Il libro di Sasāra – Capitolo V

Storia dei suoi fratelli1

Di Danilo V Paris 

 

 

Quello che accadde come un sogno tra le mie gambe insanguinate era invece già accaduto, quando cominciai a scucire forsennatamente le separazioni segnate negli strati più sepolti del Rana Edari.
“Cosa c’è qui?”, mi chiedevo. “Qui. Sì. C’è segnato Alpha Centauri e subito più vicino Corinto e poi Tenochitlian e poi…che nomi strani. Non si legge. Aspetta… ah… è buio… e freddo… il deserto… il deserto è grande… aspetta… se ci passo la mano… così… la crosta se ne viene via…sì…ci vedo un po’ di più adesso… sì… non è più come il libro… c’è qualcuno qui… parlate su… parlatemi! Io sono Sas*ra… io ero Stasis. Io ora sono Sas*ra, l’immota-oltre… e… se siete qui sotto… posso ascoltarvi.”

E cavando via dalla traccia il segno, sgorgò la marea e ancora una volta mi sentii sommergere tra le segnature e i filogrammi, le gocce mi sformavano la placca che consegnai alla forra e si slacciarono le separazioni e gli editti dei geografi: i tre confini si smarginavano fino a sovrapporsi, le cronografie si divorarono tra di loro e le voragini calcaree dei conventi delle meteore le vedevo oscillare tra gli oceani di luminosità del centauro e il solonĉak, l’acquitrino di sale di Texcoco. In mezzo a queste risacche di rovine geologiche, vedevo camminare tre uomini stremati tra cammini, scritture e ideologie. Li vidi parlare di qualcosa. Cercavano di ritrovare le coordinate, ma anche se fossero riusciti a concordare su una qualsiasi geografia convenzionale e comune ad ognuno di loro, le coordinate sarebbero comunque state diverse, divise da millenni di derive tettoniche, disgregazioni delle placche e critiche delle ragion cartografiche. Eumeo, Diego e Jonathan se ne andarono via, accecati da una parola, più che da una visione, da un’idea di racconto, dalla casualità delle “corrispondenze immateriali”, da quell’intrico di specchi e riflessi che mi frammentavano di conseguenza2.

Cercavo nella polvere, nel posto in cui si erano incontrati, ed era lì… il filo, seppellito sotto la sabbia e i minerali porosi e frammentati.
Tirai il filo, come sempre, e dietro veniva breccia, albume e fibrina. E dietro venivano i Mhyr, mi restavano appiccicati sui polpastrelli rossi. Il tessuto del deserto si sfilacciava tra le mie mani e sotto veniva la vita e il destino dei paesi sfuggiti alla rena. E sotto il deserto c’erano le vie dei Mhyr, i passi di Jara e le rotte delle nascite Janama. Stavano intrecciate alla via che si sprofondava nella mappa e si apriva nello spazio designato nel carteggio.

Sierra Nevada, 1950 circa.
Pini, stelle, baite di montagna. C’erano alberi di sequoia giganti e attraversai tutto il bosco, finché non lo vidi. Etienne, mio fratello, con il poncho e i segni sul viso dei Navajo. Etienne aveva otto anni e quella veste antica su di lui lo faceva apparire ancora più buffo. Etienne, quando lo trovai, aveva attraversato le vie gialle di Sen Fren ed era stato lì quando Sal Paradise era stato preso dalle allucinazioni per la dissenteria, fermo in un luogo imprecisato del New Mexico ad attendere come Vladimiro ed Estragone il passaggio di una carovana che ogni volta sembrava portarlo in un punto differente che era sempre lo stesso3.

Etienne teneva il braccio sollevato, indicando qualcosa. Aveva indicato la via del nulla a Sal Paradise ed era rimasto in quella posizione, imbambolato nella scrittura beat.

“Etienne!”, gridai. Non si girava, restava lì, fermo, a segnare la via. Di chi.
“Etienne!”, gli dissi ancora e gli andai contro per scuoterlo, ma lui se ne stava lì, inebetito, con lo sguardo vacuo.“Etienne, parlami!”, dissi ancora una volta.
“Sisì…”, mi rispose lui, infine, come risvegliatosi da un sonno vigile.
“Che paura mi hai fatto prendere, Enne. Non devi farlo mai più.”

