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Un’interiorità frattale – Pathemata O, la storia della mia bocca, Maggie Nelson

Di Annachiara Mezzanini

 

Alternando il quotidiano con l’onirico, Maggie Nelson apre al lettore un varco verso il suo dolore, un varco che non è solo confessione ma anche elaborazione e costruzione. Pathemata, come suggerisce il titolo stesso – dal greco, “ciò che si patisce” – è il diario di una ferita, una ferita che non cerca chiusura ma significato, risonanza. Le parole diventano l’unico appiglio tangibile tra ciò che il corpo può provare e ciò che lo spirito può sopportare.

In questo turbinio di esperienze, tra salite vertiginose e discese abissali nella psiche, il lettore si lascia guidare con un misto di titubanza e curiosità, entrando nel mondo interiore della scrittrice californiana. Un mondo segnato da un decennio di dolore, di perdite, di silenzi. E allora ci si domanda: alla fine di questo libro, cosa è reale? Cosa, invece, è costruito, inventato? E noi, lettori – semplici spettatori o parte integrante del rituale di condivisione?

Un punto di vista unico – siamo dentro la bocca di Nelson – permette alla lettura di naufragare in uno spazio altro dalla storia principale, scandita dalle fitte alle gengive e dagli spasmi del palato. Oltre alla muraglia dei denti, viene descritto e celebrato l’ordinario, punteggiato da relazioni, mancanze, restrizioni e visite mediche più o meno efficaci. Ciò che resta al suo interno, retrogusto metallico e al contempo dolciastro tipico delle paste ortodontiche, è il senso di spaesamento generato dal serrato scambio di battute tra ciò che è nella mente della scrittrice e ciò che lei stessa occulta e mette in scena sulla pagina.
La struttura stessa del testo riflette l’instabilità dell’esperienza: frasi brevi, isolate, talvolta lapidarie, separate da un piccolo spazio bianco. Un centimetro che diventa pausa, sospensione, cesura tra un pensiero e l’altro. Questo espediente formale richiama le pagine di un diario intimo e sincero, dove ogni annotazione è un gesto di sopravvivenza. Le riflessioni appaiono disorganiche, ma sono in realtà legate da un filo invisibile: la memoria, il desiderio, la perdita. Come in una lunga sequenza di Mi ricordo, illuminante invenzione di Joe Brainard poi ripresa da Georges Perec e Matteo B. Bianchi, anche Pathemata è un archivio della memoria personale, una cronologia emozionale disordinata ma mai casuale. Si può iniziare la lettura ovunque: dal fondo, dal centro, dall’inizio. Il risultato non cambia. È il dolore che guida gli occhi, è il sentire dell’autrice che modella lo sguardo di chi legge.

Tra una lezione a distanza e una serie tv vista con il figlio, tra una pandemia che trasforma il tempo e una diagnosi che non arriva, Maggie Nelson annota tutto. Ciò che vive, ciò che osserva, ciò che dice e – soprattutto – ciò che avrebbe voluto dire. La voce narrante si fa fragile ma incrollabile, sempre in bilico tra confidenza e reticenza, tra desiderio di mostrare e necessità di proteggere. Uno dei momenti più toccanti del libro è quello in cui l’autrice “regala” parole mai dette al padre, ormai scomparso. È una lettera intima e universale, al contempo spedita e mai recapitata, che attraversa il testo come una vena sotterranea di dolore e amore incondizionato. Il lutto, allora, non è solo un tema, ma una forma: è ciò che organizza la narrazione, la rende possibile, e la giustifica, mentre il male alla bocca è una costante, un inquilino fastidioso che si vorrebbe far allontanare, ma non si trova alcun pretesto oggettivo che possa concretamente mettere in atto lo sfratto. Il dolore è l’essenziale medium fisico attraverso cui le parole prendono forma e vengono, in seguito, assimilate. Parte dall’ossessione verso la propria bocca storta e sofferente e verso quella intatta degli altri, fino ad arrivare alla spinta generatrice che da tale tormento si crea e che conduce Maggie Nelson a sperimentare attraverso di esso.
È una contrazione della mandibola, un tedioso pungolo delle membra intorpidite dalla banalità dei giorni e dalla didattica a distanza, una lancinante stilettata alla gola, che segnala inequivocabilmente il vuoto che resta, dopo la scomparsa di qualcuno di amato.

E, allora, che il suo dolore sia condiviso, che il suo alternarsi di sogni e certezze venga pubblicato, che la lettera – al contempo spedita e indirizzata da e verso l’amatissimo padre – possa raggiungerlo, ovunque egli si trovi, e possa lenire le ferite della figlia.

 


Maggie Nelson (San Francisco, 1973) è autrice di diversi libri di poesia e prosa, tra cui Gli Argonauti (il Saggiatore, 2016), Sulla libertà (il Saggiatore, 2021) e  Bluets (nottetempo, 2023). Per il suo lavoro ha ricevuto numerosi riconoscimenti negli Stati Uniti e all’estero.

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