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Dicembre narrativo – Di Pietra Lavica, Andrea Tomaselli

Il racconto di oggi scava la pietra, e sprofonda nell’abisso che ci abita, perché non c’è esistenza che non abbia fatto i conti con la finitudine.
Questa è la storia di Toti e Iano e ce la racconta Andrea Tomaselli.

#dicembrenarrativo

 


Di Pietra Lavica

 

Apre gli occhi, Iano, e lascia che la luce metta in scena il presente, iniziando da se stessa: filtra a righe tra le liste legnose della tapparella. Una finestra, una porta, un tavolo, una sedia: tutto è solo in questo abituro, perché lui vive solo, tutto è di legno e corda perché lui il legno e la corda sa lavorare. Uno è pure il letto sul quale si solleva a sedere. Lo stomaco vuoto è un dolore poco inferiore alla vescica piena, ma Iano non abbocca più a simili urgenze; sono anni che disciplina i suoi bisogni, e sa benissimo quanto lusso sappia estorcere l’anima alle richieste del corpo. Così persiste con lo sguardo e finisce sui solchi che ha nella pelle, profondi il doppio di chi dal sole si nasconde, profondi come quelli di Toti. Pensa subito a Toti, appena sveglio, e non può essere altrimenti. Oggi è il suo giorno. Diversamente dai solchi di Iano, però, quelli di Toti non li hanno scavati l’acqua marina e il sole ma i suoi tanti anni.
Iano si tira su. Prende da terra la damigiana e versa l’acqua nel bicchiere sul tavolo, attento a non bagnare i libri. Beve. Poi prende un mandarino dalla cesta. Affonda il pollice alla base della buccia e la tira via a liste. Si infila in bocca ogni singolo spicchio, ne lecca la pellicola e poi la rompe coi denti, liberando nel palato la polpa granulosa e il suo sapore.
Fatta colazione, si infila tra le cosce il costume, si lega al polpaccio il coltello, alla vita la rete e il gancio, prende maschera e tubo, scioglie la porta dal fermo, ed esce nella riserva.
Scende verso il mare: alla sua sinistra la Timpa precipita giù, contraddetta soltanto da alcuni fichi d’india che tradiscono il collasso, con le loro palme erte verso il cielo, e il nero della pietra lavica, coi loro fiori bianchi; mentre scende, scatenando un fruscio di lucertole, getta un’occhio alla sua destra, all’Etna, maestoso sebbene lontano; ogni mattina lo sguardo che gli dedica è il suo modo di salutare Toti, che l’ha cresciuto, proprio lì in cima.
A una decina di metri dal mare, l’aria inizia a sapere di acqua salata e alghe, ed è quello il punto del sentiero in cui, ogni volta, Iano si riconosce. Ogni persona è fatta del luogo in cui vive. Negli occhi di Toti, in quei due tagli azzurri sul viso, Iano trova tutto il cielo che lui respira a tremila metri, nella sua voce la cenere di tutta la pietra lavica che negli anni ha scolpito. Così, questo misto di alghe e sale è divenuto l’odore della propria anima, e lui se lo assapora, fino a raggiungere la spiaggia.

