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Amore, silenzi e attese nei ritratti proletari di Claire Etcherelli: Élise o la vera vita

Di Alice Pisu

 

A distanza di cinquantasette anni dalla sua prima uscita, torna in libreria Élise o la vera vita, l’esordio di Claire Etcherelli salutato da Simone De Beauvoir come “una voce di donna di una precisione indimenticabile”, valso il Prix Femina (1967) e il film omonimo di Michel Drach presentato al Festival di Cannes nel 1970.
Rilevante cogliere il legame indissolubile tra arte e vita in Etcherelli, l’urgenza di riconoscere nella scrittura uno strumento di denuncia sociale capace di travalicare l’esperienza personale per dare forma a una creazione estetica dalla forte valenza politica. Come la protagonista del suo primo romanzo, Claire cresce orfana. Figlia di un portuale fucilato durante la Seconda guerra mondiale, frequenta un collegio cattolico a Bordeaux per poi abbandonare gli studi, sposarsi e dedicarsi alla scrittura. Il grande cambiamento da Bordeaux a Parigi che caratterizzerà il suo romanzo accompagna anche la vita della scrittrice, che due anni dopo la nascita del primo figlio inizia a lavorare in una catena di montaggio della Citroën, per poi trovare impiego come operaia presso un’altra fabbrica. Solo a distanza di qualche anno, con un lavoro diverso e ritmi meno faticosi, riuscirà a occuparsi della stesura di Élise o la vera vita, riscontrando enormi difficoltà nel trovare un editore disposto a pubblicarlo (sarà poi Denoël). Il riconoscimento ottenuto nel 1967 aprirà la strada agli altri due romanzi dalla marcata valenza sociale, dedicati alla violenza contro le donne (À propos de Clémence, 1971), e al racconto del proletariato sullo sfondo della guerra d’Algeria (Un arbre voyageur, 1973).
In Italia, dopo la prima edizione per Feltrinelli nel 1968, il romanzo d’esordio di Etcherelli non venne più pubblicato. Si deve a L’orma l’intuizione di riservare attenzione (con la nuova traduzione di Anna Scalpelli) a una voce letteraria atipica, da cui Annie Ernaux dichiarò di essere stata influenzata nel ridefinire il proprio modo di scrivere.

 

 

