Di Annachiara Atzei
C’era e c’è. C’erano alberi e prati e grilli: un mondo intatto, di scintille e di nomi. Poi, il rovesciamento. Un angelo precipita dal cielo a sputarti in bocca un destino. E resta il niente nella stanza: tu e tutto l’oro che daresti per far cessare la sofferenza. Da un tempo e un luogo che guarda e, forse, giudica, Laura Recanati ci conduce nelle corsie di un ospedale, nell’opacità delle sue pareti, tra le lenzuola e i farmaci.
Lo fa nella raccolta di poesie Il mondo intatto, pubblicato all’interno della nuova collana Apnea, diretta da Giuseppe Nibali per Mar Dei Sargassi.
In questo perimetro, si gioca la partita contro sé stessi. Una partita fatta di domande e di mancate
risposte in cui l’io poetico fa lo sforzo di riconoscersi al di là della malattia. Nella risalita dal dolore, si cimenta in una scelta: tu o tu, tu o l’esiliata, tu o la gemella oscura: “Al dolore bisogna dare retta/ lasciargli fare il suo mestiere/ creare il giusto spazio in cui/ si possa molto muovere”, scrive la poeta: è in esso, infatti, che avviene ogni trasformazione. Come per Hegel, secondo cui lo spirito si conserva nella contraddizione e nella sofferenza, lo stesso sperimenta Recanati lasciandosi attraversare dagli eventi negativi che interessano il corpo e che spesso esondano da esso per poi spingere nuovamente e ritentarne l’ingresso. Non solo. Il percorso verso l’accettazione di quanto intimamente accade è sempre uno stare senza percorso dal dubbio e dal senso di colpa. Probabilmente, è proprio dalla dimestichezza col dubbio che derivano i testi di Laura Recanati, dall’averlo continuamente praticato, quasi con ossessione. Allo stesso modo, nascono anche dalla congiunzione con un sé profondo, risultato di una scarnificazione, di uno sgombero, di un accantonamento di ciò che impedisce il ritrovarsi che si rivela, a un certo momento, necessario. Allora, il lancio della moneta, la cui immagine qui ricorre di continuo, non è un gioco ingenuo o infantile – non è tentare il caso – ma il simbolo di un’opzione obbligata di salvezza. La moneta, cioè, concede solo due possibilità alternative: “tieni questa moneta, lanciala in aria./ Se è testa muori tu, se è croce muoio io. / Non possiamo vivere entrambe”, dice l’autrice.
Ma nel libro ricorrono anche altre metafore o simboli: le oche – come nella Roma stretta d’assedio dai Galli di Brenno nel 390 a.C. – presagio sacro di morte o salvezza, e il colore bianco: del latte, dei camici delle infermiere, dei visi dei pazienti che sono come confetti. Questi elementi dai contorni definiti e ben distinguibili in quanto oggetti materiali rimandano a qualcosa di nascosto, di non esplicitamente detto che invita – o costringe – il lettore a trovare i molteplici piani del significato in essi racchiuso e che, talvolta, rende i versi perfino misteriosi.
Forse si tratta di un indizio di rinascita. Forse, in questa contaminazione di bianco e di nero, nel confondersi dell’alba con il buio notturno c’è – o può esserci – in fin dei conti, un sentimento di speranza: “Un giorno scopriranno il mio male. La foce/ da cui la tormenta il leviatano e i miei giganti/ dolori sono venuti. La spaccatura/ un giorno si illuminerà”.
