Il racconto di oggi è di Stefania Marongiu e racconta quel tipo di nostalgia che abita le case di famiglia. Non c’è oggetto, mattonella, o porzione di muro immune alla percezione di passato di cui ogni sguardo è portatore. In questo intreccio di vita e di perdita, la casa respira come un organismo vivo, pulsando del calore delle estati passate e dell’eco di voci ormai lontane, mentre il futuro si annida tra le crepe del suo stesso intonaco.
#dicembrenarrativo
Questa casa la sento mia
«Ti ricordi di nonna, quando aveva perso l’ombelico?». Mia sorella spalanca gli occhi luccicanti
perché sa che è una cosa che mi farà ridere.
«Ma quale nonna?» dico io e infatti già rido.
«Bisnonna»
Bisnonna aveva vissuto da noi molti anni prima, durante un’estate simile a quella di adesso, solo che ora siamo ragazze, io più grande di lei, mentre quando Bisnonna stava da noi eravamo bambine.
«Un giorno Nonna era andata a lavarla e non si trovava più l’ombelico». E ride, piegando il corpo in avanti, la crocchia in cima alla testa si piega come farebbe la corolla di un fiore.
«Ma come era successo?» sghignazzo io, ormai è fatta, ridiamo coprendoci gli occhi con le mani
perché non dovremmo ridere di una donna vecchia e morta.
«Perché era troppo grassa» esclama lei e la risata è incontenibile, un’esplosione di saliva e gorgoglii.
Nell’istante in cui pronuncia l’ultima frase la me bambina entra nella casa del piano di sotto, dove
abitava mia Nonna, rimasta identica a prima, ad adesso, che rimarrà uguale domani. La me bambina entra e vede tutto a un’altezza di bambina, vede le gambe bianche chiazzate di rosso di Bisnonna, grosse e molli come le radici di una pianta malata. Lo sguardo di Bisnonna è miope, ma non è proprio che non vede, è lo sguardo di qualcuno che guarda da un’altra parte, non proprio da un’altra parte, forse vede cose che non ci sono. Il suo cervello è percorso dalle lumache, ha detto mia zia, io vedo queste lumache che lasciano le bave sui pensieri. Se il cervello è pieno di bava lei di certo non mi vede ora che mi affaccio dalla porta a vetri, con alle spalle la luce forte che inonda il cortile. Se il cervello è pieno di bava lei non vede niente, la bava delle lumache deposita una scia che è del passato. Mio padre ha detto alla me bambina che se Bisnonna chiede dove è andato suo marito bisogna rispondere che è al bar, anche se non è vero perché in realtà è morto vent’anni fa. Bisnonna ha gli occhi azzurri, ora sono velati e biancastri, ma da giovane erano azzurri e poi era bionda, ora è tutta bianca, ma prima era biondissima e io, mia sorella e le mie cugine siamo dispiaciute di non aver ereditato nessuna delle due cose.
La me bambina la guarda restando immobile e zitta, in casa non c’è nessuno, qui d’estate è sempre pieno di gente ma il cortile grande e gli appartamenti comunicanti tra loro fanno sì che gli abitanti della casa spariscano in un attimo. A volte se chiami da dietro le porte chiuse o dal fondo del giardino nessuno risponde. Ora è uno di quei momenti, siamo sole io e la Bisnonna che respira pesante, lei e il suo ombelico sparito chissà dove. Io rimango a guardarla e cerco di non muovermi, potrei tornare in cortile, cercare mia sorella e vedere che fa, provare a riempire il vuoto gonfio di caldo per sfuggire alla noia, ma non voglio farlo.
Cosa mai potrebbe succedere?
«Quando torna?» la sua voce nasale e incerta irrompe nel silenzio. «Quando torna?» ripete.
Io, io bambina, sobbalzo, piccolo uccellino, e scappo. Con mia sorella abbiamo riso così tanto che il mascara mi è colato dagli occhi e ho cominciato a sudare forte, perché il sole sta proseguendo il suo giro e presto incendierà la facciata interna della casa, dovremmo chiudere tutte le finestre e le imposte così che la luce non entri e non scaldi le stanze. Le estati sono tutte uguali, mi attanagliano come i campi gialli e le strade deserte e lunghe che non portano direttamente al mare, perché il mare è lontano. Per arrivarci bisogna prendere due autobus e tagliare a metà una pianura punteggiata da olivi e alberi di agrumi. A chi abita la casa non importa che sia così distante, sono aggrappati al giardino, alle stanze, alle finestre, ai tavoli, alle tende, alle porte come se fossero una grande catasta di relitti in mezzo al deserto. La casa è imponente ma in alcuni angoli consumata e corrosa. Mio padre aveva ristrutturato la parte dove poi siamo nate io e mia sorella. Nel frattempo il piano terra, quello di Bisnonna, misteriosamente pareva sfaldarsi poco alla volta: mezza tastiera del pianoforte che salta all’improvviso, un vetro della finestra che si crepa, le librerie e i divani che si coprono di polvere. Per questo, per l’invecchiamento della sua casa, Bisnonna era stata a vivere nella parte della casa di Nonna, che ha tenuto uguale a quando ci abitava con il nonno, che quando è morto era adagiato sul letto della camera in fondo al corridoio, la loro.
