Di Annachiara Atzei
“Se mai le cose potessero parlare –
ma se parlassero, potrebbero anche mentire.
Soprattutto quelle ordinarie e poco apprezzate,
per attirare finalmente l’attenzione.
Mi spaventa l’idea
di cosa mi direbbe il tuo bottone caduto,
e a te la mia chiave di casa,
vecchia mitomane.”
(Wisława Szymborska, Racconto antico)
L’oltre è già qui. L’universale sta nel particolare. Nella poesia di Wisława Szymborska tutto è ricompreso nella realtà e il senso del presente e di ciò che custodisce o promette è colto in ogni sua sfaccettatura, in ogni oggetto anche apparentemente insignificante, in ogni elemento dello spazio, in ogni azione umana. È questo il suo modo di entrare in contatto con il mondo. Un mondo spaventoso, indifferente e stupefacente allo stesso tempo, che offre sempre occasione di essere indagato, penetrato e riscoperto.
Succede anche in Racconto antico, appena pubblicato da Adelphi, che mette insieme i testi inediti della poeta polacca “sfuggiti al cestino della carta straccia” e qui accorpati proprio come testimonianza di una scrittura che fino ad oggi ha stazionato in un limbo: né rientranti nel canone della sua produzione, né destinati all’inesistenza. Si tratta, infatti – come precisa Andrea Ceccherelli, che cura il volume – di poesie pubblicate in riviste o periodici e poi abbandonate, oppure messe da parte ancor prima di essere date alle stampe, ma comunque non scartate definitivamente dall’autrice, che, intransigente prima di tutto con sé stessa, non faceva certo fatica a distaccarsi da ciò che usciva dalla sua penna.

Nel libro sono presenti componimenti diversi tra loro: ci sono le “favole sulla vita delle cose inanimate” – prose in cui libri, armadi, stufe e tavolini, incarnando temi universali, agiscono come fossero umani e, ad essi, danno moniti e regole per un vivere secondo moralità; le poesie che contengono i lamenti degli oggetti, come questi: “si lagnavano i mari / e con loro anche i monti: / ‹‹i tempi sono amari / la sorte non fa sconti››”; i versi sui migranti siriani in Europa, che toccano il concetto di spaesamento linguistico e potrebbero far pensare anche al suo scampato esilio (Szymborska subì il trauma della guerra e miracolosamente non fu deportata); o ancora poesie sulla ragione dello scrivere e dell’essere poeta, appellativo talvolta difficile da pronunciare “senza resistenze interiori” – così affermava quando le fu conferito il Premio Nobel, nel 1996, aggiungendo che il poeta deve rimanere in attesa di sé stesso, in una necessaria condizione di silenzio. Ci sono, infine, le poesie politiche, scritte in periodi drammatici, in cui il controllo del regime era pressante, o appuntati nel suo taccuino quando – con lucidità e senso critico – l’autrice tentò di distaccarsi dalla ideologia comunista che aveva condiviso in gioventù: queste ultime, in particolare, sono prova di come la sua opera non sia mai avulsa dal contesto ma, anzi, rimanga ancorata alla attualità.
Tutti quanti i testi contribuiscono a formare una metafisica delle piccole cose, snobbate e non viste eppure indispensabili nel quotidiano così come necessarie per costruire il senso di appartenenza e della memoria: “Al tempo interessano i corpi siderali, / delle cose più piccole non si dà cura”, scrive quasi malinconicamente. Attraverso gli oggetti richiamati nelle poesie, che da sempre connotano il suo discorso letterario e sembrano quasi in suo potere (la sua casa ne era colma: li collezionava, soprattutto tra i più strani e kitsch), ci viene offerta una visione disincantata e talvolta spietata della vita che si nasconde appena nella rima, nella leggerezza, nell’ironia e nell’autoironia. Si avverte, allora – neppure troppo sottotraccia – che il tempo riguarda soprattutto l’ordinario e deve essere vissuto con intensità, momento per momento, nella consapevolezza della sua inesorabilità. Non è altro che la teoria del “qui e ora”, rielaborata per affrontare una vita, per lei, spesso difficile (penso all’occupazione nazista della Polonia, alla morte prematura del compagno Kornel Filipowicz, alla censura per motivi ideologici): una umanissima strategia di difesa o, forse, una convinta presa di coscienza: l’irripetibilità degli avvenimenti, anche minimi, ne aumenta il valore e ne amplifica il significato. È così che dall’osservazione dei dettagli si passa alla rinnovata meraviglia per ciascun giorno e il suo passare.