Ha una grande, profonda ammirazione per questo mondo sottomarino di cui sa essere visitatore, non abitante. Con l’acqua che lo costringe dentro le sue orecchie, ascolta il sillabare delle proprie articolazioni, il lavoro dei polmoni che scorre lungo il tubo della maschera.
Non inizia subito la caccia. Ha sempre bisogno di dedicare tempo alla contemplazione. Lì sotto l’acqua muove a un andare inferiore. Le alghe vagano ai confini delle proprie radici. I corpuscoli trasportati in sospensione. La stessa rapidità, con cui passano i pesci, è rallentata dall’immobilità dei loro corpi, gli occhi ieratici, le bocche eterne. Tutto sembra sul punto di fermarsi, tutto incapace di finire. In questa vita frenata è la luce a tradirsi. Poligoni di sole scivolano rapidi sopra rocce e alghe, in un incastro luminoso in continuo movimento, con le linee d’intersezione dei tasselli che disegnano linee tremanti d’oro. Nei pressi di uno scoglio, che affiora in superficie, l’onda ne graffia la cima e la schiuma, in un’esplosione taciturna di bianchezza, gli si avvolge attorno.
Sazio, Iano raggiunge le vallate al largo, dove la luce si disperde e tutto, davvero, si ferma. L’azzurro cade in un blu scuro che all’orizzonte è ingoiato dal nero. Gli unici resti sono raggi, acuminati, che si assottigliano fino a sparire.
Chissà, si chiede, se oggi il mare sarà generoso. Ci sono giorni in cui è avaro, in cui l’unica preda da pescare è un cucciolo di polpo, non più grande di una mano: ma Iano rinuncia. Si ferma, qualche minuto, a giocare con lui, lo accarezza, si diverte a farsi succhiare i polpastrelli dalle sue ventose, e poi lo lascia andare. «Non si deve ucciderli quando sono così piccoli», gli aveva spiegato Toti, la prima volta che l’aveva portato a pescare. E allora adesso, in quei giorni lì, piuttosto digiuna.
Sempre Toti l’aveva dissuaso, quando si era messo in testa di vivere di pesca, dall’usare ritrovati chimici per stanare cernie o polpi, o le bombe per uccidere i pesci: «Inganni meschini che non rispettano il mare e le sue creature». E quando Iano gli aveva contestato che a seguire le sue regole non si poteva pescare abbastanza pesce per tutti, lui aveva risposto che forse erano gli uomini a essere troppi, non i pesci, pescati con lealtà, a essere pochi.
Così, Iano pesca solo il necessario a sopravvivere, e pochissimo di più, da vendere ogni tanto, per quei pochi soldi indispensabili a procurarsi ciò che col baratto non riesce, per andare avanti nei mesi troppo freddi.
Oggi comunque non è per sopravvivere, né per vendere. Oggi la caccia è dedicata ai regali che vuole portare a Toti.
Per gli occhi di bue, o le ostriche, bisogna immergersi spesso, difficile scovarli dall’alto. Dopo anni i suoi polmoni sono in grado di anche tre minuti d’immersione, durante i quali Iano, aiutandosi con le mani sulle rocce, scruta gli anfratti. Il tempo gli ha insegnato a intuire e se all’inizio si immergeva spesso, adesso scende con circospezione. È grazie a quest’istinto che più di un’immersione va a buon fine, e Iano trova ripetuta occasione di portare la mano al polpaccio, togliere il fermo al manico, sfilare il coltello dalla guaina, utilizzarlo. Si piazza davanti al frutto di mare, muovendosi il meno possibile, e, tenendola a debita distanza, indirizza la lama verso il pertugio che l’animale lascia aperto, tra il suo scudo e la roccia, per mangiare. Poi, con uno scatto della mano, infila la punta prima che il frutto riesca a saldare lo scudo alla roccia. A questo punto usa la lama come leva sullo scudo per scardinare la membrana del frutto dallo scoglio, e la sua rete si riempie di quattro occhi di bue e due ostriche.