La me bambina nemmeno esisteva quando nonno è morto e non si ricorda di quando Bisnonna è
morta. La me bambina sta ore e ore sotto il portico della casa–relitto a inventare canzoni e fingere di perdere anelli magici nell’erba del prato, anelli che poi vengono ritrovati. Intorno, gli adulti governano il tempo a forza di passare la scopa su pavimenti vecchi di duecento anni, sistemando gli spifferi dalle finestre, imbiancando le macchie di umido che serpeggia sulle pareti. La me bambina ignora o solo intuisce questi movimenti concentrici attorno alla casa. A un certo punto Bisnonna è morta.
« È andata in paradiso» ha detto mia madre «Era vecchissima» ha aggiunto.
«Quanti anni?» chiede la me bambina.
«Eh!» risponde mia madre e fa un gesto con la mano come a dire che sono così tanti che si va molto indietro con il tempo.
Io e mia sorella siamo diverse, io ho gli incisivi sporgenti, lei ha i denti dritti e bianchi, io ho il naso piccolo, lei un po’ più grande, se lo guarda sempre allo specchio e nelle foto dice che si vede troppo. Io ho i capelli neri e corti, lei lunghissimi e castani. Io d’estate porto i sandali, lei mai, solo scarpe da tennis bianche, perché non le piacciono i suoi piedi. Adesso siamo sedute nel salotto della casa di noi bambine che a me sembra così piccola, così come mi sembra piccolo il cortile, che invece prima pareva sterminato e pieno di angoli misteriosi. Ma ora che sono tanti anni che attraverso una città lontana da qui, che mi appare spesso labirintica ma seducente, minacciosa ma abbagliante, la casa si è rimpicciolita ed è cambiata. È cambiata la disposizione dei mobili ma soprattutto sono raddoppiati gli scricchiolii, è aumentata la polvere e sono aumentati i fatti che vi sono accaduti dentro. Questo affollamento ha ridotto lo spazio di movimento. Abitare in una casa che scava un cunicolo sempre più profondo dentro il tempo fa sì che sia impossibile crescerci dentro. Le persone che ci hanno vissuto e che ci sono morte lasciano rimasugli che passano attraverso il legno dei mobili e l’intonaco delle pareti. Paure e sogni e ossessioni che non sono miei hanno tentato di prendere il sopravvento sui miei desideri. Ogni volta che me ne vado sento un senso di perdita e di smarrimento che arriva come uno spavento improvviso. Ogni volta che torno mi capita di sentirmi disorientata. Adesso sono entrata nella stanza dove giace Nonna, viva. Nonna è viva ma qualcosa da un po’ di giorni la tira verso il nulla o verso l’infinito, dipende da quello in cui si crede. Lei ondeggia tra questi due stati con l’agitazione del dormiveglia. Sento il suo odore, mio padre va e viene dalla sua stanza e mentre osservo questo movimento pieno di sollecitudine e sgomento, ecco che i contorni delle cose scolorano e anche io precipito lontano da qui, alla me quindicenne inferocita e ansiosa, alla me novenne chiusa in un mondo immaginario ma pieno di particolari. Entrambe, la ragazzina e la bambina, tornano dal passato nel medesimo istante in cui percepisco che Nonna sta morendo.
L’ andirivieni sul filo che collega l’adesso con la matassa della sua vita, che sprofonda sempre più in profondità con lo scorrere delle ore, spalanca di nuovo la porta al brulicare sommesso di chi qui è stato, secoli fa, anni fa, giorni fa. Tutti noi presenti – mio padre, io, mia sorella– ci spacchiamo in frammenti di quello che siamo stati. Con un respiro forte come di chi va sott’acqua, Nonna ci lascia per sempre.
La notte è scesa e quando scende riempie il cortile e il cielo, finalmente fa fresco. Io e mia sorella abbiamo parlato con nostra madre che ora vive da un’altra parte. Ci ha detto che verrà al funerale. Adesso siamo distese nello stesso letto perché la casa non ha più spazio per entrambe, da quando io sono andata via. Teniamo le finestre aperte sul silenzio compatto che viene dalla strada. In giardino si sente il barbagianni.
Mia sorella dice «Non la voglio cambiare la casa».
Io resto zitta e lei continua «Non la voglio ristrutturare troppo».
Ora che Nonna non c’è più il pezzo della casa dove viveva passerà a lei, perché lei da qui non se n’è andata e di certo qui rimarrà.
«Perché no?» chiedo io.
«Mi dispiace che diventi un’altra cosa».
