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Dicembre narrativo – Leonora, Beatrice Fagan

Misteriose figure zoomorfe, creature ibride e spazi metamorfici che sembrano dissolvere i confini tra umano e animale, maschile e femminile, spirito e materia. Basta osservare anche solo un dettaglio di una qualsiasi opera di Leonora Carrington per comprendere che esiste una creatività votata all’arcano, eppure ancorata alla concretezza del dolore. C’è la storia dell’arte e poi ci sono le storie delle artiste e degli artisti che l’hanno ridefinita, secolo dopo secolo.

Il nostro #dicembrenarrativo prosegue con questo racconto di Beatrice Fagan, omaggio in prima persona a una donna visionaria.


Leonora

 

L’insalata verde brillante è immobile e fredda come fosse scolpita nel cristallo. È da ore che provo a mangiarla; lei non si muove di un millimetro, mi guarda e resta nel piatto. Ha una risatina sadica, il suo ghigno dentato striscia sui bordi affilati come lamette. I pomodori emergono dalle increspature di quel mare di indivia, come palloncini rossi incastrati nell’erba, quella dei campi che circondavano la mia vecchia casa a Lancaster. Per il passato provo un’immensa tristezza, e il futuro non mi sembra affatto migliore. Continuo a focalizzarmi sull’insalata. Lei mi guarda e ride ancora. Afferro il piatto e lo lancio contro il muro con violenza. La ceramica è frantumata, come il tempo dentro la mia stanza. Le foglie e i pomodori sparsi per terra circondano i miei pennelli, sono sul pavimento ad asciugare dall’ultima volta che ho dipinto. Guardo di nuovo l’insalata con disprezzo: «Ridi adesso, stronza».
È da ventuno giorni che sono rinchiusa in questa stanza, ogni superficie è ormai in putrefazione. Max non torna. Se chiudo gli occhi lo vedo avvolto da una nube di polvere bianca, circondato da un muro di mattoni. I mattoni sono anche per terra, le fessure sull’argilla sono le rughe nella sua pelle. Mi ha abbandonata di nuovo? Guardo la mia tela sul cavalletto. I suoi capelli sono bianchi fili di latte acido. È dal giorno di questo ritratto che non prendo un pennello in mano. Scrivere è l’unico barlume di sollievo nel tentativo di dare una forma a questo mio delirio. Il tormento è indescrivibile. Dormire è l’unico momento in cui mi sento ancora umana; nella veglia sono tutto tranne che vita. Sento ogni mio nervo raggrinzire. L’appetito è rimpiazzato da un perenne senso di repulsione, che mi coglie nelle viscere puntualmente allo scoccare di ogni ora o quando sento scricchiolare il grano saraceno sotto ai denti. La sofferenza assume spesso le sembianze di una iena che mi divora dall’interno mentre strilla e mastica le mie interiora piano piano, fino a farle diventare la mia faccia. L’unico modo per alleviare il dolore è bere litri e litri di infusi di bulbi e poi abbandonarmi a conati di vomito per ore. Ogni spasmo è un terremoto; continuo fino a che non mi ritrovo per terra, convulsa e pietosa. Per fermarmi mi basta succhiare un cucchiaino di miele.
Ho capito che non potevo fidarmi di mio padre all’età di tre anni, quando scoprii che tutte le mie disgrazie sarebbero arrivate dopo colazione. Nella mia camera tenevo un cavallino a dondolo, si chiamava Tartar. Una mattina, dopo la mia razione quotidiana di porridge, risalii nella mia stanza e Tartar non c’era più. Scoppiai a piangere e iniziai a dimenarmi pur di smuovere l’animo buono, ma terribilmente ingenuo, di mia madre. Lei supplicò mio padre di restituirmelo, ma lui era convinto che per farsi rispettare fosse necessario essere inflessibili, sempre. Questo me lo aveva fatto figurare come un gigantesco monolite nel deserto; completamente inutile nella sua rigidità. La risposta alle suppliche di mia madre fu che avrei potuto fare visita a Tartar solo dalle quattordici alle quindici, poi, il mio compito sarebbe stato aiutare la balia a preparare il tè. Fu così che compresi che sapore aveva il livore; solo all’età di tre anni, ero un coacervo di sadismo, un minuscolo involucro di malvagità, e invece di svolgere attività normali ero ossessionata dai più creativi desideri di vendetta. Siccome non si può dire di aver odiato qualcuno senza prima aver desiderato di far scorrere il suo sangue e averne provato piacere, cominciai a tormentarlo con diabolici scherzi, come mettergli nelle pantofole gli spilli rubati dallo scrigno del cucito della balia. Un giorno esagerai e ce ne misi dieci, cinque in una e cinque nell’altra. Quando le infilò ai piedi, cacciò un urlo che fece nitrire tutti cavalli fino a quelli del maneggio oltre i campi. A quel punto, mi portò via Tartar per sempre. Ma io non piansi, anzi, quell’evento mi temprò. Così intrapresi il mio primo sciopero della fame, e soprannominai lui, definitivamente, il bastardo.