Parecchie tane di polpi Iano le conosce a memoria, e le passa in rassegna. Niente. Allora scende cercandone di nuove: i resti di cibo che i polpi lasciano all’ingresso (scheletri di granchio, scudi di occhi di bue, conchiglie) sono gli indizi che lo guidano.
All’ennesima immersione, in un anfratto, ecco la vitrea scoperta di un occhio. L’insistita visione svela, nei millimetri attorno, la pelle maculata, le ventose, e infine la forma tutta di quel corpo aggrovigliato, che fino a un attimo fa era solo roccia. È una bestia di almeno due chili. Fingono indifferenza, sia Iano che il polpo, l’animale nella presunzione di non essere stato visto, Iano nella consapevolezza del poco fiato che gli è rimasto. Ritorna su, senza staccare gli occhi dalla tana, sputa via l’acqua dal tubo e riprende a respirare. Ha i polmoni contratti dalle continue immersioni. Deve allargarli, portarli alla capienza massima. Nel frattempo afferra il gancio e libera l’uncino dal sughero che ripone dentro il costume. Ora è pronto. Si riempie i polmoni del massimo d’aria possibile e va giù. Il polpo si è ritratto in parte nella tana, e si è portato davanti un po’ di pietre. Lo spazio per agganciarlo, però, ancora c’è. Iano avvicina l’uncino. Lento. Lo inoltra alla destra del polpo, che arretra di un poco ancora. Adesso l’uncino è nella posizione giusta, il polpo si è fermato, e… via: Iano prova a piantarglielo in corpo. Ma il polpo è veloce. L’uncino aggancia la parte terminale di un tentacolo ma la strappa. Il polpo si rintana sollevando una nuvola di sabbia. Alla cieca Iano infila il gancio nella tana, e ne tasta i rientri. Sente, a un tratto, la mollezza che cercava e con un colpo di polso tenta l’aggancio. Ce l’ha, lo sente! Ma non viene fuori. Il polpo aderisce con tutti i suoi tentacoli alle pareti della tana. Nei polmoni c’è troppa aria, il corpo tende a risalire, allora Iano ne butta via. Adesso è più stabile ma di fiato non ne resta molto. Cerca un perno migliore, sulla roccia, con la mano libera, e col dorso trova un riccio, sente gli aculei entrare, ma non perde la concentrazione; il perno adesso è buono e facendo leva su quello strattona il gancio con tutta la sua forza e lo tira fuori con la preda. Si abbandona alla risalita, dandosi il tempo di compensare; di colpo sente uno strattone: il polpo si è aperto a raggiera, per opporre resistenza, e adesso è come trascinarsi dietro un grosso secchio pieno. Iano spinge, forte, con le cosce, spinge finché non ritrova la superficie e finalmente l’aria. Una volta a galla, estrae l’uncino dalla carne del polpo, che gli si avvinghia fino al bicipite. Iano lascia il gancio, che affonda all’istante, per avere tutte e due le mani libere. Il polpo è grande, e la stretta al braccio inizia a fargli male. Si strappa di dosso i tentacoli nei punti più dolenti, mentre l’animale inonda di nero l’acqua. Ma Iano non ha bisogno di guardare, conosce a memoria quell’anatomia e a poco a poco raggiunge con le mani la testa. Infila l’indice e il medio di ogni mano nelle due sacche sotto gli occhi, porta i pollici alla sommità della testa e la rivolta con violenza. A quel punto può strappare via il cervello e il polpo muore di colpo, lasciando ai tentacoli l’inerzia di una forza residua. Iano tira via le ultime ventose e infila il polpo nella rete. Poi torna giù a recuperare il gancio.

