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Dicembre narrativo – La vita oscura della Scorpioncina, Federico Dilirio

Il nostro #dicembrenarrativo prosegue con questo racconto di Federico Dilirio. 
Scomoderemo a riguardo pochi versi di una poesia di T.S. Eliot:
(…) Ore difficili avemmo. Preferimmo alla fine viaggiare di notte,
Dormendo solo a tratti, 
Con le voci che cantavano agli orecchi, dicendo
Che questo era tutta follia. 

 


La vita oscura della Scorpioncina 

Se qualche mese dopo gli avessero chiesto come riuscisse sempre a cacciarsi nei pasticci, avrebbe risposto che non lo sapeva. Gli accadeva, ad esempio, di vedere una persona, una persona qualsiasi, e qualcosa – una sensazione che attraversava la spina dorsale – andava in frantumi. Questo però era prima, molto prima che scoprisse di non stare proprio bene, e che se ne andasse, lasciando tutti un po’ sgomenti.

Quando lei lo introduce lì, pensa: fa più freddo dentro che fuori.
Si sono incontrati in metro, ultima corsa della giornata, almeno per lui. Lei spiega che ha assemblato quella stanza da sola. Perché l’hai dipinta di nero? Sai, la luce, i colori. I colori la riflettono. Il nero l’assorbe, è quello che ci vuole. La stanza era una cantina, prima. Adesso è la camera nera, dice.
Non aveva svelato il progetto ad anima viva, ma si era presa l’impegno di metterla in bolla quella stanza. La muffa, vedi. Ho usato la candeggina, ho dovuto tenere la porta aperta, che però dà sulle scale, mica sul cortile, e usare una mascherina, perché non ci sono finestre, e anche così, quell’odore. Era inverno, faceva freddo. Tirava una bella arietta. Però la candeggina è una bomba.
Uccide le muffe. Tutte. Miracolosa. Ha ucciso qualsiasi essere vivente avesse mai strisciato lì dentro. La candeggina la uso anch’io. Ah sì, per cosa?.
Da quella prima volta nella stanza cominciano a frequentarsi. Niente di serio, eh. Lei si chiude dentro e quando lui passa a prenderla, finito di lavorare, la trova lì. A fare? Dipingo, è il mio hobby. Non ci ha mai visto una tela. Che avesse dipinto le pareti, quello era vero? Le crede sulla parola. Nero? Come no, my favorite color. Parli inglese come una madrelingua. La gente che entra nella camera nera si commuove, come mi sono commossa io, dipingendola. Passa molta gente? Per ora solo tu, per chi mi hai preso? È una sorta di esperienza religiosa vivere qui. Non posso trattenermi dal piangere, di tanto in tanto.
Quel giorno arriva portandosi dietro il freddo, panini smangiucchiati – panino in spagnolo si dice emparedado, dice lei – e un paio di forbici. Lei aggiunge che se le forbici appaiono al primo round la love story deve vincere per KO alla quarta ripresa. Lui non capisce: è solo una battuta, mica sono seria. Ride come se l’avesse capita, ma no.
Voglio uscire a cena, basta parlare, abbassa le forbici. E questa è lei, Scorpioncina fatta e finita. Lui dice che ha parecchie carte da giocare e che possono andare a prendersi bene, da qualche parte – a mettere le gambe sotto il tavolo, ad esempio –, se lo sono meritato. Lei finge di non aver sentito.
Copriti, o domani sarai bloccata a letto tutto il giorno. Lei si stringe a lui, aggrappandosi al braccio. Quale letto? Non abbiamo nemmeno un posto per scopare. Lui non sa cosa dire, è imbarazzato da questa raggelante verità, lei rincara la dose, spietata: Vorrei che non mi mentissi. La aiuta a sistemarsi il cappotto e scendono in centro.
«Hanno aperto un ristorante curdo, dove prima c’era la Conad».
«Parli di una vita fa».
Lui prende un kebab di montone, lei di agnello. Lui le chiede se è davvero il caso di mangiare un povero agnellino e lei, distratta: Che ti ha fatto il montone, perché lo discrimini? Non dicono altro per tutta la cena, solo rumore di mandibole. Crack, gnam, crack, crack, gnam: ossa che si rompono sotto i denti e che vengono deglutite. Dividono in parti uguali, ma il cassiere non batte lo scontrino.
