Domanda e risposta: due entità complementari, eppure l’una genera l’altra, in un interscambio potenzialmente infinito, mai esausto, mai uguale a se stesso. La sintesi dell’incontro, il binomio preferito della conoscenza. E della curiosità.
“Intervista” è solo il nome che ne racchiude l’atto e l’intenzione ma, in questa rubrica, protagonista sarà il dialogo – l’incontro – lo scambio.
Esseri umani che hanno una visione e che si sono imbattuti nel proprio labirinto personale. Perdersi significa anche attraversarlo. E magari raccontarlo.
Creatività, arte, progetti, riflessioni, esperienze e uno sguardo rivolto al futuro, in quell’orizzonte magnetico che è la parola.
Giulia Bocchio

Una Babele elettrica di simboli, immagini e rumore di vetri masticati: Semiotica notturna (Pequod), una raccolta poetica e concettuale frutto del lavorio mentale ed estetico di Cristina Eléni Kontoglou, è un’opera che, attraverso un metaforico processo alchemico della parola, evoca visioni e scenari che sono possibili solo in una moderna e misteriosa metropoli deserta; fra le sue serpentesche strade tutto si confonde, umano e artificiale condividono gli stessi tramonti e gli stessi orizzonti di senso. Non è un immaginario sottrattivo questo, ma una versione del presente in cui ogni linea temporale non insegue una coerenza, ma solo l’ombra del desiderio.
G.B: Se dovessi trasfigurare in un’immagine queste tue poesie, raccolte in Semiotica notturna, prenderei in ostaggio una metropoli distopica e semi deserta in cui le luci al neon ondeggiano in maniera intermittente, come allucinazioni, o sinapsi. E in questo buio elettrico, fatto di organi e materia, qualcosa ci permette di tornare all’ancestrale. Ma non si sa bene cosa, perché tutto è pura percezione dei sensi. Da dove nasce questa tua semiotica?
C.E.K.: Hai colto bene l’immaginario e l’atmosfera della raccolta, dove si susseguono luci, fluorescenze e neon, distopismi che richiamano un’estetica vaporwave – penso a Chunking Express, ai film di Araki, ai due Blade Runner o alle fotografie di Todd Hido – quella corrente artistica che rievoca l’anemoia, la nostalgia per un vissuto solo immaginato o incompiuto. È questa la sensazione che lascia il libro. La mia semiotica proviene in linea diretta dalla prima raccolta Volturno Arcano (Eretica edizioni, 2023) dove la ricerca dei fantasmi attraverso la dimensione ancestrale e tra le rovine costituiva il tema portante. In Semiotica notturna, nata nel corso di un’estate trascorsa nella città deserta, l’ancestrale viene ricercato più in basso: non più nella natura ma tra la materia dei corpi e delle metropoli, entrambi pulsanti degli stessi influssi. La materia, scissa nelle sue particelle di graffi in lurex e buio porpora, viene progressivamente sublimata nella seconda delle tre sezioni (Sublimazione) che compongono la raccolta: i testi poetici vogliono condurre autore e lettori in una dimensione – quella della Trasmutazione (terza sezione) – che va oltre la natura contingente e le pure impressioni presenti nella prima sezione (Materia). I sensi in questo processo sono la sola guida, l’unica certezza. Un esempio è il tatto, che si ritrova in più versi: la nostra pelle è percorsa da innumerevoli recettori che moltiplicano la nostra soggettività, come gli occhi per gli insetti. Si può concluderne che i sensi ci moltiplicano all’infinito, smentendo la nostra percezione monolitica e unitaria del sé. È una semiotica persona fatta di codici e simboli, di associazioni e suggestioni che nascono dalle città in cui ho vissuto, dai club, dai negozi che chiudono al tramonto, dalle “porte traschiuse” sulle strade, dal cielo notturno falsato dalle luci artificiali. Queste città si sovrappongono alla mia metropoli immaginaria, un non luogo atemporale simbolico in cui la materia è personificata e l’individuo è oggettivato. Non mi interessava elevare l’uomo in un discorso consapevole, ma sintetizzarlo, frammentarlo, farlo pura percezione. Dal contatto tra noi – materia fatta di percezioni – e la materia inorganica scaturisce il ritrovarsi, il ritorno all’ancestrale che deve passare necessariamente per le impurità basse della materia.