Quando ero ospite dalle mie amiche e arrivava il momento in cui le madri mi offrivano gentilmente del tè, la conversazione era la seguente: «Ne gradisci un po’, cara?» «Non mi interessa il tè» «E come mai non ti interessa il tè, cara?» «Non mangio e non bevo per protesta contro mio padre, il bastardo». Non appena dichiaravo le ragioni della mia astinenza, precipitavano tutte in un momentaneo spaesamento. Si guardavano intorno, quasi sempre sentendo il bisogno di accompagnare quegli sguardi di sconcerto a una risatina isterica, che nelle loro teste incipriate doveva in qualche modo salvarle dall’imbarazzo del silenzio. Poi arrese ammutolivano per interi quarti d’ora.
Mia madre, purtroppo per lei, non ha mai saputo cosa significasse avere spina dorsale. Ha sposato il bastardo per ragioni che ancora oggi mi sono ignote. Lei si chiama Maureen, e l’unica cosa in cui sia mai riuscita a imporsi fu la decisione di crescermi con l’aiuto di una balia che condivideva le sue stesse origini, Mary. Entrambe provenivano dalla terra di celti, monaci e vichinghi, ma anche di boschi e laghi fatati. Mary e mia madre mi cullavano spesso cantando liriche in gaelico, a volte ponendo la mano l’una sul petto dell’altra. «Gli Irlandesi devono sentire il cuore quando cantano, altrimenti la voce non esce», mi dicevano. La nursery era il luogo dove mi raccontavano degli elfi e i folletti che abitavano le nostre credenze, o delle fate che si pettinavano i lunghi capelli argentati sotto la pioggia, nei boschi che vedevo all’orizzonte dalle finestre di casa, oltre i campi.
Il digiuno mi conduce in un paesaggio di visioni i cui i sentieri sono labirinti della mia memoria. Mi immergo lentamente in uno stagno di ricordi. La notte ed il silenzio mi coprono con una calma religiosa. Sono un anfibio che nuota verso il fondo dei suoi terribili discorsi. La luce lunare mi illumina i fianchi e lambisce i muscoli magri e affilati delle mie gambe. Spingo per raggiungere l’abisso, e i miei capelli scuri si muovono come le setole dei pennelli nell’acqua torbida. Anche il mio appetito è immerso nel buio. Da tre settimane mi nutro solo di miele, grano saraceno e pastis che condisco con zenzero o rosmarino. Mi sono ormai ritirata completamente dalle relazioni sociali. Non parlo con nessuno dall’ultimo giorno in cui scesi al villaggio e la signora della casa accanto mi chiese di Max. Lo chiamò quell’uomo molto più grande di me. Io ero sconvolta. «Sono venuti a prenderlo di nuovo, cara?» «Stia attenta, se mi parla un’altra volta giuro che la prendo a schiaffi». Sono fuggita indignata, decisa a non tornare più in paese fino a che non avessi deciso di porre fine al mio isolamento volontario.
È mattina, mentre sto facendo colazione con il terzo bicchiere di pastis condito con zenzero e lacrime, sento qualcuno alla porta: «Se il presente è venuto a bussare, io sono pronta a tagliargli la gola». Quando apro, scopro con immenso orrore che il bastardo e mia madre hanno mandato qualcuno a fare il lavoro sporco al posto loro. Una donna dall’aspetto teutonico mai vista prima se ne sta impalata sulla soglia di casa mia con una lettera. La apro e la leggo con la voce di mia madre. Dice che non può sopportare di sapere sua figlia, a soli ventidue anni, da sola e ridotta in quello stato, ancora una volta. Posso vedere l’alone delle sue lacrime sulla carta. Aggiunge che Brigitta è un’ottima infermiera e si è gentilmente offerta di farmi visitare da una sua conoscenza, un noto psichiatra di una clinica sulle coste dell’Atlantico, dove si prenderanno cura di me. Guardo velocemente la scagnozza che hanno mandato. Sarà alta un metro e ottanta, è grassa, ha le mani più grandi della mia faccia, e due seni che potrebbero abbeverare una nazione intera. È fuori discussione che io possa opporre resistenza. Mi fa cenno di prendere le mie cose e seguirla in automobile. È finita. «Prendo i pennelli», le dico. Lei si affaccia nell’ingresso che dà sul salotto e guarda insospettita l’ambiente: l’insalata per terra, il pastis sul tavolo; solo allora mi accorgo che il barattolo del miele è aperto, e dentro c’è una spirale di formiche. Resto per un secondo incantata pensando a quanto siano creature splendide nella loro simmetrica armonia. Lei probabilmente le trova ripugnanti. Incrocia le braccia, divarica le gambe e mi aspetta sulla porta. La sua sagoma la occupa completamente. Io mi sento debole e non posso fare altro che soccombere. Un tempo ero il bulbo di un fiore, ora sono un tubero avariato. Guardo per l’ultima volta il ritratto sul cavalletto, poi il minotauro scolpito all’entrata oltre la staccionata, mi scende una lacrima. Addio Max.

