Ogni lettera è un personaggio, con una volontà precisa, desideri e paure, deliri e ossessioni. Come ogni personaggio anche le lettere hanno una loro storia personale, un passato con cui fare i conti e un futuro a cui sono inevitabilmente destinate.
Oggi arriva H.
Una rubrica di Francesco Marangi
Hanno già parlato di me. Un ragazzo un giorno mi si è avvicinato e mi ha detto che ero bellissima, mi ha chiesto se poteva chiamarmi Hortense. Io gli ho detto perché no. Aveva il viso di un piccolo angelo. Un angelo con la bocca di una bestia sanguinaria. Ha chiesto se poteva toccarmi il seno e io non ho detto niente ma ho sorriso e allora lui mi ha toccato il seno. Sei un bambino, gli ho detto. E lui mi ha chiesto se poteva baciarmi, e mi ha baciato, anche se io ho tenuto le labbra chiuse. Poi mi ha passato una mano in mezzo alle cosce, mi ha accarezzato la fica, ero bagnata: il piccolo angelo aveva tutta l’intenzione di scoparmi lì sul posto. Non so di preciso dove fossimo, era una dimensione particolare, tutta onirica, la dimensione dei sogni e degli incubi, qualcosa come una specie di casa, ma con muri nebbiosi e soffitti eterni, solari, tegole di luce: tributo degli astri.
Hortense, mi ha detto, ma da quale pubblicità di profumi o saponi sei uscita? E io allora ho riso. Piccolo angelo impertinente. Sapeva come far ridere una donna. Mi sono appoggiata alle sue spalle e gli ho detto: caro, io non sono uscita da nessuna pubblicità. Lui mi ha baciata ancora. Hortense ti voglio scrivere una poesia, una grande poesia. Non grande in senso spaziale, ma grande in senso temporale. Scrivila, gli ho detto. Sai, ha risposto, oggi se scrivi una poesia a una donna è capace che ti becchi una denuncia per diffamazione, non sono tempi romantici Hortense, la gente vuole solo accoppiarsi, girare filmini pornografici, guadagnare qualche soldo vendendo foto di piedi. Ma tu sei diversa. Diversa in cosa? gli ho chiesto. Be’ tu sei già poesia Hortense, sei già stata scritta, sei già posata su un foglio, in parole che non ti è dato ricordare. Ti basti sapere che io ti conosco da tanto, ti ho già letta, su un libro dalla copertina nera.
Una buona edizione: rilegatura di pregio, testo originale a fronte. Arrivi da un luogo dove non c’è morte e non c’è dolore. Assomigli vagamente a mia madre.
Gli ho detto che era pazzo. Poi mi ha chiesto di spogliarmi e mi sono spogliata. Mi ha detto: adesso toccati come ti tocchi quando sei sola. Il mondo non esiste, voglio vederti concentrata sul piacere. Godi, stesa per lungo sull’universo intero. Allora ho iniziato a massaggiarmi la clitoride. Lui ha tirato fuori un piccolo quaderno giallo, mi guardava come fossi tutto ciò di cui aveva bisogno. Mi sono sputata sulla mano, mi sono infilata un dito dentro. Il piccolo angelo scriveva, sempre più veloce, scriveva e scriveva, con quella bocca sanguinaria, da volatile abituato a inalare tempeste: avrebbe potuto dilaniarmi. Lo vedevo, il piccolo angelo affamato, scriveva seguendo il ritmo accelerato del mio respiro. Quando sono venuta lui ha smesso per un secondo di scrivere, mi si è avvicinato, mentre le cosce mi tremavano. Mi stava girando attorno e ho notato che sulla schiena aveva due brutte ali, grigiastre e spelacchiate, che cercava visibilmente di nascondere. Mentre mi vestivo si è rimesso a scrivere, sono andata verso di lui, ho provato a fargli una carezza ma lui si è scostato. Finito, ha detto poi. Ora devo andare Hortense. Ma io non volevo che se ne andasse. Gli ho detto che se voleva poteva rimanere a fare colazione, avevo dei biscotti, del latte, potevamo fare un caffè. Devo andare Hortense, ha ripetuto. Sembrava molto stanco adesso. Aveva richiuso il quaderno e se l’era infilato nella tasca del cappotto. Ci siamo salutati. Lui ha aperto la finestra, l’aria era gelida, si è buttato di sotto. Di sicuro aveva imparato a volare da poco: quando l’ho guardato allontanarsi fra le nuvole, le ali minuscole, il suo volo incerto, più che un angelo sembrava un uccello senza speranza, trascinato lontano da venti sconosciuti.