G.B.: Processo alchemico della parola: tre sezioni Materia, Sublimazione e Trasmutazione. La materia è qui protagonista: dal cemento all’ardesia, passando per il cloro. Fra naturale e artificiale sembra non esserci più una netta separazione, tutto sembra confluire in un flusso ibrido. Un corpo che pulsa, non importa se al posto delle vene ci sono cavi elettrici…
C.E.K.: Esattamente, non è un caso se un componimento si intitola Transumano e fa riferimento agli innesti artificiali traslati anche per i sentimenti. Niente è solo quanto appare. Nella semiotica lo studio si incentra sul σημεῖον, il segno, e sui processi di significazione, dove ogni cosa presente rimanda a qualcos’altro di assente: è così che viene vissuta qui la materia naturale e artificiale. Per arrivare a un effetto simile disloco i campi semantici, ovvero decontestualizzo un elemento e lo sposto in un campo semantico che non gli apparterrebbe; il fine è creare nuove associazioni e uno straniamento che evoca immagini possibili: un palmo aperto diventa una mappa di strade; le persone sono assimilate a pietre; i petali dei fiori alla carne; lo zenit nell’orizzonte del cielo diventa la linea di un termometro che si frantuma; il cielo, vinile che si liquefa sul cemento; le parole vetri, mentre il vetro, all’opposto, pelle screpolata. Non si tratta solo dei simboli o di quello che rivestono, ma di cosa possiamo farne di questi simboli, di come combinarli in modo che tutto sia connesso in un gioco di specchi. La materia naturale siamo noi e i comunemente detti materiali naturali, ma se anche le città e la materia artificiale sono create dall’uomo, devono contenere inevitabilmente un’anima simpatetica, perché nel crearla l’uomo non può privarla delle proprie imperfezioni e fascinazioni. Nella prima sezione troviamo come titoli i materiali, testiamo le loro potenzialità, li tiriamo, li modelliamo. Nella seconda, invece, passiamo appunto al processo semiotico e alchemico della sublimazione, descriviamo i processi e saliamo verso un’astrazione, una spiritualità della materia: qui i titoli contengono già evocazioni, combinazioni. Nella terza sezione e ultima tappa alchemica, composta da una sola prosa poetica, siamo all’ultimo stadio, quello in cui la materia, elevata, scomposta e processata, arriva a dissolversi nell’essenza, una forma di anima che ci corrisponde.
G.B.: Ci sono alcune di queste poesie che potrebbero trasformarsi in installazioni d’arte contemporanea, penso a Platino:
Le parole dopo il tramonto sono
vetri di bottiglia masticati,
suppurano liquidi ambra
negli angoli dei perdoni sventrati
si attardano sul fondo
delle scatole di fiammiferi
mentre gli asfalti
appena ritoccati il giorno
debordano sulla costa al tramonto (…)
Il vetro che suppura ha qualcosa di ipnotico: un solido amorfo che, però, assume proprietà quasi biologiche, e l’ambra arriva a ricordare il pus. I versi in qualche modo riflettono un’immagine tanto evocativa quanto astratta: liminale e concettuale. Qual è il tuo rapporto con l’arte contemporanea?