Una decina di minuti per risalire dalla spiaggia, il tempo di cucinare il polpo, e Iano già si prepara per il viaggio.
Dietro casa lo aspetta la Scuzzaria. Iano toglie il cavalletto, sale in sella, pesta il pedale dell’accensione, dà gas e parte.
Toti, da giovane, l’aveva battezzata così perché andava più lenta di qualsiasi altra vespa.
Quando lui si è ammalato, non potendo più scendere al mare, l’ha data a Iano per salire a trovarlo. E in uno di quei viaggi a due ruote che Iano ha conosciuto Vena. Sono mesi che Toti lo prega di tornare a farle visita. Ma Iano si ostina a non farlo. Ha paura del bacio che Vena gli ha dato tra i filari delle sue vigne: paura che quella ragazza gli chieda di lasciare la riserva, la sua vita, la sua solitudine. Paura di se stesso, che non sappia dirle di no.
Toti è proprio quello che vorrebbe: andarsene non sapendolo da solo.

A Viagrande la vegetazione si infittisce. Da lì la strada sale verso Fleri, Zafferana, Milo, e poi i paesi hanno fine e gli indizi umani quasi svaniscono. Le ultime persone che Iano incontra sono tre muratori sul tetto di una casa, che montano le tegole a torso nudo. Iano supera l’azienda che fa vino padronale dove Toti andava spesso, e lo portava con lui, nelle cantine, in quell’odore di legno marcio e vino.
Per primi scompaiono gli alberi, poi i cespugli. La lava inizia a essere dappertutto, rocce aguzze in un deserto antracite, e solo le ginestre a macchiare di colore il nero. Ancora due curve ed eccola.
Il cancello è aperto, come sempre, e, sopra le due colonne, i cigni di pietra lavica sembrano fissare Iano più malinconici del solito.
Iano percorre, sulla Scuzzaria, il sentiero che porta alla casa. Lo sterrato è abitato da altre statue, tutte scolpite sulla pietra vulcanica, statue che Iano conosce bene. La sirena coi denti aguzzi, i cirnechi, i mostri marini, gli angeli bendati, le serpi, le aquile dal volto di donna, le metamorfosi arboree. Da piccolo ha trascorso anni a parlare e giocare con loro, e quando qualcuna se ne andava, ché Toti la vendeva, Iano piangeva come un matto.
La Scuzzaria rallenta, Iano spegne il motore, si avvicina a piedi.
Toti è lì, a scolpire. Si tratta di un pezzo di basalto picchiettato a due colori. Una tartaruga grande quanto Toti. Per terra il martello da taglio e la polka. A colpi di subbia Toti sta rifinendo la testa. Per Iano guardarlo lavorare è sempre stato un privilegio. Quando arrivavano i pirriaturi, col camion, a portare un blocco di schiuma dalle miniere, per Iano era una festa, perché significava che da lì a poco ci sarebbe stato un altro amico. Mentre Toti lavorava, lui si divertiva a indovinare cosa sarebbe spuntato fuori dalla roccia. «Quello è un naso!», urlava, «Quella è una coda!», «Un’ala, un’ala!». Da ragazzo gli piaceva osservarlo. Quando Toti iniziava a lavorare, non esisteva più niente e nessuno. Un terremoto avrebbe potuto aprirgli la terra sotto i piedi, e lui avrebbe continuato a scolpire mentre precipitava. E Iano gli girava attorno, fantasticando di essere invisibile. Crescendo aveva iniziato ad apprezzare il silenzio mistico di quell’operazione, sottolineato dai colpi di scalpello sulla pietra, che rimbombavano nella valle che si affacciava sul cratere centrale.
Adesso, più che altro, a rapirlo è l’espressione da posseduto che Toti ha mentre scolpisce. «Il mio demonio», lo chiama Toti. «È lui che scolpisce, io mi presto». Da quale abisso misterioso Toti prenda le immagini che ricava dalla pietra resta incomprensibile per Iano. Sono abissi altri rispetto a quelli da lui conosciuti, di altre dimensioni.
«L’ispirazione non si sceglie» ha sempre detto Toti, «Come venire al mondo, come morire». La settimana scorsa, invece, tornando alla carica con Vena, «L’artista che non crea» lo provocava «è un eretico, come il corpo che non ama».
Ancora un ritocco di subbia e lascia il viso della tartaruga con un’espressione soddisfatta, gli occhi chiusi. Non c’è dubbio che ha finito. Anche se non lo vede in volto, Iano lo capisce da come i muscoli delle sue spalle si abbandonano, le sue braccia e le sue gambe si svuotano di quella tensione demoniaca che li ha posseduti fino a un secondo prima. Quando Iano è arrivato ha trovato un Toti non troppo diverso da quello che ha sempre conosciuto. Ma adesso che ha finito, il suo corpo torna d’improvviso quello di un vecchio malato, che a stento si regge in piedi. «Dovevo finire ieri sera, ma ormai sono lento» dice rivolgendosi a Iano, come se fosse giunto in questo momento. «Meno male che ce l’ho fatta», aggiunge, e si asciuga il sudore in fronte con un fazzoletto. Poi una luce negli occhi e gli chiede: «Hai trovato qualcosa?»
«Un polpo, occhi di bue e ostriche» risponde Iano, fiero.
«Un ultimo pranzo da re!» esulta Toti. «Ho dei limoni fenomenali».
Iano non lo sa, dove lo trova quest’entusiasmo, in un giorno del genere. Ma, d’altronde, come fa a non sorprenderlo un uomo che l’ha cresciuto amandolo più che se fosse stato davvero suo figlio.