“Che brutta storia, Sisì! Alla fine, ci siamo persi veramente…”
“Ma come è successo?! Siete spariti! E dov’è An, Etienne, perché sei da solo?!”
“Non lo so, Sisì, è come nel bosco di Noc! Qui tutto cambia! Non puoi cucire e scucire sempre, non sai quello che può uscire fuori, Sisì…”
“Ma che cosa dici, Etienne? Vuol dire che eri finito qui sotto?!”
“Sisì! Ho visto una scucitura qui a Sen Fren e sono riuscito ad uscire!”
“Ho capito… allora è stata colpa mia…”
“No, Sisì, no! Ma senti… ho visto delle cose brutte là sotto…c’è una cosa che striscia!”
“È Noc!”
“No, Sisì!Peggio!”
“È il Doukar!”
“No! No, Sisì… o forse sì, non lo so.”
“Vabbene. Ma almeno saprai dirmi come è fatto!”
“Era fatto di pelli, Sisì! Di…piume, di…”
“Conce. Quello che hai visto, Etienne, è il ghermitore delle conce. Ora, devi ascoltarmi bene.
Non devi mai seguirlo, per nessuna ragione.”
“No, Sisì, non lo seguirò. Ma aspetta! C’era un’altra cosa là sotto! Era rosso e pieno di cose attaccate intorno.
S- Fili di malva, segnano le cuciture dell’atlante in cui siamo adesso. Tirandoli, sono arrivata in molti posti, senza mai trovarvi.
E- Ma alla fine mi hai trovato, Sisì!
S- Alla fine ti ho trovato, è vero. Ma adesso dobbiamo trovare An, Etienne.
“Si, Sisì! Dobbiamo seguire il filo! Giù, giù, li ho visti che vagano!”, diceva Etienne. E subito zampettava avanti, ritrovando la sua solita vivacità, accucciandosi come un formichiere per seguire qualcosa di ignoto nella sabbia.
“È la terra di Nod. È lì che il deserto comincia e l’esilio. È lì che lui…”
“Guarda, Sisì! Qui ci sono tracce di bimbo, piccole piccole..”
“E sotto”, rispondevo io, abbassandomi e seguendo le indicazioni di Enne, “sta il filo. Bravo, Etienne. Andiamo!”

Il filo ci attrasse via dal bosco, si inerpicava fin su, nella parte più rocciosa della Sierra e poi si infiltrava tra i plutoni e i diapiri, dove il magma solidificandosi ha formato estese strutture. Lì, in un incavo tra due grossi migmatiti, il filo frastagliato e viscido s’infondeva nella roccia, stranamente infusa, come se una parte della crosta magmatica fosse risalita in superficie, formando un condotto a cielo aperto con il mantello. Mi ci infilai, portandomi dietro Etienne, e la galleria era invece fredda, con fumi che esalavano dai bordi e dalle pareti. Senza ripassare per la superficie del Rana Edari, la via risaliva direttamente per la valle di Nod, fuoriuscendo su una vasta valle giallastra, con lingue di zolfo che colavano dal cielo.
Seguimmo il filo, spanciando ulteriormente la massa apocrifa di quel vangelo geografico, e la spianata si rovesciò in una stretta via trai caseggiati bianchi e insabbiati, crepati nella rena e nella tempesta. Girando il vicolo, la strada proseguiva in discesa, conducendoci ad una radura di sabbia, al cui centro stava appeso un grande bozzolo, intelaiato nella mappatura, a breccia e placenta.

Cos’era? Ci avvicinammo e da lì i fili si diramavano oltre, salendo su come cordoni di un infinito micelio sotterraneo. La foschia, bassa e cremisi, ci impediva di vedere oltre, ma il bozzolo, invece, pulsava. Gemeva? Provai a toccarlo ed era vivido e sofferente e al mio tocco pareva sfoliarsi come l’apparato reticolare di un apparato di Golgi.
Sulle mani mi restava attaccata la materia, gocciolandomi sulle braccia e poi ovunque, sbavando e sgorgando via, quel denso profilattico nel nulla, sembrava lentamente sbriciolarsi.
A poco a poco, un pezzo alla volta: alghe, pietrisco, minerali e… filo, per chilometri, avvolto intorno a quella cosa che dentro, ripeto, respirava, affannosamente, batteva un cuore forse, un cuore fermo da millenni, che pure, però, batteva.
“Guarda Sisì, c’è qualcosa!”, mi disse Etienne. “O qualcuno”, gli risposi io.

