La lettrice – di Cristina Eléni Kontoglou

Isabelle fa sistemare gli ultimi mobili sul retro del furgone. È stata l’unica ad aver risposto all’annuncio. La carta da parati a motivi damascati e cremisi riverbera un’aura dorata sul parquet scuro, ora che la stanza è vuota. Ci sediamo in veranda prima che riparta. Le offro un vassoio di cioccolate artigianali e dell’infuso di ibisco, lei si passa tra le dita un cioccolatino alla scorza di arancia, attende senza assaggiare, lo osserva.
“Dalle mie parti questo vale come uno stipendio” sorride. “Il cioccolato mi ricorda una storia.” Controlla gli uomini  che  trasportano con cura ogni pezzo, eseguendo i suoi ordini. Uno dei due è giovane, le labbra chiare e sporgenti, le sopracciglia scure, la pelle lucida tesa sui tendini visibili; l’altro è più maturo, i baffi accennati e rasati casualmente, una maglietta con la scritta di un autonoleggio. Si muovono in silenzio.

A Cuba c’è una donna che legge il futuro e il presente nelle conchiglie cipree, simbolo della creazione animale e selvaggia, portale verso gli antenati per la forma sacra che richiama l’orecchio, l’ascolto. Impiega il cauri o ciprea moneta, una conchiglia il cui guscio serviva un tempo da moneta. Le persone vengono anche dall’estero per incontrarla. Casa sua è un’abitazione modesta, ordinata con pochi accessori, al limite dell’indigenza. Chiede cinque pesos: non accetta banconote di taglio diverso, non le riconosce, per lei quello che non ha mai visto non ha nessun valore.
La ragazza italiana si era presentata una mattina alla mia porta. L’ avevo scortata fin laggiù solo perché era stata lei a pregarmi. Portavo i capelli lunghi, non come oggi. La pelle di chi scende a Cuba solo poche volte l’anno, di un sabbia opaco placcato: era facile riconoscermi. Doveva essere una mia coetanea, cercava una traduttrice che la accompagnasse dalla donna che legge il Diloggùn, il sistema di divinazione locale. Non tornavo in quella casa da anni, ma aveva insistito tanto che avevo finito per accettare.
La donna aveva disposto le conchiglie sul tavolo. Dopo averle estratte da un sacchetto in pelle le aveva lanciate in aria per farle ricadere sul panno sacro, un rettangolo di stoffa con su scritte lettere dell’alfabeto e numeri, alternati a foglie stilizzate, fiori, linee e altri elementi della tradizione indigena. Aveva percorso con il dito il guscio, la disposizione, studiato la posizione in cui erano atterrate, contato quelle coperte e quelle chiuse, cioè con la parte concava verso il basso. Nessuno sa leggerle tutte, servono dei santeros esperti, che sappiano come trattare gli spiriti dopo il tramonto. Sono conchiglie speciali, all’interno nascondono un simbolo dipinto, falce, occhi, astri e trifogli. Vengono raccolte dalla spiaggia prescelta tra quelle rivolte a est, in una notte di luna crescente, e lasciate al buio in un sacchetto insieme a un anello in nichel, al sughero e a una zolletta di zucchero Demerara all’aroma di melassa. La santeria nasce dal sincretismo tra cattolicesimo e tradizione yoruba, gli spagnoli accusavano gli schiavi di non venerare abbastanza Dio a favore dei loro santi. Esistono altri sistemi di divinazione a Cuba: il Biague, con la polpa di cocco su cui leggere le letras – i responsi o situazioni –, che possono risultare totalmente o parzialmente affermativi o negativi in base a quanti pezzi di cocco sono caduti dalla parte della corteccia, a scoprire la polpa. E l’ekuele, una catena fatta di cocco, gusci di tartaruga, semi e metalli. Le cipree rosate e nivee dalle venature verticali, invece, somigliano a genitali femminili, è questo a renderle desiderabili, sacre. La lettrice aveva contato le conchiglie disposte verso l’esterno, le concave e le convesse, due di queste rivolte a destra.
“Tu sei qui per restare incinta.”
La ragazza era impallidita, da anni cercava di capire il perché ancora non ci fosse riuscita. La lettrice aveva lanciato in aria un’altra manciata di conchiglie.
“Non sei rimasta incinta perché qui ci sono vizi, dipendenze.”
“No”, aveva replicato l’altra.
“Allora i vizi e le dipendenze sono di tuo marito.”
La ragazza scuoteva la testa.
La lettrice aveva raccolto le conchiglie per rimetterle al loro posto.
“Non accetto di farmi prendere in giro dalla straniera, andatevene.” Si era alzata per accompagnarci alla porta, ma la ragazza l’aveva fermata.
“Qualcuno che ha delle dipendenze lo conosco… Lavoro in un Sert da diversi anni, è il servizio pubblico per le tossicodipendenze.”
La donna si era seduta di nuovo:
“Lei ha assorbito tutte le energie negative degli altri, e le ha dirette qui”, mi diceva toccandosi la pancia. “Qui dentro ha una massa da togliere.”
“Una ciste”, la ragazza aveva intuito il gesto. “Devo togliere una ciste.”
“No”,  la donna aveva scosso la testa mentre raccoglieva le conchiglie dal panno. “Non una ciste, un grappolo di cisti.”
Poi, di nuovo rivolta a me: “Non avrà mai figli.”
La lettrice aveva serrato le labbra scure, percorse da una linea bianca di contorno lucido, il gesto mi aveva persuaso a omettere l’ultima informazione.
“Che altro dice?” la ragazza si spostava sulla sedia, inquieta.
“Nient’altro” le dissi.
“Aspetta…”, la donna aveva toccato con urgenza il braccio alla ragazza che non capiva il gesto, mentre intercettava il nostro sguardo preoccupato. “C’è altro per te. Tu hai un parente che lavora nella polizia?”
“Mio fratello, lavora per il programma protezione testimoni. Io e mio marito siamo sotto protezione da quando lui ne fa parte, cambiamo casa continuamente…”
“Riceverai qualcosa. Un pacco, un grande pacco che parla la lingua del fuoco.”
La donna non sapeva come fosse fatta una bomba, non guardava la televisione, non era mai uscita di casa: aveva visualizzato nella mente l’atto, il fuoco, il rumore dell’esplosione e il fumo. Descriveva senza emozione.
“Ora ti do qualcosa che ti proteggerà. Dovrai piantare uno di questi semi in un vaso fondo di terracotta, esporlo al tempo e ai venti cinque notti di seguito per poi spostarlo in casa in un posto che dovrai dimenticare.”
Le aveva messo nella mano dei semi, insieme a un amuleto con due pernici blu incise su un medaglione di agata, simbolo di malizia, aveva spiegato la lettrice, perché la pernice si adatta a ogni stagione.
La lettura era conclusa, la straniera stava estraendo un’altra banconota, ma da venti pesos. La fermai subito, la lettrice non l’avrebbe mai accettata. “Non soldi, la cioccolata. Qui ha un costo proibitivo. Comprale del cioccolato.”
Ci eravamo allontanate dalla casa azzurra del Pueblo Embrujado, come veniva chiamato il villaggio di Guanabacoa per le tradizioni di santeria, poco dopo il tramonto, l’ora in cui dalle cucine del quartiere si alza l’odore del platano per i tostones, da asciugare tra i fogli di carta e accompagnare con delle mariquìtas.
Il giorno seguente, alla lettrice era arrivata una cesta di cioccolate di diverse varietà, alcune non sapeva neppure esistessero. Cacao delle tenute di Baracoa, immerse nella foresta pluviale, dove ogni sentiero è ricamato di piante fiorite e more essiccate al sole. La fabbrica era stata fondata da Guevara, e da allora i prodotti erano stati esportati nel mondo per la qualità degli ingredienti. Cacao tostato o al platano caramellato, al caffè forte. Nella cesta c’era anche del Chorote: molti cubani lo assaggiavano ai matrimoni o in altre occasioni importanti, una sfera densa preparata con frutta di cacao secca unita a latte di cocco, farina di manioca, mais o banana, grattugiata in una tazzina di caffè. L’ avevano vista abbracciare la cesta come se si fosse trattato di una persona, poi il sorriso le si era ricomposto sul volto in uno sguardo impersonale, prima di richiudere a chiave il dono in una credenza.