La stanza nera è sotto zero. Prendono a baciarsi, anche, ma non solo, per scaldare la stanza. Nella salsa c’era un mucchio di aglio, la stanza puzza. Lui le infila una mano dentro e scopre che è pelosa (più bagnata delle volte precedenti, più pelosa dentro che fuori). Rimescola un po’ lì sotto, chiedendosi perché lei non faccia altrettanto – no, lei non fa altrettanto –, limitandosi a godere di quella specie di massaggio che il tizio si ostina a somministrarle. Contento lui.
Un filo d’aria circola per il nero della stanza, dissolvendo gli umori che l’epidermide secerne, colpendo la schiena nuda e sudata di lui. Che poi smette di massaggiare e vola fuori dalla camera nera per la toilette esterna. Sanitari neri, salviette nere, non è facile capire quale sia il lavandino e quale il bidet. Ma lui ha bisogno della tazza e alla fine si siede. Una benedizione che sia tutto nero, così non vede l’asse cosparsa di schizzi, perché quello è il bagno di tutto il quartiere, mica solo quello della camera nera. Sente scendere la carne a fiocchi, così morbidi e friabili che gli ricordano il Natale o la cenere che si deposita dopo un incendio. Si adagiano sull’acqua come fiori di loto. Trova la carta: nera, come la bandiera dei Raiders di Vegas. Si lava le mani col sapone nero e l’acqua nera sa di olio d’oliva ed eucalipto.
Lei è sotto il piumone anche con la testa. Quando si infila sente tutto appiccicoso, come se avessero rovesciato una cisterna di Vinavil. È in un bagno di sangue. Il sangue è nero, lo riconosce dall’odore che è sangue. Come gli occhi, come i capelli. L’aglio è svanito. Lui si riveste, controllando che il sangue non gli abbia macchiato la pelle, i calzoni (jeans neri) o la camicia (no, per fortuna non è nera, ma azzurra) ed è contento di constatare che ciò non sia avvenuto. Sente il rumore di un vetro che va in frantumi, viene da fuori. Si sbriga a uscire dalla camera nera. Non incontra nessuno. Esce nel parcheggio dove qualcuno ha lasciato la macchina con le portiere aperte: si sono fottuti l’autoradio. Così se ne torna da lei, non vuole essere incriminato per furto con scasso. E poi perché non gli risulta di aver ammazzato nessuno. Si chiede se non sia il caso di chiamare la polizia e confessare. Offrirsi per il poligrafo. Non chiamare l’avvocato, essere collaborativi. Potrebbe ripulire con la varechina, ma qui interviene lei perché lui ha il brutto vizio di ragionare a voce alta «Per quanto uno pulisca con la candeggina, il luminol riesce a individuare anche tracce cancellate. Ora vieni a letto, che domani ci alziamo presto e andiamo a cazzeggiare a Central Park». Lui non si fa pregare, anche se Central Park è dall’altra parte dell’oceano, e le deve essere arrivato il ciclo.
«Ti sei dimenticato che di notte, quando dormo con qualcuno che amo, me la faccio addosso dalla paura?». Devono poi risolvere questa cosa che a lei piaccia dormire in una stanza dove non ci sia nemmeno un filo di luce o un rumore dalla strada.
«Soffri di claustrofobia!», lui conferma al buio, sotto il piumone, pensa che sia così bello dormire al caldo, con una persona che ami, e lei deve aver cambiato le lenzuola quando lui era fuori, poi lo abbraccia. «Potevi dirlo prima che allargassi le gambe, che hai paura del buio».
Quando si svegliano lei balza fuori, dicendo che vuole fare colazione a letto a ogni costo e in poco meno di mezz’ora torna con due caffè, americano per lui, latte caldo per lei, tre cornetti – vuoto, con crema, con cioccolato –, un succo ACE per lui, alla pera per lei, una bottiglia di Ferrarelle (che a lui proprio la Ferrarelle, ma in latteria avevano quella). Meglio la San Pellegrino, amore. «Come mi hai chiamato?». Comincia a mangiare. «Qui ci facevo sesso con mio padre», lui quasi vomita il cornetto alla crema e bofonchia prima un «come?» o un «cosa?» ma non un «che hai detto?», lei annuisce e lui, dopo essersi ripulito la bocca, «mi dispiace», ma lei ribatte «lo amavo» e si dimentica della sera prima, lei si mette comoda e «mio padre fu sedotto ancora minorenne da una donna più grande, che altri non era se non la bidella. Immigrata anni prima, mia madre. Una donna intelligente, robusta. Nel paese natale era chirurgo, trovò lavoro nei cessi della scuola media e poi fu licenziata, conosci le privatizzazioni. Il marito era morto in un container nel viaggio di andata».