*

Personalmente, ho sempre ritenuto che le persone fossero del tutto prive di ispirazione. Ebbi l’opportunità di ricredermi il giorno in cui ho incontrato Max. Era l’11 giugno del 1936, vivevo da sola a Londra da qualche mese. Mio padre aveva finalmente acconsentito a riconoscermi lo status di “degenerata”, ossia di artista, una parola che lui, piuttosto che pronunciarla, avrebbe preferito ficcarsi una mano in gola e asportarsi direttamente la carotide. Mi ero trasferita in città per studiare disegno in un seminterrato di Warwick Road, all’ingresso del quale c’era scritto Academy of Fine Arts; un dettaglio che gli dava un certo prestigio, ma non cessava di farlo essere un garage. Il mio maestro era un francese ossessionato dal recupero della purezza in ogni sua forma. Ammiravo il candore delle sue pretese, ma la sua esigenza mi snervava. C’era stato qualcosa che lo aveva profondamente traumatizzato del cubismo, a cui lui cercava di rimediare attraverso la compulsiva applicazione della tecnica e degli schemi classici del diciannovesimo secolo. Tutto sommato, mi ritenni fortunata ad avere come primo insegnate una persona così meticolosa. La sua esigenza arginava la mia dannata inclinazione a disperdermi. Dopo circa sei mesi passati a disegnare a carboncino sempre la stessa mela, mi decisi a cogliere nuovi stimoli e visitare la Mayfair Gallery, dove quell’anno si teneva la prima esposizione internazionale del gruppo surrealista. Mia madre mi raggiunse in treno per accompagnarmi. Non appena varcammo la soglia della porta di ottone, un uomo che indossava una muta da sub ci tagliò la strada facendomi un cenno con la testa, col boccaglio e tutto. Più tardi lo vidi di nuovo sul palco di una conferenza chiamata Fantasmi paranoici autentici. Con una stecca da biliardo in una mano e due cani al guinzaglio nell’altra, parlava di uno studente di filosofia che aveva mangiato un intero spogliatoio in sei mesi – lo stesso tempo in cui io avevo disegnato nei minimi dettagli una stramaledetta mela -, pensai. Sebbene non fossi sicura di aver capito tutto, trovai la sua estrosità piuttosto folgorante. Era circolata persino la voce che quell’uomo avesse rischiato di soffocare dentro la sua muta da sub, ma io non ci avevo creduto; chi lo aveva fatto non sa che cosa sia l’ispirazione. All’uscita dalla galleria, mia madre mi comprò un libro che raccoglieva alcune opere surrealiste. Non appena lo afferrai, i soggetti del quadro in copertina si aggrapparono nella sclera dei miei occhi come uncini. Una fanciulla giaceva svenuta su un prato mentre un’altra si aggirava disperata con una lama in mano. Sulla destra compariva, sul tetto di una casa, un uomo con in braccio una bambina. Erano nell’atto di fuggire, o di volare via da un uccello che orbitava minaccioso. Tutto era inquadrato in una cornice-finestra su una landa desolata, che si fondeva con un cielo che da azzurro diventava giallastro. Un brivido mi scivolò dietro le orecchie. L’inquietudine era ovunque nel dipinto, e la fantasia aveva l’abito dell’innocenza, di un’arma per trascendere l’angoscia; come i palloncini rossi incastrati nell’erba fitta, o i pomodori nell’insalata, o le finestre dei corridoi tenebrosi di Lancaster spalancate sul bosco incantato. Mi sembrava la geometria della mia esistenza. «Chi ha realizzato questo dipinto deve possedere la mappa della mia anima», pensai. Quello fu il giorno in cui conobbi Max, era presente nel dipinto sotto le sembianze dell’uomo e dell’uccello.
