Era naturale che gli altri, viaggiando con me, pensassero – e infatti lo pensano – che ogni volta ci muovessimo con una combinazione di mezzi diversi: pulmini, automobili, traghetti (ma non aerei), pullman, treni… vere e proprie macchine di oggettivazione dello spazio.
Sì, c’erano tragitti e durate, rotte e strade, poi teatri e città diverse, diversi proprietari e diversi pernottamenti, tra ostelli o centri di accoglienza adibiti a stanze per la compagnia. Ma nel venire
meno, ogni volta, pezzo a pezzo, strato per strato, io riconoscevo quanto fosse immediato l’approdo, sparendo. Se c’erano state, camminando dietro le quinte, delle ragioni o funzioni originarie nella progettazione, queste erano state smantellate da nuove folies, pezzi di diagrammi para-architettonici posticci, le arcate si confondono in percorsi girovaganti senza meta. Le notazioni che erano solo notazioni di teoria nel progetto iniziale sono effettivamente notazioni costruite: ci sono angoli ciechi, spazi vuoti che si aprono su altri spazi vuoti, come piccoli templi di contemplazione suprematista, monasteri che sorgono nel nulla, camminando tra una quinta e il bar esterno del Teatro.
Ma ancora, più che tra gli spazi esterni, questi salti avvenivano di certo tra un teatro e un altro. I sotterranei del Verdi di Sassari, dove ci sono i camerini scavati nella roccia, in cui adesso vado camminando, continuano le passeggiate da sonnambulo nel Marrucino di Chieti, lungo i corridoi circolari dietro gli spalti, che servono per accedere ai loggioni cremisi, iniettati di sangue e oro ottocenteschi. E il sangue corre anche sulla superficie ruvida delle pareti, scalfita da decenni di testate e pugni decisi a rompere il velo, ad andare oltre la cortina di raso che protegge Violetta, ripetuta mille volte dagli specchi dietro di lei, che la moltiplicano insieme ad altri drappi rossi e cortei ammassati, corpi spiaccicati contro la riflessione, corpi che sono come pezzi di cose, l’uno rattoppato insieme ai pezzi dell’altro.
“MI SENTITE?” dico io. Grido anzi, dal bordo della graticcia, appeso a penzoloni, o più giù, dalla botola accartocciata, ridotto sulla schiuma del mare di luce, ma appannato da più di mezzo secolo di archivio e setaccio e di fango, di strade piene di fango giù a Pietralata, sull’Appia, in cui più volte finivo per addormentarmi quando giravo come un pazzo La Notte.
La notte, infatti. Mi accusano per quella. È per questo che li sento congelarsi? Non è solo quello, lo sai. Tu sei il primo ad accusarli. Sono sotto il tuo giudizio costante. Anche con i tuoi compagni, quelli che salgono con te sui mezzi, con cui siedi per centinaia, anche più di mille, chilometri, senza dire una parola.
No, non mi sentono, in ogni caso, ma non c’è quasi niente da sentire, giusto un sussurro che Lui mi suggerisce o mi ammonisce, mi scongiura di non tradire, nel dirlo. Ma io non dico niente, giuro. Anzi, il livello dell’acqua è salito, è per questo. Bisogna risparmiare il fiato. Non ho la voce troppo bassa, però, ho la voce troppo a lato.