Sono sazi adesso, sotto il pergolato. Dell’insalata di mare e del vino. È quasi il tramonto. Se il tempo potesse fermarsi adesso, e in eterno, pensa Iano, Se avessi il mio Genio e un unico desiderio, sarebbe questo. E per un attimo ci crede: crede davvero che possa farlo, che se lo vuole davvero, disperatamente, può accadere.
Ma sa, nel suo cuore, che non è quello che vorrebbe Toti che infatti si alza, gli dà le spalle e guarda il vulcano.
«Ti ho lasciato un paio di lettere per dirti cosa fare delle opere». Poi si volta e lo guarda dritto negli occhi, «Andiamo dai, portami sulla luna».
E Iano sa che è arrivato il momento.

Per quasi vent’anni Toti se l’è portato dietro sulla Scuzzaria. Oggi è Iano alla guida. Si lasciano alle spalle tutta la strada che un mezzo può percorrere risalendo il vulcano.
Adesso davanti a loro c’è soltanto un deserto di sabbia nera. Dune che salgono verso il cratere centrale. Il colore della terra dà sull’amaranto, per via del sole che sta per andare. È un paesaggio familiare a entrambi, ma stavolta non sono qui per inseguire le farfalle, o per scovare le coccinelle sotto le pietre.
In principio Iano aveva provato a dissuaderlo. Aveva accennato all’eventualità di un dottore, di una cura. Toti aveva risposto severamente. «La conservazione è un’attività noiosa, miope. Il mio atteggiamento nei confronti della vita è sempre stato di dedizione totale. Mai stato a metà. E mi dedicherò senza mezzi termini anche alla morte. Ormai i dottori non servono».
Iano gli aveva ricordato le tante volte in cui proprio lui aveva condannato il suicidio. «Il mio non è un suicidio. Accettare il ritorno a tutto è una buona morte. Non spezzo nulla, non tradisco nulla, assecondo il finire, scegliendo dove e quando».
Sul vulcano, oggi.
Iano vorrebbe chiedergli come. Se ha una lima in tasca, se pensa di lasciarsi crepare di fame, di buttarsi dentro un cratere (ne sarebbe capace). Ma non glielo chiede. Lui non gli risponderebbe, e allora meglio dedicarsi all’altra domanda che ha da fargli. È difficile, ma non appena Toti accenna a un abbraccio, ecco che Iano la fa.
«Mi devi dire una cosa».
Toti non vorrebbe, a questo punto, prolungare l’addio, ma ascolta.
«Io ti invidio lo sai. Sono sempre stato geloso della tua vita, e anche adesso sono geloso di questo. È che ho paura, che per me non potrà essere così. Ho paura che con te se ne vada un mondo. Che non riuscirò a vivere alla nostra maniera per sempre, che prima o poi il progresso mi trovi. Ho paura che prima o poi scoveranno anche i cantucci di mondo dove io e te abbiamo vissuto e inizieranno ad abbatterli, a costruirci sopra, a riempirli di cartelli e scritte luminose. E poi, io che cosa faccio?».
Ecco, l’ha detto. Avrebbe voluto lasciarlo da uomo, mostrandosi forte, come lui. Ma aveva bisogno di dirglielo. Un’ultima volta, bisogno di lui.
E Toti, anche questa volta, c’è.
«Il progresso, Iano, è sopravvalutato. È soltanto un modo, sempre nuovo, per allontanarci da noi stessi. Nessuna tecnica può progredire veramente, se non siamo noi a regredire. Tieniti i tuoi sogni, le tue emozioni, mantieni la promessa che mi hai fatto… e niente potrà minacciarti».
Gli dice questo e lo abbraccia. E Iano piange. E anche Toti piange ma nelle lacrime di Iano.
Poi si volta, e diventa una schiena che si allontana nel crepuscolo che ridà alla lava il suo colore originale. Si allontana, e si prepara a scomparire dietro la prima duna.
E mentre Iano lo guarda, legge in quel piccolo corpo lo splendore di un destino. È stato meno di un attimo nella storia dell’uomo. Eppure, per chi come lui è educato ai bisbigli dell’esistenza, la presenza di Toti è sfuggita al frastuono della durata, e si è liberata.
Toti scompare, e l’ultimo pensiero di Iano in sua presenza, ancora una volta, è una domanda: Come farò a dare al mondo quello che lui mi ha dato?.