Ma come ci è riuscita? Nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel (contenuto in Vista con granello di sabbia, Adelphi), Szymborska affermava che l’ispirazione nasce da un incessante “non so”, cioè da un perenne dubbio. La scrittura dà risposte solo provvisorie, tali da indurre un poeta che così possa definirsi a spingersi più in là, ancora e ancora, nella sua produzione: un insieme di indizi della sua insoddisfazione personale, direbbero, probabilmente, i critici. Liberarsi dalla noia, anche con giocosità, continuare a porsi quesiti e a coltivare la curiosità diventa, per questa artista, la miccia di una scrittura mai scontata, che raggiunge apici di accecante luminosità, che in Italia abbiamo imparato a conoscere soprattutto grazie alla raccolta di tutte le sue poesie, La gioia di scrivere, sempre pubblicata per Adelphi. Così facendo, manifesta un senso di responsabilità nello scrivere che non è mai un fermarsi alle apparenze, ma è più sostare in ciò che è tangibile, ossia un sapiente equilibrio di verità e visione, di narrazione e immaginazione, raggiunto dando il giusto peso alla parola: “Le poesie della Szymborska nascono in genere da un’idea, da una frase, da un impulso cognitivo ed espressivo che si focalizza su un tema e ne cerca una formulazione adeguata”, dice nella postfazione Ceccherelli per spiegare una delle tecniche di costruzione dei suoi versi. È come se il lettore entrasse nella “bottega” dell’autrice, che, nel suo lavoro, ritorna ciclicamente sugli stessi argomenti, li riusa e li rielabora. Capita anche nei testi di Racconto antico, che, nel loro variegato dispiegarsi, sono accomunati non soltanto da una stessa tecnica compositiva ma ancor più da una medesima idea di scrittura e del mondo e riaffrontano materie per lei usuali. Non a caso, cuore pulsante della silloge è la poesia e il suo farsi. Tutto ciò che la parola nomina viene ad esistenza, e bene è espresso questo pensiero proprio nel testo che dà il titolo alla raccolta:
“L’autore dà a ciascuno secondo il suo cuore: / a chi piange, la pioggia oltre il vetro, / a chi sorride, un piccolo raggio, / i vili tramano in mezzo alla bufera”. Perché? Forse si tratta di una dichiarazione di intenti? La poesia che parla di poesia corrisponde al concetto di dire come origine: lo vediamo in questi versi come anche in altri che si trovano qui, quali Critica alla poesia, La dialettica e l’arte o Alla memoria di Fr. Halas. È così che la poesia si dà un nome, motiva la sua presenza e giustifica sé stessa (quella di Wisława Szymborska, come detto, si costruisce, decostruisce e ricostruisce di volta in volta intorno a immagini e intuizioni amate) chiarendo, allo stesso tempo, l’identità letteraria di ciò che è scritto e di chi scrive. In questo corrispondere della cosa e di ciò che la dice, in questa sorta di rifondazione del poetico, non vi è solo la mera descrizione di quanto sta intorno ma si coniugano fatto linguistico e azione. Per questo, il libro è destinato non solo a chi già la conosce e la apprezza, ma anche al lettore scettico e distratto, o a chi non sa cosa farsene della scrittura in versi perché la ritiene incomprensibile o inattuale.
A partire da questo concetto primo, l’esistente e l’oltremondo si intrecciano in un unico mistero, per poi aprirsi a domande che riguardano non solo l’oggi ma anche il prima e il dopo quell’‹‹intervallo nell’infinito›› che siamo, appunto, noi. All’interno di questo enigma irrisolto – prezioso spunto di riflessione individuale – i versi acquistano, se possibile, maggior senso: “L’albero oltre i suoi limiti caparbio si protende / e con tutti i suoi rami dà la scalata al cielo, / si attacca ad ogni vento, ad ogni uccello in volo, / invano proiettato in ciò che lo trascende. / E il poeta che dice? Non parla, è imbarazzato. / Nell’aggrapparsi all’aria non è suo il primato”. La poesia aderisce perfettamente alla realtà, la disseziona, la conta per viverla appieno, eppure permangono i “perché”: l’esigenza di tendere verso un altrove incognito. Questo tentativo è destinato – forse – a fallire e il desiderio di nuova conoscenza all’insoddidfazione, se non in ciò che si verifica nella contemporaneità. Rimane, allora e nonostante i fatti avversi, lo stare al mondo e coglierne il tutto. Ecco perché l’oltre è già qui.