Ripenso a mio padre che quando siamo nate ha ricostruito ogni centimetro del pavimento che sostiene il letto dove ora siamo coricate, ogni angolo, ogni mensola, ogni mobile, che hanno resistito fino a qui nonostante le mareggiate che sono arrivate e passate.
«Invece lei vorrebbe che tu lo facessi» rispondo. Mi giro su un fianco e mi addormento.
Qualche giorno dopo il funerale mio padre mi chiede di andare a prendere delle cose rimaste nell’altra casa di Nonna, quella di città. Mi chiedo quale urgenza ci sia, quasi come se, ora che lei se n’è andata, l’altra casa smetta di avere senso, anche se lui è cresciuto lì, e così i suoi fratelli e sorelle. Però io sento questa come casa mia, dice sempre, parlando della casa di campagna. Mi immagino che invece l’altra casa si stia inabissando o che venga portata via dal vento come capita nelle fiabe. Tuttavia, quando ci entro, è solo un appartamento chiuso da tempo, da quando Nonna aveva deciso di tornare a quella dove è morta. Devi cercare soprattutto una cosa, ha detto mio padre. Dopo la morte di nonno Nonna aveva tenuto con sé un cammeo, appartenuto a un trisavolo, un signore dal naso grifagno che mi osserva da un ritratto appeso in salotto, mentre la luce che filtra dalle veneziane gli disegna righe spesse sul volto. Di questo cammeo si parla con un rispetto accorato, perché viene dato solo ai discendenti maschi. Nonno è morto troppo presto per darlo a mio cugino, e ora mio padre vuole che io lo riporti indietro. Non so dove cercare e quindi apro le finestre, perché è quasi il tramonto e posso far entrare un po’ d’aria. Il balcone dà su altri palazzi ma si vede lo stesso il mare in lontananza. Mi chiedo perché il resto della famiglia abbia sempre preferito la campagna arida e assolata anziché il continuo tremolio che si sente vicino all’acqua. Ma capisco che la casa fuori città ha dentro di sé tutto ciò che sono. L’unica casa che sento come mia, dice mio padre. Il balcone della camera di Nonna è pieno di piume bianche e l’aria mossa dell’imbrunire le porta a turbinare sul pavimento. Da fuori si sentono le strida dei pulli dei gabbiani, che in questo periodo si spogliano della pelle dei pulcini che sono stati per diventare uccelli sgraziati e dagli occhi pieni di panico, feriti dall’obbligo di planare sul mondo sotto lo sguardo indifferente dei loro genitori, bianchi e con lo sguardo vitreo. Uno è rannicchiato vicino alla ringhiera del balcone e mi guarda furioso e terrorizzato, lanciando di tanto in tanto un grido impossibile da consolare. I pulli sembrano animali preistorici, con i becchi neri e adunchi e un tremore costante che rivela la loro poca conoscenza del mondo. Lo guardo preoccupata e intanto frugo tra i cassetti ormai vuoti di Nonna. Lui sta in silenzio fino a che non mi dimentico della sua presenza. Cerco negli armadi, nelle scatole sotto il letto, tra i pochi libri rimasti sulle mensole. Un altro urlo del pullo, prolungato e infelice, mi fa sobbalzare e sbattere il fianco contro una mensola. Cade una scatolina. Dentro c’è il cammeo.
Tornare alla casa è come immergersi in una conca piena di piante secche, il caldo non dà tregua.
Stringo la scatolina con una foga stanca ma esuberante. Trovo mia sorella seduta in mezzo al salotto vuoto, che guarda le stanze che dovrebbero essere sue.
«Com’è andata?» mi chiede.
«Bene»
«L’hai trovato?» domanda, senza distogliere lo sguardo dalle pareti e dai mobili.
«Sì»
«Papà è al piano di sopra».
Seguo la traiettoria dei suoi occhi e vedo lo smarrimento triste che sente nell’osservare lo spazio che ha paura di modificare, questa casa vecchia di secoli o di millenni, attraversata da un fiume di voci che sono rimaste qui, per sempre qui, a vivere e a morire.
Le dico «Prendilo tu» e le metto in mano il cammeo «Non dire a nessuno che l’ho trovato».
Il sole finisce di tramontare e l’aria comincia a muoversi.
Stefania Marongiu vive a Cagliari dove insegna geografia in una scuola superiore. Ha pubblicato racconti su Erbafoglio, Morel, voci dall’isola, Racconti dal Crocevia, Eccetera Magazine. Nel 2021 è finalista al Premio Zeno- Sezione Racconti Lunghi, nel 2023 pubblica per Alcatraz Edizioni La parte della memoria. Storia privata di Saverio Tutino, romanzo biografico sul partigiano e giornalista Saverio Tutino.
In copertina: Mondrian, Piccola casa al sole, 1909, Olio su tela, Kunstmuseum Den Haag