Al centro dell’opera le vicende di una giovane, orfana, cresciuta con sua nonna e suo fratello Lucien sperimentando l’indigenza, le ristrettezze economiche, la dignità della sopravvivenza.
“Non ci perdemmo nemmeno un bombardamento, neppure una coda davanti alle drogherie”.
Le descrizioni di un quotidiano all’apparenza ordinario generano ingrandimenti che compongono un dolente ritratto sociale degli anni Cinquanta. Le attese e i sogni di Élise per larga parte della sua giovinezza sono rivolti a Lucien, che ben presto si rivela uno spirito intemperante, un intellettuale dallo sguardo acuto, cinico e disincantato, venerato nonostante il cocente egoismo e il disinteresse per i sentimenti altrui, una mente brillante capace di crudeltà e opportunismo.
“Mi ero abbandonata poco a poco a una devozione scrupolosa, quasi severa, della quale traevo tutta la mia felicità. La nonna, ormai, aveva perso la sua autorità; ci aveva insegnato le preghiere, il significato delle parole “peccato” e “sacrificio”, ma la sua fede, e cioè tutta la sua filosofia, poteva ridursi a una sola frase che ripeteva spesso: “Il Buon Dio ha un grande mestolo e serve tutti quanti”.
Al disallineamento degli equilibri famigliari, già segnati dall’ingresso della moglie di Lucien – una giovane donna dimessa, piegata ai voleri di un marito indolente – contribuirà l’abbandono di Bruxelles per la partenza per Parigi, vero spartiacque nel romanzo. Parigi rappresenta un riscatto possibile, un luogo fertile per fomentare la rivoluzione, seguire le cause dei diritti, sensibilizzare sulle centinaia di migliaia di morti in Algeria, porre l’attenzione sulle condizioni inumane di vita e di lavoro del mondo proletario. Mosso da tali ideali Lucien – che credeva che Parigi avrebbe “ringhiato, ma Parigi aveva solo starnutito” – inizia una nuova vita di cui finisce per fare parte anche sua sorella.
Élise prende consapevolezza per la prima volta del significato del sentirsi protagonista del proprio tempo, nella fatica del lavoro in fabbrica, nell’amore travolgente per l’operaio algerino Arezki destinato a fare scandalo, nel confronto con il peso del classismo e del razzismo nella metropoli.
La prosa di Etcherelli rivela picchi di intensità tra slanci lirici improvvisi nel narrare modi di vivere accesi da ideali che possono rivelarsi utopistici ma che nel consumarsi in fretta mostrano il senso di un’esistenza perseguita sulla base di una mancata accettazione e una necessità di sollevare istanze e generare insurrezioni. Le figure che sfilano sulla pagina sono rese nella complessità e nelle incoerenze delle loro convinzioni, a partire da Henri, intellettuale borghese che esorta l’amico Lucien a non lavorare per pensare a questioni politiche, mostrando così di non conoscere i risvolti dell’indigenza, sino ad Anna, vicina affettivamente a Lucien, definita come una scenografia, una “struttura abilmente allestita, una menzogna, un’illusione”, una “gigantesca fantasia che vede se stessa come non è e costruisce se stessa come si vede”.
A rendere Élise o la vera vita un’opera di particolare originalità è l’attenzione rivolta a una moltitudine di lavoratori e lavoratrici invisibili, che con la sua scrittura esalta nelle contraddizioni e nelle miserie, nelle ossessioni e nelle ritorsioni dettate dal sacrificio estremo del lavoro, dalla ferocia della sopravvivenza. Offre descrizioni della catena di produzione delle auto in una fabbrica parigina degli anni Cinquanta con particolare attenzione alle difficili condizioni di lavoro di operai ai quali non è permesso nemmeno di espletare necessità biologiche durante il turno, tra il rombo dei motori della catena percepiti in quattro tempi associati a una melodia tetra.
“Incollati alla catena come attrezzi. Attrezzi noi stessi”.
Definisce la fatica fisica come una sorta di alienazione dal resto con pagine memorabili che rimandano ai versi del poeta Robert Desnos nel definire la devastazione fisica, il rumore che isola gli uni dagli altri, la sporcizia che permane tra le dita nell’impossibilità di trovare altra forza a fine giornata per dedicarsi alla cura personale, il pudore ormai ridotto allo stretto indispensabile.
Le storie minime che si susseguono nell’opera sono rese per brevi cenni, attraverso dettagli rivelatori di una condizione di solitudine e isolamento sociale vissuta da individui piegati dal dovere e mossi da desideri e ideali circoscritti ai graffiti del bagno di una fabbrica, tra scritte rivendicative incise col coltello come “Vogliamo cinque franchi l’ora, le docce, il Partito Comunista al potere”, e qualche frase oscena. Con una sapiente costruzione dei dialoghi, insistenze descrittive e trasposizioni sotto forma di discorso diretto dell’indicibile che tormenta la protagonista, la prosa si cala nelle intermittenze emotive tra fugaci esaltazioni, struggimenti amorosi e angosce sincopate, con visioni nuove attraverso esperienze altrui, nella presa d’atto dell’impossibilità di una reale conoscenza degli altri e di sé: “Le terre estreme rimanevano per me estranee”.
Una condizione che genera interrogativi esistenziali con risvolti filosofici, che interroga l’altrove nella percezione del personale allontanamento da una dimensione spirituale dovuto alla vicinanza con una moltitudine di esseri umani segnati da perdite, lontananze, percepiti come reietti, soggetti a retate continue e umilianti, costretti a girare con la busta paga accanto ai documenti, per dimostrare da immigrati di avere diritto a calcare quel suolo.
Il confronto con storie diverse genera nel romanzo un crescendo che si lega alle nuove consapevolezze sviluppate dalla protagonista, che sviluppa una coscienza critica e una visione del suo tempo fomentata dalla vicinanza alle ingiustizie sociali in assenza di tutele e diritti, alle discriminazioni nei luoghi pubblici e sul lavoro. Significativo il ruolo assunto dalla città: il paesaggio urbano è reso per contrappunti, restituisce la marcata suddivisione di classe, la ghettizzazione dei poveri e degli stranieri in quartieri privi di servizi, con un’ulteriore frammentazione per comunità di algerini, portoghesi e spagnoli, tra storie di marginalità, dipendenza da alcol, disagio mentale, malattia.
La cura estrema per la parola esatta permette a Etcherelli di tracciare il tentativo di isolare momenti di gioia nel dramma di un quotidiano segnato dalle attese e dalle disillusioni. Aspetti resi con una prosa attenta a particolari minimi resi portatori di significati assoluti, come gli oggetti senza valore, le pietre, le insegne, le grate, le strade sconnesse, concepiti come testimoni di una sensazione amara, di uno sconforto che dal singolo dilaga nel mondo intorno e assegna nuovi contorni al noto. Condurre una vita normale in un’uscita serale passeggiando tra i boulevard con la persona amata si rivela un’impresa impossibile nella frustrazione per le conversazioni interrotte in un clima di inquietudine perenne nell’ombra delle camionette e col terrore di nuovi rastrellamenti. La valenza politica dell’opera risuona attuale nel descrivere la durezza di una repressione razzista che usa il potere e la violenza per reprimere ogni dissenso e si rivela cieca a qualsiasi istanza sociale.
Rileggere oggi Élise o la vera vita porta a confrontarsi con un dolente elogio del margine, un inno alle possibilità di cercare un riscatto nel seguire ideali di un cambiamento radicale, provando a perseguire il sogno di una vita vera che si consuma tra attese e speranze di rivoluzione.
“Cos’è che ci è mancato? Dove avremmo dovuto prendere la forza? Cosa abbiamo sbagliato, perché non siamo riusciti a dominare quello che per comodità chiamiamo destino? Quando abbiamo superato il limite oltre il quale siamo diventati noi i responsabili?”.

 


In copertina: Monet, Les Déchargeurs de charbon


 

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