Uno sguardo come di comprensione da parte di lui, ma che agli occhi di lei è uno sguardo finto, da fesso, e «dopo la perdita entrò in depressione e mise su peso, diventando una specie di orchessa. Ho delle foto di lei da giovane. Bella come quelle dell’Est, ma dopo i trentacinque un camion a rimorchio. Aveva questo seno inopportuno. Con quello soffocò mio padre».
Lui trangugia il succo, chiede se può bere anche quello alla pera, lei gli fa segno come dire Che aspetti, l’ho preso per te e «lo fecero nel fienile, dietro casa dei nonni, e lei resta incinta, non dice nulla, ma poi mio padre lo scopre e “pretende le proprie responsabilità”». Una pausa, una golata di Ferrarelle sgasata, chissà da quanto tempo giaceva invenduta, e «I nonni denunciano mamma, che va in galera, esce solo quando nasco, ma non l’ho mai voluta vedere. La prigione è un virus letale». «Inutile che ti dica» continua «che mio padre era un pinguino. Avevo solo quattordici anni» lui deve alzarsi, cercare il bagno che non trova, uscire in strada e vomitare la colazione sul marciapiede. Qualcuno passa e alza gli occhi al cielo «Se questa è la futura classe dirigente siamo fottuti». Ha smesso di piovere, quando ha cominciato? Le strade bagnate, tira un vento. Trema. Si pulisce la bocca alla meno peggio con una pagina di giornale che trova in terra.
Torna giù, nella camera nera, e lei si sta vestendo. Può ammirarne i tatuaggi sulla schiena, sulle braccia, ovunque: farfalle, squaw, oblò, la cadillac con chiavi inglesi fumanti, una witch con sombrero, borchie e scorpioni, ancore e nodi da marinaio, tutto nello stile black traditional. Lui le accarezza la schiena e lei ha un brivido, mentre passa su tatuaggi non proprio guariti, può sentire distintamente che qualcuno è più spesso, come se il tatuatore ci fosse andato con la mano pesante.
Paiono più cicatrici che tatuaggi. Lui si sofferma su un ragno «Ti ha fatto male qui?».
«Ho pensato che potremmo uscire», infilandosi un maglione sulla pelle nuda. Non mette il reggiseno, davanti è piatta. È come se avesse due schiene.
Per un po’ camminano senza meta «Ti va se andiamo a piedi fino a Coney?».
C’è vento sulla spiaggia e il mare oggi è il suo nemico. Lui ha freddo e puzza di vomito, poteva lavarsi i denti, ma non l’ha fatto, e lei tace e lui pensa a sua madre e a suo padre. Sua madre gli ripeteva che lui non avrebbe mai combinato nulla nella vita e ora, che è chiaro a tutti che non ha combinato nulla, lì sulla spiaggia, con un mare pronto a triturarlo, mano nella mano con una ragazza piena di brutti tatuaggi, con ancora in bocca il gusto del vomito sul marciapiede, si chiede come facesse sua madre a saperlo, o se avesse deliberatamente sabotato la vita di suo figlio. Le famose profezie autoavveranti, le chiamano. Fa un respiro, sente un fremito senza sapere se è la primavera, il passato o la completa, totale, annientante certezza di essere un fallito. Si comincia a quell’età e non si finisce più.
Rivede suo padre, in piedi mentre sparecchia la tavola dopo cena, in quella topaia dove era andato a vivere, i creditori col fiato sul collo, non poteva permettersi altro. Lo vede chino sui piatti in quelle sere in cui lo andava a trovare, il padre che finisce i resti della cena, cucinata solo per uno, che fosse giusto così o no, che un po’ di dieta gli avrebbe fatto bene, un piatto di fave o di riso, ma il riso solo la domenica, ché non si butta via niente. E lo rivede con le spalle ricurve e la pancia, una pancia a piramide, tipica di coloro che non sono nati per essere grassi, ma lo diventano a forza di ingoiare fallimenti e trigliceridi, proteine neanche per sbaglio, perché i soldi finiscono in alcol, droga, troie, gioco. Forse avere avuto un padre alcolizzato sarebbe stato peggio, forse averlo avuto puttaniere sarebbe stato meglio. A lui non era andata né troppo male, né troppo bene.
