamando a loro il viaggiatore attraverso un melodioso ma funesto fischio. Progenie antichissima, figlia di uno dei tanti amori maledetti di Zeus, la Lamia giace ora dimenticata tra i rovi del tempo, in attesa del prossimo avventore.

