Di Annachiara Atzei
“Soldato portoghese perché combatti contro i tuoi fratelli, ma era contro noi stessi che combattevamo, era contro di noi che puntavamo i nostri fucili”.
António Lobo Antunes, In culo al mondo
António Lobo Antunes sa bene come si usano le parole. Considerato uno dei più importanti narratori europei della sua epoca e tradotto in oltre quindici lingue, in questo romanzo intitolato In culo al mondo (Feltrinelli) – che, sul tema del colonialismo, ha senza dubbio avuto la maggiore diffusione all’estero – rievoca la durezza della guerra voluta dalla dittatura salazarista negli anni Sessanta contro i movimenti di liberazione della Guinea, Mozambico e Angola e descrive gli strascichi che essa ha avuto su di lui così come su un’intera generazione di portoghesi. In tredici anni di ostilità, che provocarono migliaia di vittime da entrambe le parti, furono chiamati alle armi circa ottocentomila giovani. Fu la Rivoluzione dei Garofani, nel 1974, a far cessare il fuoco e restituire il Portogallo alla democrazia.
Il racconto muove da una vicenda personale, poiché l’autore visse in prima persona per ben tre anni l’esperienza del fronte essendo stato inviato in Africa dal regime come tenente, chirurgo e psichiatra. In queste pagine, l’io narrante, che lo incarna, si confessa in un vibrante monologo a una donna misteriosa conosciuta una notte a Lisbona. E ci consegna una realtà che ha perso la sua nitidezza, dove le cose non hanno più la consistenza delle cose ma galleggiano tra sotterfugi e sottintesi. Nel libro, non c’è un aggettivo, una similitudine o una frase che non valga a esprimere lo stato d’animo del protagonista, un uomo ormai perso dentro sé stesso che ha dell’esistenza una percezione complessa e malinconica e in questo modo la riporta a chi legge.
Sono tre i piani del racconto che continuamente si intrecciano e si accavallano sparigliando l’ordine cronologico pur all’interno di una esposizione coerente: anzitutto, un’infanzia e una giovinezza isolate, in cui il desiderio di scrivere e la paura di non esserne capace, nella costante incertezza di rimanere inascoltato e incompreso, condannano il protagonista a un tacere ostinato. Poi, la lontananza della vita in battaglia, con l’incubo del paludismo, degli agguati e del sangue: lì, quando ci si allena a morire senza protestare, quando la fine non è un cervello che esplode lasciando intorno gemiti e panico ma la torturante agonia dell’attesa, diventa impossibile ammettere la pena, il sadismo e la crudeltà del distacco dal quotidiano e si finge una normalità, seppure odiata e rifiutata. Scrive, in proposito, Lobo Antunes: “Andavamo a morire e pioveva, pioveva, e io, seduto nella cabina del camion, accanto all’autista, con il berretto sugli occhi, con la vibrazione di una sigaretta infinita in mano, ho iniziato il doloroso apprendistato dell’agonia”. Infine, il rientro a casa, nella speranza di recuperare gli affetti, la routine e sé stesso e tuttavia con la triste constatazione che di sé non resta niente, neppure la capacità di amare.

In questo fitto romanzo, che si avvolge a spirale e si proietta altrove, c’è una interminabile rilettura di ciò che esiste che Lobo Antunes ricostruisce all’infinito, spezzetta e amplia moltiplicandolo in insiemi di mondi paralleli. Questo artificio retorico, fatto di continui rimandi e soluzioni, aumenta il vero stimolando nel lettore nuovi quesiti e nuove interpretazioni. Come in Borges, per il quale l’uso delle metafore – “queste segrete simpatie fra i concetti” che traggono dalle parole la loro forza o la loro debolezza – è il dispositivo per diffondere il messaggio letterario, allo stesso modo Lobo Antunes trasforma con la sua scrittura una realtà in un’altra. Accade così che i soldati diventano pesci muti in acquari di panno e metallo, bestie in divisa in un luogo inesistente, le strade morte e prive di luce una fiera smessa e Lisbona un luna park di provincia, un circo ambulante installato vicino al fiume. In culo al mondo appare, quindi, non solo come un libro da leggere, ma un vero e proprio nuovo mondo da percepire, conoscere e percorrere. Ma resta una domanda. Come si può convivere con il ricordo dei giorni trascorsi in terra africana, dei compagni salutati a occhi bassi e in fretta, del filo spinato, del silenzio indignato degli scomparsi e delle voci soffocate dei vivi? Forse qualcuno disposto ad ascoltare il rigurgito sofferente di un uomo privo di radici che fluttua anelando un approdo è l’unica consolazione possibile. E resta, pur sempre, un desiderio di vera tenerezza capace di inventare una tangibile pace. È possibile, allora, tornare nella propria città e dimenticare? No. Nulla vale a elaborare il lutto perché nulla riporta indietro dalla abitudine alla morte. Nulla giustifica e nulla vale ad assolversi. Si vorrebbe che i combattimenti, il fascismo, il tempo trascorso con lo sguardo vuoto nelle Terre della Fine del Mondo e la colpa di esservi stati fossero pura immaginazione. Ma così non è. Lobo Antunes ci costringe ad aprire gli occhi sulla arroganza dell’essere umano e su uno dei suoi peggiori limiti, quello di pensarsi al centro dell’universo e credere di poter far valere su tutto e tutti le proprie ragioni, anche con la forza. A noi, se non del tutto privi di sensibilità e coscienza politica e civile, la scelta – come scrive l’autore – di pisciare sulla guerra, sulla viltà e la corruzione o lasciare che sia lei a pisciare su di noi le sue schegge, i suoi spari, la sua meschinità.
In copertina: Doris Poklekowski, Writer Pictures / AP Photo

