Uscire dal corpo – di Simone Sciamè

Poi dice che sta morendo.
Indossa una bandana con la trinacria. Era una donna dai fianchi arabi, le rotule che quasi si sfioravano, le cosce gonfie, bucate dalla buccia d’arancia, le vene varicose in rilievo. Straduzze di sangue e bivi che si intrecciavano. Quelle, almeno, sono rimaste.
I capelli neri sotto la bandana sono scomparsi. I ricci sono diventati ciuffi lisci increspati. Corde d’argento su un vecchio violino. Poi sono caduti mese dopo mese, lavaggio dopo lavaggio. Chemio dopo chemio. Un veleno che ti salva, mi dice, non esiste. Me lo diceva già anni prima, quando ero ancora un bambino con la GHD, troppo basso per la sua età, troppo debole e, diciamocelo, con il dubbio innominabile che potesse crescere effemminato. In paese questo dicevano a nonna Violante prima che le diagnosticassero il male, prima che diagnosticassero a me, qualche anno dopo essermi rotto il ginocchio alzandomi dalla sedia, l’ipocalcemia.
Basta lu ventu che suscia e lu mari ti porta luntanu, mi diceva davanti a Gaspare, facendomi vergognare come un cane. Abbiamo sfidato agosto. Vogghiu iri all’acropoli, mi ha detto. Le dico che con i polmoni che ha, dovrebbe evitare tutte quelle scale. Spugne d’acqua di catrame.
«Secunnu tia, picchì mi chiamarunu Violante? Il mio non è un nome, è un verbo» dice accendendosi una Merit, alternando il filtro giallo della sigaretta e la maschera dell’ossigeno allacciata alla bombola.
«Tu, piuttosto,» continua, «te la firi cu ‘sti ossa fragili?»
Al villaggio Catalano il caldo non conosce pietà. Abbiamo insistito tanto, io e mia sorella, per installare il deumidificatore. Ma lei è vissuta nella polvere della terra rossa, con il selciato bruciante del centro storico del paese. La prima volta che il nonno Enzo l’aveva portata a comprare un paio di scarpe, era andata a piedi nudi.
Non sono cresciuta viziata, e nemmeno l’aria che respiro deve esserlo, ci ha detto.
«Me la sento» le dico.
E quando saliamo in macchina, nell’abitacolo scotta il volante. La leva del cambio scorticata, senza gomma plastificata. Si è portata dietro l’odore del fumo, della magnolia e del melograno. Lo scirocco agita gli arbusti e i canneti. Gli artigiani, i superstiti, boccheggiano dietro le saracinesche delle botteghe. I randagi riposano spelacchiati, macilenti, all’ombra delle auto parcheggiate. Dall’alto, il mare è una coperta smeraldo macchiata da cespi di alghe scure di posidonia. Il puzzo del porto è lontano e non ci raggiunge. Una signora riversa un catino d’acqua e candeggina sull’asfalto.
«Viri se trovi parcheggio. Io scinnu ‘cca» dice quando leggiamo l’insegna dello Zabbara.
«Va bene, ma non ti muovere»
«Dunni mi n’agghiri?»

