Il nostro #dicembrenarrativo prosegue con questo racconto di Lorenzo Tarozzi. Ci troviamo di fronte alla fine del genere umano, lo testimonia l’unico sopravvissuto che, però, non è l’unico essere vivente in circolo. Nessuna contemplazione romantica della rovina, nessuna volontà di reinventare il corso degli eventi: è andata semplicemente così, l’estinzione consapevole come unica rivoluzione possibile.
Riuscita.
Il Concetto
Non ho risposte da settimane, le batterie sono scariche, il silenzio totale: posso presumere di essere l’ultimo.
Ancora pochi nodi di ligustro – una vecchia siepe contorta, l’estrema fonte di combustibile che le mie ginocchia potessero permettersi di raggiungere – e la stufa sarà spenta. Non ricordo quando ho trovato la razione finale, ancora incartata, nel cassetto – il breve senso di sollievo mi aveva fatto arrossire – ma ormai lo stomaco ha smesso di farmi male. Il gentile bussare al vetro della finestra mi ricorda che devo affrettarmi. Sento arrivare una debolezza dolce, e su di essa vorrei planare, e arrendermi.
Lascio queste poche righe, in una lingua di cui ignoro il nome, come testimonianza superflua del nostro successo.
Con la mia coscienza si addormenta l’ultimo frammento di una specie – recito le parole del fondatore, scritte nel lontano 1991 – l’unica «abbastanza evoluta da estinguersi consapevolmente per il bene di tutta la Vita». Nessuno leggerà queste parole, e però è rimasto un velo di quell’ostinato bisogno di dire, di comunicare. Così, nella stanza che si raffredda, in questa villa dove dalla volta affrescata occhi e dita di intonaco cadono senza rumore sul tavolo, mi consento un atto di egoismo; mi rassicura pensare che la grafite con cui oscuro tratti sottili della pagina bianca, orlata di frutta e pupazzi, creata per la generazione che abbiamo trattenuto nel nostro ventre, sarà presto dissipata, carbonio nel carbonio, senza inquinare altro che pochi centimetri quadrati del Regno che abbiamo restituito alla Natura.
Il movimento per l’estinzione volontaria, ignorato dai più, travolto dalle critiche, negletto, deriso, languì per decenni sul terreno malsano e fatale del ventunesimo secolo. Resi indolenti dal reciproco temerci e odiarci, eccitati dalla noia, esasperati dalla Tecnica, noi umani avremmo potuto allungare la lista dei nostri crimini – cancellare da un istante all’altro interi continenti, sopprimendo assieme alla Civiltà (una parola che non dovrei usare, proibita da molto tempo) i codici genetici di miliardi di specie.
Quando la speranza di poterci annientare nel modo corretto (con delicatezza, con prudenza) sembrava perduta, il movimento riprese forza. Si rialzò, attirò l’attenzione, il consenso si allargò; infine, quasi per miracolo, irreversibile come un contagio il Concetto prevalse.
Dovevamo farci da parte; l’idea si accese ovunque, allo stesso tempo, luce di un nuovo sole: farsi da parte, lasciare spazio. Fu la risposta a tante angosce, l’antidoto alla brutale mania di proliferare e persistere che ci aveva posseduti per millenni; un senso di calma e di pace si diffuse. Alla consapevolezza si unì la necessità, quindi la volontà. Si cominciò a desiderare di non esserci, a bramare l’Assenza. E il desiderio umano più impensabile, la somma e dunque la fine di tutti gli altri desideri, vinse sugli istinti ancestrali. Preparammo la nostra uscita di scena.
L’Occidente fu il primo a tramontare; era nel nome.
Per un certo periodo, l’Oriente parve in grado di compensare (con un residuo dell’istinto di supremazia tememmo a lungo di aver abbandonato troppo presto la gara di resistenza); poi il crollo dei mercati europei sterilizzò i commerci, castrò le rotte mercantili, prosciugò alla sorgente la necessità stessa di produrre oggetti. Il vigore dell’Africa che si stava risollevando dalle antiche umiliazioni coloniali venne invece spento, brace in una pozzanghera, dalle epidemie. Ciascuno da lì in avanti badò a sé, e il precedente tenore di vita rendeva impensabile figliare. Il futuro era diventato follemente costoso; innaturale, consumarsi per produrne altro. Nella stanchezza generale (un certo oblio fu assicurato anche dalle gozzoviglie, dall’alcool, dagli abusi, dagli istintivi rimedi all’eccessiva lucidità) la specie si preparò al sonno. Ci fermammo, smettemmo di avanzare. Bastò: in pochi decenni, tutto divenne una rovina, e scoprimmo la cosa magnifica dell’abitare le rovine – non fanno altro che assomigliare sempre più a sé stesse, si perfezionano spontaneamente.
Sulle prime la cosa più difficile fu abituarsi all’assenza dei bambini. Ma nelle coscienze dei mancati padri, delle mancate madri si era fatta strada la realizzazione dell’importanza del sacrificio: bisognava pure adattarsi. E le religioni non furono d’intralcio, ma anzi d’aiuto: smettere le guerre, rasserenarsi, cessare quel procreare confuso e casuale rientrava, in un certo senso, nei loro programmi.