Una mattina di primavera di diversi mesi dopo, la ragazza italiana, era già tornata nel suo paese, un borgo ai piedi delle montagne lucane, aveva deciso di uscire per comprare delle uova, un progetto derogabile. Era stata lei a rintracciarmi, in seguito, per raccontarmi cosa era accaduto quel giorno. Aprire, chiudere a chiave la porta, mettere in moto la macchina, gesti insulsi inseriti in uno spartito di pause.  Al ritorno la vicina l’aveva chiamata dall’altro lato della villetta, dove un cancello di ferro lasciava spazio alle scale di ingresso e alle foglie indiscrete di strelitzie.
Le aveva detto che un uomo era venuto a chiedere di lei mentre era fuori, cercava la ragazza che abitava in fondo alla strada. In braccio teneva un pacco piuttosto grande. Lo sguardo, era quello ad averla preoccupata, non aveva uno sguardo normale… E le era venuta in mente una scusa, non sapeva da dove le fosse uscita, non era lei ad averla pensata. Non aveva fantasia, glielo dicevano tutti. Gli aveva raccontato che non vivevano più lì.
L’uomo si era allontanato. Aveva preso a calci la terra a ridosso del marciapiede, dove la pioggia aveva lasciato mucchi di foglie marce di fango, prima di risalire su un furgone e mettere in moto senza una parola.
“Ho fatto bene?” aveva chiesto la vicina, confusa dai silenzi.
La ragazza aveva chiuso gli occhi per il sole di mezzogiorno, senza ombre a confondere le intenzioni, e aveva immaginato qualcosa che era accaduta solo nella mente di una donna di Guanabacoa. L’aveva sentita anche cantare, quella donna, fuori dalla porta:

¿Donde está la Ma’ Teodora?
Rajando la leña está. Con su palo y su bandola.
Rajando la leña está.
¿Donde está que no la veo?
Rajando la leña está,
Rajando la leña está… 

La straniera aveva ringraziato la vicina di fretta, e una volta in casa aveva cercato il medaglione, l’aveva trovato nel cassetto delle stoviglie. Ricordava fossero blu le pernici, così le era stato consegnato, animali d’agata immersi in un blu lapislazzulo. Ora apparivano nere, una fatiscenza pestata e virata al verde, come le monete di rame lasciate nelle piante per farle perdurare. Avevano assorbito il colore del fango all’esterno dell’appartamento, il male delle case nel quartiere. Quel male che scorre diffuso e caldo nelle tubature di ferro delle fondamenta.

Sono seduta sulle scale della veranda mentre Isabelle termina il racconto, esita un momento prima di scegliere dal piatto un ultimo cioccolatino, al liquore di amarena. I mobili della vecchia camera sono stati caricati sul furgone, lei scambia poche parole con i ragazzi, immagina come starà la toeletta in radica nella sua stanza. Da questo lato della palazzina il sole è ancora troppo forte, l’ho sempre pensato: servirebbero le bouganvillee e un gazebo, come quello del giardino di fronte. Una lucertola percorre i mattoni rossi, la sua è l’unica ombra sulla distesa di chiarore, una macchia imperturbata.
Le labbra si distendono lungo linee profilate di netto, sulla fossetta sopra il labbro superiore di Isabelle, dove la pelle resta più chiara al riparo dalla luce. I denti bianchi ora sembrano grigi per il riverbero della parete alle spalle. Fantasmi di pulviscolo e luce percorrono il porticato di vigne. Si alza per dare direttive. Mostra ai due ragazzi come incartare gli specchi, prima di caricarli sul furgone. Lo fa spingendoli di lato, accantonandoli come se fossero parte del mobilio, vecchie ante. Loro eseguono in silenzio, in soggezione.
“A Cuba gli uomini siedono al bar fino a notte fonda” spiega. “Passi, e trovi tutti questi uomini disimpegnati come mosche. Penseresti che siano uomini, quelli? No… sono insetti. Gli uomini non sprecano il tempo a bere e a parlare del nulla.”
La guardo salire sul posto accanto al guidatore. Ci salutiamo, prima che lei riparta verso San Benedetto.
Un affare, impensabile, nessuno avrebbe voluto comodini in avorio e marmi neri africani come quelli. Solo una ragazza cubana, abituata al gusto dei mobili in palissandro e alle traforature, ai rilievi intagliati e foderati di sisal e seta.
Mentre salgo le scale, vedo sullo scalino di marmo rosa un medaglione nero. Lo raccolgo, distinguo delle pernici dipinte, allungate e intagliate in curve bizantine. I profili galliformi e le linee differite in dettagli e geometriche incursioni. La prima cosa che veniva insegnata alle pernici appena nate era nascondersi. Che fossero rosse, bianche o coturnici, selvatiche o di allevamento, questo non avrebbe fatto differenza. Era l’istinto di chi non vuole essere trovato o cercato, neppure dalle lingue di fuoco degli estranei, dai cocci che esplodevano in pezzi fuori dai cortili, nel ronzio dei silos del porto. Le avevo immaginate così durante il suo racconto, di un nero vite con tracce di terra d’ombra. Equivocabili come la realtà, che non sa di essere un’aberrazione nella memoria. Indiscrete, come gli occhi di Isabelle. Le restituisco l’oggetto prima che parta.
“Lo perdo sempre.”
Non le chiedo perché lo porti lei, adesso, e se sia lo stesso medaglione. Lo so, non mi dirà mai come ha conosciuto la lettrice, perché frequentasse la sua casa anni prima, cosa sia successo per non tornarci.

 


Cristina Eléni Kontoglou, italogreca, vive a Firenze dove ha studiato conseguendo la laurea in Lingue e Traduzione. In Italia sviluppa la passione per la fotografia, di cui diventa studiosa e parte attiva quando da street photographer partecipa a mostre personali e collettive con il secondo nome Eléni. Suoi racconti compaiono su riviste tra cui Minima e Moralia, Calvario Magazine, Micorrize. 


In copertina: artwork by Julia Soboleva


 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.