Iano e la Scuzzaria scendono. Alle loro spalle il nero stacca il vulcano dal cielo stellato. Tutto il ritorno è un attimo, rapido come il vento che gli stira la faccia. Come il pensiero che lo accompagna fino a casa, un solo lungo pensiero riavvolto su se stesso: di lui, di Toti, della promessa che gli ha estorto durante il pranzo: tornare da Vena.
Lo farà. Gliel’ha promesso e lo farà.
Ma prima deve vincere la paura.
Così, una volta a casa, si affaccia sul precipizio e guarda il mare lì sotto. Questa è la notte, si dice. Stanotte sente di poterlo fare. Per attaccarsi addosso quella promessa, prima che l’aria la porti lontano. Così si spoglia, si guarda, si trova, e inizia a correre. Corre giù, per il sentiero, con in corpo la forza inevitabile di questa terra che dal vulcano precipita al mare.
Le onde sono serene, e tutto il mosso che il mare non ha, lui ce l’ha nel cuore. Raggiunge la riva. Non è la sua acqua, quella del giorno, che sa ospitarlo, che lo nutre, che lo accoglie. Non è il mare della luce. Questo è il mare di un cieco. Il mare di cui ha sempre avuto paura. Ma stanotte basta. Si tuffa, nel buio, e l’istinto è di tornare indietro. Ma il primo coraggio è già lì, indelebile nella sua anima. E allora avanti, e nuotare, e dare schiaffi all’acqua, che in questo buio muto sembrano richiami da pazzi per tutti i mostri del mondo. E ogni metro è un morso che non arriva alle gambe, ogni metro un tentacolo che non lo afferra, un morire che non c’è. Finché è a largo, finché si ferma.
Lascia che l’acqua, intorno a lui, smetta di ripetersi. Lascia che il suo corpo si annulli, che lui scompaia. E allora, finiti i confini, non c’è più paura.
Quando sarà il momento, verrò qui a morire. Nessuno mi troverà. Nessun peschereccio, nessuna imbarcazione della guardia costiera, nessun elicottero. Che ripeschino pure il mio cadavere, che facciano del mio corpo ciò che vogliono, che lo reintroducano a forza nell’ingranaggio moderno. La mia anima sarà già lontana, sarà passata di mare in mare e avrà ripreso la forma degli abissi e del sale.
Così, immerso a largo, e nel suo pensiero, si volta verso la spiaggia da cui viene e, oltre la terra e le colline, in quel momento Iano la vede: una colata lavica che taglia la notte.
Toti era partito, Toti era tornato, con la velocità delle grandi anime.


 

Andrea Tomaselli
nasce a Catania nel 1972. Lì si laurea in Lettere moderne con una tesi su Danilo Dolci. Vive a Torino dove lavora alla Scuola Holden come docente di scrittura, drammaturgia e regia, e negli istituti professionali come docente di Lettere.
Ha pubblicato il racconto La peste dell’anno uno (Feltrinelli, 2014), il libro di poesie Versi erotici nel deserto (Eretica edizioni, 2023), il romanzo Bodies, trilogia del poliamore (Eretica edizioni, 2023). Regista dello spettacolo teatrale La Crepanza dei Maniaci d’Amore.
Ha curato regia e sceneggiatura dei lungometraggi Zooschool (2015) e Kyo (2019).


In copertina: artwork by P. Benny

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