Sì, sono sicuro pensino che ci siamo spostati con la nave. Diranno così, da qui in avanti. Cioè, in realtà il fatto è che non lo pensano, non pensano al fatto che ci stiamo spostando su una nave, con più livelli, quelli sotterranei e i corridoi col tappeto rosso, di velluto rosso, le tende di velluto rosso, le tende tra un sipario e l’altro della hall o per la piccionaia o per le prime tre sale prima della porta tagliafuoco. Legno, acciaio, gesso e vermiculite. E poi alluminio o gomma dei sotterranei per le uscite, dopo le quinte, e della sala macchine. Sotto i sistemi di drenaggio e sigillatura. Ci sono più livelli. Più in alto ci sono logge che non ho visto, ma gli inquilini usano passare di qui e confondersi con i passeggiatori. Silicato, alluminio, giallo dorato e prosaico che dà sul marrone, giallo pazzo di zolfo. E dove cresce un orticello a frutteto è un miracolo sublime. Una Colchide lunare, brulla e a zolle scure. E una dietro l’altra, i pezzi delle notazioni e i diagrammi a brandelli lasciati in fase di progetto, scale e ripiani di passaggio che si ripetono, staccano in sale circolari con nicchie votive senza oggetti e poi si ripetono ancora, anche per i soffitti riflettenti, per il linoleum antiscivolo alla base.
Comunque, non mi sentono. Per questo. Percepiscono l’assenza e non sanno che nomi contiene. Questo li inquieta senza che possano individuarne la causa e perciò la respingono. Ma è normale che la risposta sia di repulsione, perché non è l’assenza ad essere minacciosa, ma il fatto che corrisponde a pori. Uscite, aperture. Cavità. Quindi a uova e alle larve che scavano per bucare la terra.
C’è effettivamente un buco, ma non sono Io. Ci sono buche, ovunque. Alcune cavano la scena direttamente da dentro. È pieno di spifferi. Perciò mi dicono che c’è poca emozione, avvertono una linea piatta, ma non avvertono che la linea piatta si estende nel denominatore batterico, perciò secondo flussi e sviluppi di velocità diverse.
Più andiamo verso il gorgo, più si riammucchiano; sotto si liberano senza controllo le attività vermicolate, i nematodi e le oscillazioni.
Per sentirsi solidi, più che umani. Perché vicino alle entrate ci sono buchi e i flussi si ingrossano
e scavano. È da lì, non da me che arrivano. È vero che entrando lascio passare un buco, ma questo buco non sono io, o meglio, non direttamente, ma relativamente. Sono un buco relativamente a lui, che non c’è, che anzi non c’è moltiplicato per diverse volte, non c’è come stacco o pezzo, pezzo tolto, passaggio di un buco, oleo-rudere. Pezzi tolti come quelli tra boccascena da una parte e la graticcia che sborda il fondale sfilacciato.
Tutti vedono solo un lembo o un bordo che manca. Non sentono il tremito, neanche quando arriva. Anche io, che mi chiedo se mi sentano, ma sono io che non vedo, non ho visto niente.
Tutte le volte che ho fatto i brevi passi, fino alla fine, non ho visto. Solo a quel punto, quando la polvere rosa mi si appiccica alle dita e brilla, e si impasta con la sua pazienza azzurra listata d’argento, schiuma di mare al sole, lo vedo che il colore s’intorbida e si addensa, come fango, direi all’inizio, ma più torbido e scuro, più limaccioso, più brillante, forse, come olio.
E ogni volta quando ho la polvere brillante in mano, sono le luci probabilmente a sbiadire i contorni dei visi pallidi del pubblico buio, ma non questa volta. Si direbbe che gocciolino, le figure, e i loro occhi sono più brillanti, luccicano nella penombra della sala.
E vibrano, come se le poltrone avessero un meccanismo interno. Ma così sono anche i tendaggi del sipario, tremolanti, e i mantegni, con le varie corde che ballano sempre più forte. Vedo gli altri, fuori dalle quinte, tenersi e il grande specchio con cornici dorate, dietro di me, aprirsi a poco a poco al centro. Per lo specchio usano in realtà un tessuto in alluminio, che sfoca e sbiadisce le figure che vi si riflettono. Quando mi giro, la superficie mi restituisce invece una figura completamente nera, così come sono nere le figure tremule in platea. Nere e gocciolanti, umide, si direbbe.