C.E.K.: L’arte contemporanea è un tassello fondamentale nella mia formazione, la studio da quando frequentavo i corsi universitari. Dalla body art all’arte povera, alla minimalista e alla process art, colleziono monografie e seguo le nuove evoluzioni; tuttora se devo uscire scelgo un’expo di arte contemporanea – è un’arte che mi somiglia, abbiamo un codice simile. Hai parlato di neon e di luci, e la luce è un elemento presente nei miei versi, penso a Eliasson e agli artisti che lavorano con gli effetti atmosferici, o alle videoinstallazioni di Jenny Holzer, con le sue scritte lungo le metropoli. Amo molto anche John Baldessari, Vincenzo Agnetti, Seokmin Ko, Barry Le Va e Kounellis. Mi affascinano inoltre le installazioni sit in specific perché nascono da uno studio dialogico con il luogo, il che è ancora diverso dal prendere dei quadri e inserirli in un museo, puoi certamente controllarne gli allestimenti, le luci. Ma un’installazione richiede un’abnegazione e un rispetto del luogo prescelto, solo a partire da questo, in un processo inverso, si arriva alla creazione. È una forma di umiltà che dovrebbe essere praticata a ogni livello, l’osservazione e la sensibilità richiesta sono inediti. Il mio modo di scrivere parte appunto dall’arte, dall’osservazione del mondo, perché qualche anno fa fotografavo e ho fatto alcune expo, quindi osservavo e mi annullavo prima di scattare. Tale processo, trasposto nella scrittura, conferisce quel potere evocativo alle immagini che le rende istantanee anche artificiali, dai colori freddi, come i versi che hai citato sopra. In secondo luogo penso alle parole come a qualcosa che posso flettere, bruciare e ricomporre, per poi studiare cosa ne esce, come Burri faceva per le sue Combustioni. Perseguo una scrittura in dialogo continuo con l’arte in tempi in cui i settori sono ancora molto separati; anche la scelta, per la copertina, del fotografo Francesco Sambati, che ha partecipato al volume Polaroid, Now (Editori Steve Crist., Gloria Fowler 2021) è un segno: mi piacciono le collaborazioni interdisciplinari. Lo scorso anno abbiamo girato un corto tratto dal mio secondo libro (Agrimonia, Fallone editore, ndr), con un regista contemporaneo e soundscaper che ha lavorato per il Maxxi. Non mi stimola quello che è già dato per come lo conosciamo, ma la collaborazione, il possibile e quello che c’è dietro al visibile.
G.B.: La poesia, per me, è la versione più misteriosa del linguaggio. Non capirò mai se è istinto o intuizione profonda o se, semplicemente, è una crasi impossibile fra questi due momenti. Tu che ne pensi…
La poesia, come dici tu, è una crasi impossibile, come tale infonde un enorme potere in chi scrive, un potere che può essere arrogante, un’arroganza positiva, che succede alla prima fase dell’umiltà e dell’osservazione: indipendentemente dal contenuto, scrivere poesia può dare una sorta di dipendenza perché permette di creare l’impossibile, modellare mondi, accostare gli opposti, non devi attenerti a una struttura razionale, e in un periodo storico in cui la razionalità quotidiana è accentuata, sviluppa aree mentali lasciate in secondo piano; anche solo la ritmica, l’eufonia, immergono in uno stato ipnotico simile a una forma di meditazione. Se dovessimo spiegare la sua insondabilità utilizzeremo quel verso biblico in cui Mosè domanda ad una voce: «Tu chi sei?». E la voce risponde: «Io sono Colui che sono». Oggi si tende a considerarla come una forma espressiva fragile, delicata, che non intinge le mani nel torbido del mondo, ma è un errore: la poesia è sovversiva, contempla un seme di violenza perché va contro il potere e il compromesso collettivo, riconduce alla coscienza fantasmatica; è il momento in cui l’Io entra in contatto con l’Archetipo, direbbe Franco Loi, con il Mistero che abbiamo dentro. Nella quotidianità che esige una coerenza con sé stessi e il prossimo, chiarezza e leggibilità, questo Mistero è un’eresia. Rompe il patto concordato, parla agli strati inconsci dell’uomo, al sogno, è fortemente liberatoria. Non devi rispettare una barriera dell’illusione, perché è già inscritto nel patto con il lettore che quello che leggerà è irreale, dunque più vero del reale. La poesia è un rimedio omeopatico che lavora ad alte diluizioni, ovvero in profondità e nel tempo: una volta che hai letto una poesia, anche se non lo sai, la tua visione del mondo è mutata per sempre.
Infinite quest
Una rubrica a cura di Giulia Bocchio
In copertina: Leonor Fini, Le bout du monde II