Alcuni tra noi ci ripensarono, in un dato momento, quando forse ancora si sarebbe potuto, se si fosse voluto, tornare, ricostruire, riprendere – ci furono dissensi, rivolte. Ma il Concetto, ormai, aveva prevalso, si era disteso come un sudario su ogni cosa, su ogni casa, nei quartieri spopolati, calmando, acquietando, spegnendo. I suoni della grande macchina che si stava arrestando ci saziarono. La stanchezza attenuò poi le ultime dissonanze, il culto della vita si infiacchì.
Infine, lo facemmo per loro. Gli animali, dico. Spiriti antichi che si erano avvicinati, all’alba della storia umana, ai falò, incuriositi dagli odori, dai colori, attratti dalla luce. Avremmo potuto convivere, pacifici, apprendendo gli uni dagli altri. Ma il nostro patrimonio genetico gridava, nella notte dell’umanità, e quello che avvenne poi è noto a tutti – no, mi sbaglio: era noto a tutti. Ormai sono l’ultimo a ricordare l’antica schiavitù degli animali.
Da quasi un secolo, da quando smettemmo di agire, essi sono liberi, e vagano liberamente ovunque, propagano e difendono le loro specie senza interferenze. Ricordo ancora – appena un barlume – le domande (trasognate, ingenue, dalla mia prospettiva) che i più poetici tra noi si facevano, immaginando le meraviglie cui avremmo assistito lasciando libero il teatro del mondo: come conduce una campagna militare un licaone? Quali repubbliche costruiranno le pernici di monte? I lupi avranno una letteratura? Che timori di oblique gerarchie turberanno i sonni del cervo alfa? Le meraviglie accaddero, anche se ebbero aspetti che non avevamo previsti, anche se furono di segno opposto a quello che avevamo sognato nella nostra miopia di uomini. Prodigi oscuri e silenziosi. Tigri trascinarono uomini vivi nelle pagode dismesse, per consumarli. Picchi verdi fecero il nido nelle tele dei musei, dai volti squarciati della Ronda di Notte entrano ed escono i musi aguzzi delle arvicole. Nei campanili si annidano gli avvoltoi, negli asili le volpi. Contrafforti di ostriche, percorsi da numeri vertiginosi di aragoste, sono stati alzati contro le scogliere di Dover, e da decenni nessuna mano umana ha disturbato la loro esistenza. I piccoli uccelli di campagna furono cancellati dai milioni di gatti liberati; i milioni di gatti dai milioni di cani tornati selvatici; nuove specie ora gareggiano con gli sciacalli nel tenere sgombre le strade delle città abbandonate.
Essi ci avevano osservati per millenni, in attesa. Così segretamente terrorizzati dall’idea della sostituzione com’eravamo, ufficialmente gonfi della certezza del dominio, non ce ne eravamo accorti. Ma quando smettemmo di cercare animali intelligenti buoni solo per il circo o per il cinema, ci accorgemmo di intelligenze che forse solo gli sciamani, nei millenni dell’evoluzione, avevano intuito. Gli animali avevano linguaggio, e tensioni, insospettati. Avevano quasi un programma. Per l’ultimo tratto della Storia siamo vissuti – ancora, per un poco, io vivo – nelle conseguenze di quel programma.
La continua invenzione del futuro è cessata: abbiamo legato le mani al Costruttore. Al posto del futuro un eterno presente, dappertutto questo discreto brulicare, questo trasformarsi di proteine in proteine, questo languido e vasto spazio in cui ormai noi siamo – io sono – solo un marginale incidente.
Non saremo ricordati, non da essi, di certo. Per una generazione gli storni terranno forse a mente le nostre voci; per qualche migliaio di notti i rospi e i ricci tratterranno il timore degli pneumatici, dei freddi meccanismi, delle suole; la nostra leggenda si riassorbirà con le cicatrici sui dorsi dei delfini, arrugginirà con gli ami annidati nella carne dei lucci. Poi, più nulla.
Anche su di me, adesso, prende il sopravvento il torpore.
Vorrei scrivere altro – c’è forse qualcos’altro da dire. Ma sono stanco, non ricordo bene. Non importa. Sono l’ultimo.
Lascerò la finestra aperta, altrimenti sarebbe uno spreco. Da mesi le cornacchie mi corteggiano, si assiepano sul davanzale, benedette, sfrenate, libere, vogliose, credo – lo scrivo con un sospiro –
dell’elegante massacro che la linea della stirpe impone loro. Una in particolare, con un certo sguardo, una simpatica sfrontatezza, ha imparato a bussare col becco, lieta, insistente. Apro, adesso. È forse incuriosita da questo relitto genetico, oppure, com’è naturale, è interessata alle parti molli del mio viso.
In copertina: artwork by Markus Matthias Krüger