Camminano fino a un ristorante dove era stato con una donna, non ricorda il nome. Prima di non farsi più vedere, lo avevano fatto sotto la doccia a casa di lei. Ricorda il bagno piccolo, e che lei gli aveva attorcigliato per bene i testicoli prima di sputare il seme sulla federa. E fargli capire che la serata era finita.
Ordinano senza essersi messi d’accordo la cosa che costa meno: penne panna e speck e mezzo di vino ghiacciato, che poi diventa uno perché cambiano idea e quel lusso possono permetterselo.
Finito il vino, usato per sciacquarsi di bocca il gusto del vomito, ma non esaurita la pasta, è preda di sudori freddi e qualche gorgoglio nella parte destra dell’addome. Si alza e va in bagno. Nonostante il bagno sia rotto e nessuno abbia cambiato la carta, si affloscia sul water e ci rimane più del necessario: in quella città non esistono bagni puliti.
Quando esce lei è sparita.
Il cameriere incrocia il suo sguardo «La signora se n’è andata, dopo aver saldato il conto». In quel momento porta la mano alle tasche: non ha più il portafoglio.
Non cerca di raggiungerla, gli duole l’addome. Non riesce manco a vederla: fuggitiva lei, cagone lui.
Lascia la spiaggia, se avesse il portafoglio prenderebbe il tram, anche se quel giorno, come tutti i festivi, ne passa uno ogni ora. Ma poi un capannello, qualche macchina ferma e l’ambulanza che sopraggiunge. Chiede alle persone cosa sia mai successo e nessuno gli risponde. Teste scure gli coprono la visuale. I barellieri trasportano un corpo: fate largo via dal cazzo non c’è niente da vedere. Una donna dice hanno investito una ragazza, era così giovane. Morta? Ha preso un colpo, un grosso colpo, non so. Ma com’era vestita? Il capannello si scioglie come la coda della tipa che gli sputò addosso il seme, non quella della federa, e chiede ai giovanotti se sanno come era vestita: i maschi scrutano sempre, soprattutto se la vittima è un po’ scosciata, per fare commenti fuori luogo, per lumare mutande o reggipetto. Chi ha detto che è morta? Nessuno si ricorda. Se qualcuno, dico se qualcuno sa in quale ospedale la stanno portando. Per colpa del padre, per colpa dell’indifferenza al racconto, perché lui aveva vomitato, perché da quando stavano insieme non faceva che cagare. A proposito che macchina l’ha investita? Dove è il pirata? Non c’è più nessun pirata, a meno di non considerare i Raiders di Vegas. A quanto pare l’investitore è salpato. E niente pronto soccorso, qui. Lo hanno chiuso tempo fa. Gode di ottima salute, se l’ha scoperto solo ora. Beato lei. Tagli alla sanità, investimenti dello Stato nel settore privato, aziende ospedaliere, capitalismo dal volto umano, ripresa economica. Dove si trova l’ospedale più vicino che accetta i ricoveri da incidente o un pronto soccorso? Una decina di miglia a ovest, si metta in cammino. Per la città sotto un’aria gelida e che fretta c’era benedetta primavera. Un freddo vinto dall’ansia che avanza, ed è finito anche il mal di stomaco e quel gorgoglio, e ha la bocca secca e il fiato ferroso, fanno male i denti (o le gengive?), stringere la bocca, chiedendosi perché lo abbia abbandonato lì per buttarsi sotto la macchina.
L’infermiera, piacente e sovrappeso, con boccoli rosa, apre lo splendido sorriso nel quale brillano i denti, sì che è stata ricoverata lì e in questo momento è in terapia intensiva, forse in attesa di essere operata, è un parente?, il fidanzato, non si erano mai detti di essere fidanzati, può dargli altre informazioni più avanti, ma solo se riesce a dimostrare di avere una minima parentela oltre al fidanzamento, va bene anche la ricevuta dell’anello, o la ricetta dello Xanax.
L’ultima volta in ospedale, quando è morta sua mamma. Un’altra squallida clinica. Vent’anni di governi – destra colpevole, sinistra complice – avevano reso gli ospedali letame. La sala d’aspetto era umida, come questa. Poco prima che lo portassero al commissariato. Accusato di averla lasciata morire, omissione di soccorso. I vicini testimoniarono delle loro urla continue. Sua madre cadde dalla scala, innaffiava piante sugli scaffali in alto. Lui, che allora vegetava in cameretta, ascoltando musica, con le cuffie. I primi album dei Maiden: preferiva senza dubbio l’omonimo. Non ci fu nessun processo. Di ritorno, con la candeggina ubriacò le piante. Quella casa era una foresta: fece una strage.