“In mesu a sas ruinas”, li sento sussurrare insieme, ma non da dietro, da lì, al centro del buco, che sembra più un condotto che lentamente si allarga, mentre le figure che prima vedevo come riflettersi sono invece in cammino, stanno immerse in un lago completamente nero e brillante, in circolo, con una figura vestita di bianco al centro che riceve l’acqua oscurata di quella grande pozza, come una benedizione. “A fini su profundu”, dice lei. “E ingennuu istentu de torrare a fai sa vida”, le rispondono in coro. “E ingennuu istentu de torrare a fai sa vida”, ripete lei, salmodiando.
Infilai la mano nella vaschetta grondante e lo schermo scuro si increspò, come una densa acqua, e i cerimonianti immersi oscillarono nella massa gorgogliante, allungandosi in tutte le direzioni e lampeggiando di bagliori bianchi la distesa, che strabordava dal guscio. E lo schermo-condotto era la cosa più luminosa, l’unica in tutta la vasta sala. Ma era, allo stesso tempo, la più buia e nera. Saras, Sir, Rumianca, pensai, affondando la mano nel solco, che si sollevò, schizzandomi pezzi del mantello in residui di miscela viscosa. E più la infilavo dentro, più sentivo le voci, sotto, risalire dalle viscere del letto. E per un attimo fluttuai nella bolla verminosa di quell’olio brillante e profondo, mentre dall’altra parte mi pareva sprofondasse. Gridavano, vedendomi arrivare.
SU BREBU DE S’OE NÌGRU! E diverse mani mi tiravano nel flusso, mi invitavano a cadere nella pozza. Era una notte gocciolante, sembrava sempre sul punto di colare, mentre gli occhi fiammeggiavano, come per reagire all’estrazione del greggio. Mi passò la lingua contro la fronte e mi sembrò che al suo tocco si colorasse, come qualcosa di trasparente che con il colore si fa visibile.
Dalle sopracciglia, quella cosa mi grondava sugli occhi, scurendomi la vista. Ero come loro. Petrolio.
“Est cun nois su pitzinnu torradu dae sa terra”, disse uno di loro e tutti gli altri facevano schiamazzi, saltavano e giocavano, immergendosi in quel liquido turbolento.
“Torra a sa luz’e su mari”, diceva la ragazza al centro “e faghede s’inghìllere”, gridarono, concludendo gli altri. Nuotammo per molto. Nei cunicoli marini e nelle correnti, vedevo in lontananza i pinnacoli sommersi della Saras e l’isola sprofondata di Sarroch.
L’oleodotto era un cordone ombelicale che si tuffava nel fango e riusciva nello specchio.
Torra a sa luz’e su marie faghede s’inghìllere, mi disse ancora.
Gli altri, nella hall, che ci avrebbero portato negli alloggi di Borutta, erano schierati in una massa scura in uno dei divani, mi guardavano fissamente, per qualche motivo. Le nostre camere sono in un monastero associato a San Pietro di Sorres, in accordo con una convenzione per la compagnia. Juanne, che ci accompagna al villaggio, è uno dei monaci benedettini della comunità. Non sembra sapere la nostra lingua o forse non ha desiderio di parlare con noi, in principio. Però più volte mi osserva, durante il tragitto.
Nel corso dei giorni, in cui ci prestiamo ad alcuni lavori di smaltimento in una ex centrale petrolchimica della Sir, ho più volte visto gli altri della compagnia, tornati in monastero, riunirsi a tarda sera, al lume di candela, in uno dei chiostri del monastero, insieme a Juanne e altri quattro incappucciati.
Si preparano, i monaci e gli altri duecento abitanti, per la festa religiosa di San Pietro di Sorres. E gli altri sembrano partecipare con loro. Li vedo svolgere varie funzioni e aiutare negli allestimenti. Diverse volte mi additano per la mia mancanza di spirito di coesione, ma io rispondo ogni volta che nessuno mi ha chiesto mai niente, né so che cosa stiano loro stessi organizzando.