L’anno successivo venne a Londra, ed io riuscii a farmi invitare, tramite una mia compagna di corso, ad una cena in cui era presente anche lui. Come fu per il mio primo digiuno di protesta, ero determinata a combattere quella guerra, e sedurre quell’uomo-uccello per il quale avevo sentito squillare dentro di me centinaia di cornette telefoniche. Lui aveva quarantasei anni ed era sposato da dieci, io ne avevo ventuno ed ero già follemente innamorata. Appena lo intravidi, alto e con una piuma di pavone in testa, andai dritta verso di lui munita di un vassoio vuoto per introdurmi come una portata. All’ultimo momento cambiai idea, ed esordii: «Gradisce un bulbo di tulipano nel cervello?». Seguì un lungo silenzio. Poi lui mi sorrise, incantato. Il suo sguardo azzurro mi attraversò come un fiume, passando dalle orbite alla gola e giù fino alle caviglie. Alla fine, sapevo che eravamo amanti e che così avevo trovato il modo per sbarazzarmi definitivamente di mio padre.
Max mi rapì e mi portò con lui a Parigi. Restammo nella ville lumière fino a che non scoppiò la guerra. Mio padre bramava insieme ai gendarmi francesi la cattura del mio re degli uccelli, il primo per pornografia, e i secondi perché tedesco, così decidemmo di scappare. Questo aggiunse alla nostra relazione una nota ancora più erotica e romantica. Ci trasferimmo nella campagna vicino le montagne di Ardèche, luogo dove potei realizzare la prima di tutte le mie fantasie: la simbiosi. La nostra dimora cominciò a popolarsi di creature ibride e mostruose. Max produceva tutto il giorno sculture di minotauri, uccelli e sirene. Le sue creature di gesso e di legno erano i nostri guardiani. Quelli più spaventosi, assemblati da più materiali, erano esposti poco oltre la staccionata, per tenere alla larga gli scocciatori, le spie e i curiosi. Nemmeno in settantasette milioni di anni avrei potuto immaginare di essere più felice. Max scolpiva i mostri-sentinella e piantava la vite in giardino, io coltivavo erbe aromatiche e dipingevo cavalli. Ero serena e ispirata, i giorni scorrevano lievi e il tempo non aveva nessuna importanza. Una notte, l’angoscia venne a farmi visita tramite un sogno in cui mi trovavo in una stanza completamente circondata da orologi. Il mattino seguente, guardai Max con occhi diversi: vidi l’uomo – non l’artista – anziano e tedesco, in un momento terribilmente sbagliato per essere entrambi. Presi i pennelli e realizzai il suo ultimo ritratto il giorno prima che lo portassero via. Aveva lo sguardo di ghiaccio e i capelli bianchi e sottili delle fate. Lo coprii dalle spalle alle caviglie con un mantello di piume purpuree, dal cui lembo inferiore spuntava una coda di pesce. Lo resi vulnerabile nel suo stanco intercedere. Io mi disegnai alle sue spalle, con le sembianze di un cavallo congelato. Dietro di noi, si innalzavano le cime di montagne aguzze per separarci dal resto del mondo.
Lo vennero a prendere il mattino seguente, dopo la prima colazione. Erano cinque soldati, lo chiamavano sporco nazista. Lui non oppose nessuna resistenza, era la seconda volta che lo catturavano. Mentre percorreva il vialetto mi buttai per terra, piangendo disperata, lui riuscì a girarsi prima di salire in automobile e mi sorrise, poi guardò il tetto della nostra casa. Mi voltai anch’io e una nuova scultura di gesso ritraeva l’uomo con in braccio la bambina. Quando mi voltai di nuovo a guardarlo aveva già gli occhi sul minotauro mostruoso oltre la staccionata, e gli sussurrava qualcosa in tedesco.
Nei giorni successivi raggiunsi più volte lo stato di cadavere, indotto dal digiuno e dall’abuso di alcol; anche se non mi è perfettamente chiaro chi stessi punendo in quel momento, se Max, mio padre, il governo francese, quello tedesco, o tutti loro insieme. 

