Di Serena Votano
C’è un prima e un dopo ogni romanzo, una traccia immortale di una storia e qualcos’altro, che fluttua nel sottotesto, comprensibile a pochi.
Il dentro è Città del Messico, la città in cui William Burroughs ha scritto Queer nel 1952. Ha da poco affidato a una casa editrice il suo romanzo d’esordio Junkie, quando si dedica in modo febbrile alla stesura di questo romanzo. Il personaggio esplicitamente omosessuale, il suo linguaggio immorale e la ribellione che si rispecchia nella forma stessa del romanzo, lo rendono ostico e a tratti impenetrabile, inizialmente proibito e ripugnante. Solo nella metà degli anni Ottanta il romanzo verrà pubblicato. William Lee, alter ego dell’autore, è un uomo di quarant’anni che appare disilluso, devastato, ma i suoi occhi verdi brillano di vita. Non desidera altro che essere guardato. Quando incontra Gene Allerton, ventun anni, è certo di aver trovato ciò di cui aveva bisogno: il pubblico ideale che assiste ai suoi “numeri”. I giocatori di scacchi, il petroliere texano, il concessionario di schiavi… si tratta di storie brutali, a volte comiche, sicuramente irresistibili. Cose che Lee non può fare a meno di raccontare, proseguendo fino alla fine, anche in mancanza di un pubblico.
Queer procede in modo confuso, drogato, per immagini o scatti. Si potrebbe dividere questo romanzo in due parti. Nella prima Lee, tossico irrisolto dal budget illimitato, lo corteggia, e Allerton si lascia sedurre ma con uno strano distacco. Ciò che Lee cerca però non è il rapporto sessuale, bensì la possibilità, la possessione. Desidera essere l’unica attenzione dei suoi occhi, nei quali riconoscere una nuova immagine di sé. Nella seconda, invece, i due intraprendono un viaggio in Sud America alla ricerca dello yage, una droga mitologica con poteri magici. «Una sorta di spedizione sociologica» in un territorio in cui la legge la fanno le armi.
È proprio il colpo di un’arma a stabilire l’inizio della scrittura, la miccia che sta fuori il romanzo e che solo in appendice l’autore rivela.
«Il libro è motivato e plasmato da un evento che non viene mai menzionato, che è anzi evitato con cura: l’uccisione accidentale di mia moglie Joan con un colpo di pistola, avvenuta nel settembre del 1951» e poi aggiunge: «Sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che senza la morte di Joan non sarei mai diventato uno scrittore…». Si tratta di due rivelazioni che arrivano al lettore (nell’Introduzione del 1985, nella traduzione italiana in Appendice), come un ennesimo colpo inaspettato, amaro, e che pone il romanzo in una luce abbagliante.
Joan Vollmer è una grande poetessa della Beat Generation. Se in quegli anni gli eccessi di droghe e alcol erano perdonati, ma solo a patto che fossero uomini, alle donne beat stava stretto il ruolo che la società aveva loro imposto e che per ogni donna prevedeva il rigido schema di moglie e madre. Quando lei e William si conoscono, si trascinano a vicenda in una spirale autodistruttiva che non esclude alcun eccesso: droga, alcol, fughe. Fu un matrimonio movimentato da internamenti in manicomio (a causa di episodi psicotici provocati dalle anfetamine), problemi legali, dipendenze, senza escludere l’interesse di Burroughs per i ragazzi, fino appunto alla tragedia.

Informandomi su Internet ho notato che non esiste una versione univoca, ma le versioni che si
ripetono son sempre le stesse. La tragedia esplode sotto gli occhi di due cari amici, nell’appartamento dove la famiglia risiede nel quartiere Roma, in Messico. Burroughs e Vollmer, entrambi ubriachi e drogati, decidono di sfidare la sorte, allestendo una messinscena ispirata al Guglielmo Tell. Joan si posiziona con la schiena contro il muro e con estrema fiducia pone sul suo capo non una mela, bensì un bicchiere mezzo pieno. C’è chi dice che William era convinto della sua abilità nel mirare con la pistola, quindi, senza pensarci troppo, spara. Oppure un amico – Eddie Woods – cerca di ostacolarlo ma Burroughs, accidentalmente, colpisce sua moglie alla tempia. Joan Vollmer muore. Lo scrittore finisce in carcere, ma cambia strategicamente il suo racconto, dicendo che stava solo cercando di vendere l’arma e che il colpo era partito per sbaglio.
Fatto sta che fu la sua famiglia – la benestante famiglia Borroughs, produttrice di calcolatrici
meccaniche – a pagare la cauzione. Egli viene scagionato e diventa uno scrittore.
Sempre in Appendice l’autore scrive: «Junky l’ho scritto io, ma in Queer ho la sensazione di essere stato scritto».
Solo quando Burroughs firma un contratto con la Viking-Penguin da duecentomila dollari per sette libri, acconsente finalmente alla pubblicazione di Queer, dove Burroughs fa della dipendenza il suo territorio di scrittura.
È un romanzo che si ribella all’idea stessa del romanzo: rinuncia alla trama lineare, rinuncia alla lingua, corrode le tecniche di narrazione dall’interno, catturando l’essenza di una generazione che influenzerà le successive. Nelle sue sfumature è sempre coerente con il significato del titolo inteso come sostantivo (sinonimo di omosessuale, usato in senso dispregiativo o con fierezza), come aggettivo (strano, fasullo, dubbio) e come verbo (contrariare, snervare, mandare all’aria).
Queer è un testo allucinatorio, disorientante, talmente ibrido che è difficile capire come reagire – se con una risata o con dolore–. E quando pensi di essere riuscito ad afferrare il punto, la storia ti sfugge. Non si fa prendere, ma ci sei dentro. In trappola e totalmente prosciugato.
In copertina: William S. Burroughs