Poi capisco. Lo sanno, loro di Borutta. Loro vedono il buco. Il giorno della festa una lunga processione prende corpo dal centro del paese e passando per i campi arriva su fino alla Grotta sa Rocca Ulari, che sta proprio sotto il monastero. In gruppi di tre, tutti in vesti molto scure, di cui uno con una lucida veste completamente nera, l’altro tiene una lanterna ad olio, che sembra, gocciando colare sulla veste, e l’ultimo tiene una brocca, da cui cola un liquido viscoso che imbratta il primo, che sembra quasi abbeverarsene. Torra a sa luz’e su marie faghede s’inghìllere! Gridano insieme.
I miei compagni fanno lo stesso, tranne uno di loro che è rimasto vicino a me per tutto il tempo. Senti, vieni con me, mi dicono che devi essere tu ad accendere il cero per l’oè nigro dentro la grotta. E perché dovrei essere io, chiedo lui. Sei tu, mi dice, il bambino che torna alla terra, secondo loro.
A quel punto, mi giro per andare via, ma mi sono tutti intorno a centinaia. Non ho vie di fuga, da nessuna parte. Mi fanno spogliare, con la forza. Poi prendono a frustarmi, perché dicono che per il lavacro dell’oè nigro, la pelle deve essere aperta. Devono essere aperti i pori. Mi friggono. Dalle lanterne a olio gronda incandescente sulla pelle martoriata, il fuoco mi apre dei solchi scuri e profondi.
E poi la sento, all’interno, la massa d’ombra è densa, come fosse addormentata con le sue infinite braccia nel fondo pre-nuragico della storia, il gigante petrolchimico che sta dentro il cuore di quest’isola. Comincia a masticarmi, lentamente, con le sue molte fauci, man mano che mi addentro, trascinato dai fanatici gocciolanti. La fine della grotta è un inghiottitoio, una stretta buca in cui mi infilano per intero. La grotta mi mangia, letteralmente. E il liquido viscoso riempie l’imboccatura, mentre le lanterne pietrificano l’uscita incollandola alla mia pelle sgusciata.
Vedevano che ero il buco, per questo sapevano che dovevo essere io a riempirlo. I leviatani fanno il resto, mi addentano e pezzo a pezzo mi portano sul fondo del relitto, come l’oro di un drago, come il pezzo di idrocarburo tolto e rimesso.
Quando mi affacciai, risalendo fino a una finestrella alta della grotta allagata, vedevo il pubblico galleggiare, con gli occhi illuminati in scie che salivano a una decina di centimetri dalla loro testa, le mani incollate ai tessuti dei braccioli, le narici aperte per iperventilare, le guance gonfiate, piene di lividi e i colli stretti in morse. Quando bussai, sussurrando le ultime parole per lei, guardando il suo velo stirato, capendo che fosse più lontana di me, più lontana del deserto e del silenzio di sale, più giù e più a fondo, e nell’orcio delle voraghe del mare, affondava la sua voce, nei bisbigli delle valve, quando bussai e non dissi le parole, il greggio cominciò a scoppiare fuori, come il flusso liberato improvvisamente da un barile a cui viene tolto bruscamente il tappo, come una diga incrinata. Dalle prime crepe la bile del mondo salta come un fiotto di sangue della ferita che si è inflitta alla sua pelle.
E non si rigenererà, così come il buco che sta dietro di me, e il buco che stava dietro di lui. Ognuno di questi grandi fori occultati non si è ma richiuso, ma si riapre ogni volta, e tende ad allargarsi, creando altri buchi e fratture. Finché la superficie completamente bucherellata sprofonda per sempre, tirandosi via anche tutto il resto.
Come qui e come per me. Poi i lettucci uno sopra l’altro, le coperte lasciate sui poveri morti e l’evidenza di un segno che sta per una cosa assente, un assente che lascia il posto a un altro assente. Un buco che poi si aprì e che videro soltanto alla fine, quando l’emersione tirò giù anche il resto, insieme a tutte le file di occhi salite in un rigolo luminoso a molti chilometri dalle loro teste.
Torra a sa luz’e su marie faghede s’inghìllere.
In copertina: A. von Menzel, Teatro del Ginnasio, 1856