*

Quando con l’infermiera teutonica saliamo in automobile mi rendo conto che deve avermi sedata, poiché improvvisamente sprofondo in un sonno popolato da terrificanti incubi. Mentre percorro la lunga strada per l’inferno, lastricata dai soldi di mio padre, vedo il bastardo di fronte a me, seduto nel salotto di Lancaster, con le pantofole insanguinate sulle punte, completamente vestito di pipistrelli, che mi ordina di servirgli il tè. Quando mi sveglio, per la prima volta contemplo la fuga. L’unica cosa ancora viva in me è la volontà di sopravvivere.
Siamo arrivate in città. Ignoro in quale paese mi trovo e quali siano esattamente i confini dei paesi in questo momento. Devo trovare il modo di scappare. Entriamo in una tavola calda e ci sediamo. La grassa infermiera deve ricevere la chiamata che le darà il via libera per il mio internamento. Dico la cosa più credibile che mi viene in mente: «Devo vomitare». Lei mi scruta, sta sicuramente pensando che non ho mangiato niente e che non posso avere nulla nello stomaco. Mi scava negli occhi per cercare un bagliore di inganno, io riproduco uno sguardo vitreo e assente. Sono un bulbo di pietra. Lei alza il sopracciglio, appuntisce le labbra e le sposta tutte da un lato come per disegnare una virgola. Osserva il mio corpo. Sono un bulbo dall’odore sgradevole in decomposizione. Fortunatamente lo stesso pallore cadaverico mi accompagna da settimane, da quando Max ha varcato la soglia di casa con quelli che lo chiamavano sporco nazista. Sono magra, rigida e appuntita come una stampella. Ho un alone viola sotto agli occhi. Sono quasi una morta. Deve sicuramente pensare che ho la nausea. «Vai e poi torna. Ti ordino acqua calda e limone». Io mi alzo e mi dirigo verso il bagno. Per farlo devo attraversare la sala. Le persone mangiano uova alla Bismarck e pane burrato, ci manca poco che mi venga veramente da vomitare e che lo faccia lì davanti a tutti. Imbocco un corridoio e vedo che invece di condurre al bagno porta alle cucine. Senza guardare nessuno cerco un’uscita di servizio. Un uomo sta fumando del tabacco appoggiato sul ciglio della porta che dà su un vicolo. Gli passo accanto e gli chiedo intontita in che città ci troviamo. Lui mi sorride e risponde: «Lisboa».
Finalmente sono fuori e cammino di fretta per le vie scivolose di questa città. Ha appena smesso di piovere. Avanzo senza fermarmi. Attraverso vicoli, marciapiedi e strade; intorno a me c’è un chiasso assordante, le campane di una chiesa vicina suonano decine di din-don-dan. L’aria profuma di sale e penso che questo sia l’odore della mia libertà. Libera. Sono libera. Cerco l’Oceano. All’improvviso il rumore intorno a me diventa un tunnel arancione che si innalza fino al cielo. Posso sentire le nuvole collidere con gli uccelli e i loro frammenti schizzare come orecchi trasportati dal vento. Poi, tutto diventa ovattato. Il crescente tintinnio di migliaia di cucchiaini che fanno dling-dling-dling sui servizi da tè di mio padre mi fracassa il cervello. Sto per svenire. La volontà di sopravvivere non mi abbandona, è di fronte ai miei occhi, la vedo. È un cavallo bianco che mi dice di seguirlo. È l’insalata di cristallo che mi parla. È Tartar nello sgabuzzino buio di Lancaster. È la statua di gesso sul tetto della nostra casa. È la iena che sbava con le mie interiora. Sono un aereo in fiamme. Sono una pioggia di bulbi di tulipano. Un’automobile nera con il tetto verde si accosta ed io ci scivolo dentro come in un imbuto.


 

Beatrice Fagan nasce a Roma nel gennaio 1993, ha studiato relazioni internazionali e lavora nel campo dello sviluppo sostenibile. Nel 2021 crea la pagina @pellicoleromantiche, dove accompagna i suoi scatti in analogico ai versi che incontra nei libri. Collabora con Spinosa Magazine per cui scrive di donne in poesia e letteratura. Questo è il suo primo racconto.


In copertina: Leonora Carrington, Crookhey Hall

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