Ma come accedere alla luce? La poesia può essere soglia di una nuova o diversa esistenza? Sì, se è anche strumento di indagine della propria conoscenza e coscienza. Sì, se è vero che ha origine nel dilemma. Sì, se è una maniera – dopo l’arrivo, strato dopo strato, fino al nucleo – per fare spazio a una nuova sé. In questa operazione, non c’è egoismo o solitudine. La zona di interesse della scrittura di Recanati è più vasta di una supposta vicenda soggettiva e si proietta sull’altro, per condividere con quest’ultimo l’elaborazione dell’angoscia e della mancanza. Quando la poeta traccia le sagome di esseri umani piegati dalla vita, si intravedono altrui debolezze e altrui sorti: c’è chi cammina per la città vestita di paillettes, chi deve nutrire le sue slot machines, chi cerca la morte ai bordi della strada o dentro i fossi. “Scrivo in prima persona per essere sicuro di essere ancora vivo” – fa dire Georgi Gospodinov in Fisica della malinconia al tormentato protagonista della storia che è affetto da empatia – “Scrivo in terza persona per essere sicuro di non essere solo una proiezione del mio proprio ego, che sono a tre dimensioni e possiedo un corpo”: sembra, questo, il medesimo intento del lavoro di Recanati, che può essere anche letto come un test di immedesimazione e di sensibilità nel vedere oltre l’orizzonte personale.
Se così è, non resta che chiedersi, insieme all’autrice, se per tutti – al di là dell’afflizione e delle difficili prove che possono presentarsi – si può ipotizzare un’altra chance, un altro cammino, un’altra luce. Se permanga, per ciascuno, ancora un mondo intatto.

Cinque poesie da Il mondo intatto (Mar Dei Sargassi, 2024)
C’erano alberi, un tempo
dove ora svettano questi palazzi
c’erano prati.
Non conosco la loro storia, non so
di quale chiarore risplendessero
se anche loro qualche volta avessero paura
del mezzogiorno quando viene
e sfiata la luce sulle superfici, le inchioda
a un’apparenza senza mai nominarle.
Non so se per questo ci fossero grilli
e intessere nodi scorso i e fili d’erba.
Di quel tempo, qui, rimangono le aiuole
di quel tempo, qui, rimaniamo noi
che proviamo a scorticare la visione.
Ma nominare il prato non cura
la nostra malattia.
Il mondo ci guarda di rimando. È intatto.
Scintilla la sua pelle dura.
*
Non c’è niente in questa stanza.
Ci sei solo tu. Che boccheggi,
che bevi latte. Che giochi
con una piccola moneta.
L’aria sgocciola bianca dal soffitto
e quando cade tintinna
come una piccola moneta.
Ti chiedi se ci sia un modo
per porre fine a tutto questo.
Poseresti adesso il tuo oro
sulla bilancia, tutto il tuo oro
per fare smettere.
Provi molto dolore.
*
Al dolore bisogna dar retta
lasciargli fare il suo mestiere
creare un giusto spazio in cui
si possa molto muovere
spostare i calzini le canottiere
far piazza pulita, lasciarlo
acciottolarsi dove deve
predisporre tutto per i suoi salti
i suoi buchi nella terra, i suoi cunicoli
le zampate che graffiano
le codate che sbalzano
attrezzarsi in anticipo per quando
dovrà partorire altri cuccioli di pianto
io prometto per tutto questo
scarnificarmi per tutto questo
sgomberarmi, per le vene squarciate
per gli organi traslocati per
la radura e la sepoltura
per tutta questa me accantonata
in un angolo io prometto.
*
Un giorno scopriranno il mio male. La foce
da cui la tormenta il leviatano e i miei giganti
dolori sono venuti. La spaccatura
un giorno si illuminerà.
Sarà per caso.
Sarà l’esploratore
che giungerà distratto. Senza
latitudine longitudine coordinate bussole mappe.
Forse sperduto
inciamperà col piede e con le mani tese
spolvererà la terra, scaverà scaverà
ed ecco
la cicatrice dissepolta.
Ecco
la piccola chiave dorata
da inserire nel marchingegno
per continuare a non capire.
*
Non ci sarà memoria di noi.
Non verremo seppellite
con una campanella nella bara.
Le nostre teste rotoleranno come mele nella bocca dell’oblio.
*
In copertina: Ernst Ludwig Kirchner, Albero rosso sulla spiaggia, 1913, olio su tela, cm 75×100, Collezione privata