Ogni scalino che scendiamo, ogni passo dosato che procede sulla sabbia, è un atto di rispetto verso la fine della vita. La spiaggia è abitata dai corpi. Corpi giovani e desiderabili, bagnati di sale. Leggeri, come io non sono stato mai. Noi siamo l’orma più pesante sulla sabbia. Nonna Violante trascina da sola la bombola. Fatti aiutare, la imploro, ma lei fa volare uno schiaffo sulle mani. Si voltano, i corpi giovani, senza vergogna. Non conosco nessuno di loro, io. Io, che sono giovane come loro, sono uno sconosciuto che si sente più vicino alle rughe di nonna Violante che ai bronzi sudati di olio che giocano a racchettoni, che fanno cadere la pallina quando ci vedono passare.
«Sotto l’acropoli. Ddà vogghiu iri»
E camminiamo sulla sabbia che brucia più del carbone vivo, fino a quando il promontorio non ci fa ombra, fino a che il tramonto si imbarazza dietro le colonne greche. Muta la pietra, muti noialtri. Apro la sedia sdraio per lei, stendo la tuvagghia per me. Si sfila la maschera dell’ossigeno e sto per chiederle che cosa stia facendo, quando mi interrompe con un gesto della mano. Si avvia strisciando i piedi verso l’acqua, che è un foglio trasparente in movimento. Provo a seguirla, ma mi fa sciò con la stessa mano. Sulla schiena, si allarga una chiazza di sudore oltre il tessuto del vestito fiorato. È rimasta la carne olivastra, i piedi gonfi e puntinati dai nei, i segni della cicatrice dopo l’intervento al ginocchio. Le nostre ferite sono parenti.
Con un gesto lieve delle dita, si scioglie il nodo alla bandana. La lascia cadere sul bagnasciuga. Sono nient’altro che fili di cotone, ciò che è rimasto dei ricci. Raccoglie l’acqua con le mani a cuppino, se li versa sulla testa bianca, a chiazze grandi come crateri. Il sale brilla sulla superficie del mare. È un tramonto solitario. Solo un paio di francesi in cerca di conchiglie e di granchi tra le insenature degli scogli. Maschere appese ai gomiti. Con una meccanica interrotta, nonna Violante si libera del vestito.
È un corpo nudo e finito, che grida morte e libertà. Ciò che rimane dei tessuti è avvolto attorno alle ossa. Della donna che era a vent’anni, è rimasto solo lo spirito. Violante diceva che lo spirito sopravvive al corpo, che il corpo è involucro, che prima è sceccu, che ti porta dove vuoi, che sostiene il peso, e dopo è balata.
I passi nell’acqua le fanno sparire le gambe. Lo smeraldo si inghiotte nonna Violante fino alla piega del sedere. La schiena è una linea confusa e stanca.
«Nonna, non ti allontanare»
Lei sorride prima di far sparire il corpo da settantenne nuda sopra gli scogli nascosti.
Il volume della sagoma non muove una sola onda. Esiste solo se la nomini.
Rantola e tossisce, prima di dire:
«L’acqua è broru».
Nonna Violante lo sa. Sa che Gaspare era l’unico bambino con cui avrei voluto giocare, prima di scoprirmi cresciuto, fino all’infanzia scaduta. Sa che quando me lo prendevo per la maglietta e lo strattonavo, non era per manifestare la mia forza, per vincere una lotta. Non avrei potuto, perché Gaspare era forte e gentile, più alto. Io ero vincibile, sotto il suo sguardo. E io volevo essere vinto.
Sa che avevo detto a lui, per primo, che non mi piaceva Vanessa, Diletta o nessun’altra. Perché a me piaceva Gaspare. Eravamo in acqua, sotto un tramonto che era simile a questo. Gaspare aveva ascoltato quella confessione impacciata e liberatoria, dopo essere riemersi. Gliel’avevo detto prima sotto la superficie, ma il suono era ovattato, serrato nell’imbuto che era il nostro orecchio reso sordo dall’acqua. Glielo avevo ripetuto dopo essere riemersi, fuori dalla pressione delle bolle, sfondate e sparse, attorno a noi. Eravamo ancora in acqua, con i ciuffi schiacciati, scomodi e comici, con il sale che gocciolava dalla punta del naso, dai lobi delle orecchie, dalle labbra fresche e giovani, quando lui mi aveva fissato dritto negli occhi e, nel pulpito di un’attesa breve che si era spalmata, avevo capito che Gaspare non mi amava. Ero ancora in acqua dopo il pugno sul naso, dopo che mi aveva rotto il polso, perché non avevo osato dirglielo in tutti questi anni, perché avevo scelto proprio lui come destinatario. Come avevo potuto avvicinare la fragilità, la pelle traslucida e pallida, i miei occhi grandi e vuoti, a lui.
Piangevo e vedevo il sangue distinguersi dall’acqua. I pesci sparire, la paura restare.
«Hai ancora paura dell’acqua?»
Nonna Violante dice che dopo vent’anni, l’acqua non può fare paura. Perché prima o poi, ognuno deve tornare a sentirsi leggero.
Poi dice che sta morendo, ancora, e che il tempo non è più alleato, ma padrone.
Quando esce dall’acqua e si passa una mano sulla testa, con le dita si districa i capelli che le sono caduti. Torna a sedersi, nuda. Il sedere bagnato che manca d’attrito sulla sedia sdraio. Una coppia di bambini tornati da un’escursione, la indicano e ridono. Fanno bleah. Lei si china sulla borsa, ne tira fuori il pacchetto di Merit. Si accende una sigaretta. Dà un colpo di tosse, rimedia con la bombola d’ossigeno. Poi torna a fumare.
Le onde del mare sono una felice assenza. Si alza una leggerezza con l’aria, che mi riguarda da vicino. Porta con sé un invito e un lontano ticchettio, una scansione del tempo che forse è un monito interiore, un ingranaggio tra le ossa. I grani della sabbia si rinfrescano sotto le dita. Aspira ancora accanto a me, nonna Violante. Vorrei violare anch’io, per una volta. Uscire dal corpo e annusare l’acqua del mare senza sentire il ferro.
«Mi fai fare un tiro?» dico a nonna Violante.
«Giuse’, ti mittisti a fumari?»
«Mai fumato».
Le tolgo dalle mani la maschera dell’ossigeno. Aspiro una lunga boccata.
Mi abbandona la cautela e aspetto, dentro di me, l’urgenza.
Tuffarmi è un atto di rottura. Ne esco intero.
Torno sulla spiaggia e nonna Violante dice che è ora di tornare a casa.

 

 

 


Simone Sciamè è nato ad Alessandria il 4 settembre 1993. Ha curato una rubrica di recensioni di libri per Radio Gold. Ha pubblicato le raccolte di racconti: Erotica liquida (Edizioni Effetto, 2023) e Sentirsi al singolare (Another Coffee Stories, 2023). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste letterarie come Topsy Kretts, per la quale è editor e scout.


 

In copertina: artwork by Gertrude Abercrombie


 

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