Si addormenta nella sala d’attesa, sulle sedie di plastica rosa. Svegliato dall’infermiera: lei è un parente? «Il fratello».
Il medico, troppo giovane per essere vero, troppo giovane per assumersi la responsabilità della morte di lei, dice qualcosa che non capisce, dice che ci sono complicazioni, che il trauma è più importante di quello che pensavano, che non sono attrezzati, le privatizzazioni, la politica, i governi di destra e quelli di sinistra, il volto umano del capitalismo liberal, il libero mercato, il mancato libero mercato, si precipita nella stanza, che non sa nemmeno che stanza, che poi si rivela non essere la stanza, e due infermieri sovrappeso lo sospingono, balene d’acqua dolce, a sedere su una sedia rotellata, e gli ficcano l’ossigeno in bocca e nelle narici, gli chiedono il nome, farfuglia prima e mente dopo, e dice che vuole vederla. I due pachidermi guardano il medico, che guarda lui, incroci di sguardi in ospedali scalcagnati, voltano la testa, una buccia di sudore scende dalle tempie di qualcuno. L’acneico lo accompagna nella stanza, che a quanto pare questa volta è la stanza, o almeno quella che si dovrebbe usare come stanza, dove vede la ragazza, che non riconosce, col lenzuolo che arriva fin sotto il mento, testa fasciata. Si intravedono le ciocche, come lucciole spente, che escono dalla fasciatura, come se le avessero piantato dei germogli, una specie di lavoro fatto in fretta, la fasciatura non è niente di che, una benda usata e frusta. Macchioline di sangue non suo, se ne accorge anche lui. Una cicatrice che percorre il volto, antecedente all’incidente, che si è fatta da bambina, forse atterrando con la faccia dall’altalena, spinta con foga, in alto, da un uomo che non era il babbo, forse il patrigno, forse un amico di mamma, forse lo ha fatto apposta, per metterla a tacere, procurandole un trauma. Ha bisogno di fumare, di prendere una boccata d’aria, e il medico e gli acciughini dovrebbero, visto il lavoro che fanno, notare la discrepanza tra fumare e una boccata d’aria, ma non si accorgono di nulla e lo accompagnano in cortile, per lasciarlo con i suoi demoni, e all’inizio lui lo valuta un cortile interno a uso e consumo degli inservienti, che so per buttare l’acqua sporca con sangue raggranellato dalla sala operatoria, poi scopre un’uscita che dà su un parcheggio, che dà su giardinetti, e si allontana senza dir niente, via, via dall’ospedale. Fiu, per un pelo. La morta, la ragazza con la cicatrice, non è la persona che sta cercando, brivido di felicità, la ragazza con cui ha dormito, con pessimi tatuaggi, che lui tratta come se fosse la fidanzata, anche se non è la fidanzata, e se ne esce con una risata esagerata, fragorosa, uno di quegli scoppi di risa che prima ti fa piangere e poi ti fa piegare, e quindi puzzando un po’ per la notte in bianco e con l’alito amaro, dopo non aver fatto nemmeno colazione, ma visto cosa è successo l’ultima volta meglio così, torna alla camera nera, dove lei si stava chiedendo che fine avesse fatto.
Al portone che dà sulle scale che dà sulla camera nera, suona il citofono, ma non gli risponde nessuno: qualcuno ha aggiustato il portone. Suona tutti i citofoni e qualcuno chiede Chi è, e qualcuno gli apre pensando al postino, e scende le scale e poi bussa.
Gli è venuta fame, una fame invidiabile, ma non ha soldi, nemmeno una moneta.

 


Federico Delirio nasce in una pasticceria, mille chilometri a sud di Amburgo, lo stesso giorno di Gilles Deleuze e di Kevin Costner. Deve alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, e al regista che la dirigeva in quegli anni, la sua formazione artistica e intellettuale. Sebbene si consideri un attore teatrale, è per sua fortuna apparso in qualche spot in TV. I suoi racconti, invece, sono comparsi su diverse riviste letterarie. Capricorno per sbaglio, Dilirio è il suo vero cognome.


In copertina: Photo by Yuji Watanabe

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