Sì, qualcuno. C’era qualcuno.
Sentivo, non appena restò soltanto il filo, da sfilare via, da scucire dal dorso, un addome, una spalla, una fronte. E veniva via anche il resto della placenta e quella placenta sembrava familiare e allo stesso tempo terrificante per la distanza, perché quella familiarità sembrava una cosa originaria, da cui io stesso provenivo. E infine li vidi.

I due gemelli. I loro visi fuoriuscirono dalla calotta viscosa. Ed erano gelidi, addormentati, uno alle spalle dell’altro, appiccicati ancora in nodo e fune.
Da lì, si dipartiva tragitto e confine, dogana e sentiero.
“Ehi” , dissi io,” Ehi, svegliati! Svegliati”.

Erano due involucri di giovane perpetuo. In petto e in breccia, all’uno e all’altro, stava attaccato il campo di mele, l’esametro e Benit Hanun e zinco. Aveva l’uno e l’altro pezzi di storia sulle guance, i fiori seccati e le ambre. Le foci avvizzite sulla fronte. I gemiti e cristalli che stavano ficcati lungo le cornici delle palpebre e i rimasugli di pelle vecchia sotto le ciglia. Piano piano venne via l’editto dal rostro. Gli entrò dentro l’aria, all’uno e all’altro. Uno si scrollò il sonno delle epoche. E anche l’altro si svegliò. Aprì gli occhi, come due ghiacciai che si staccano. Dal crepaccio uscì il germe delle separazioni che li teneva addormentati, qualcosa, oltre il confine immediato, che Caino poteva vedere, e io no. Qualcosa come un’ombra, che sembrava imprimergli una massa di esistenze mute sul collo, piegandogli lo sguardo, richiedendogli infiniti sforzi per sollevarsi, per alzare gli occhi al cielo, per girare la testa, per schiodarsi, si. Per schiodarsi da quella colonna stilita eretta per mettere fine al suo cammino.

L’uno gettò una mano avanti. Cercò di parlare. Conati.
Si sforzò di dirlo. L’altro, alle sue spalle, gli passò la mano sulle labbra, per farlo tacere. E così l’uno ebbe pace. L’altro, appena sveglio, provò a fare la stessa cosa. Ugualmente non ci riuscì e l’uno gli passò la mano sulle labbra. E così, lo stesso, l’altro aveva pace.

“Parlami! Puoi parlarmi”, gli dico.“No”, mi risponde Caino “Non. Altro…che fosse…del suo.

L’ho visto…che cade…e fuma. Ed ero io.
        E era lui.
E non era più.
           Brucia e secca
Tra le mani

Mi brucia. La sua mano”

“Non riesco a capirti”, gli rispondo.
“Ah”, reagisce lui e geme di dolore.” Brucia. Brucia BRUCIA!” E l’altro subito lo zittisce. E il gemello si è calmato. Riprende fiato. Non ha più fiato. Brucia.

“Cos’è che brucia? Calmati!”

L’altro: Shh…è qui con me adesso

non va via

È qui con me e dorme. Caino, mio fratello. Dormi con me.

E non sarai solo. Mi ha trovato e non va più

via.

 

Caino: Da quel buco potevo vederli, i Mhyr, nascosti, bisbigliare:

i figli…annodavano qualcosa, stretti:

fili, intrecciati, da una mano all’altra
e il buio grattava nei loro occhi ciechi.

                     L’altro: Non li guardare.
Loro li cacciano via. Come per te, la stessa cosa. Vanno via.

Così gli rispondeva L’altro, suo fratello, sé stesso, perché a me sembravano identici, non tanto quanto gemelli,
quanto come una cosa che non si stacca dal suo resto. Così gli rispondeva. E l’Uno li vedeva in massa andare via, li vedeva passargli vicino, andando su, su…dove era andato così tanto anche lui. E disse, con un briciolo di fiato raggelato:

“sfollati
su

di un pezzo di terra

e gli steli—- lunghi

sul prato

fatto a pezzi”

Stasis- Di che cosa parli? Chi hanno portato via?! C’era mio fratello tra quelle persone? Parla! PARLA!

Caino:
Sì …c’erano i fratelli… Li hanno portati via, imbrigliati nel solco. Non torneranno più.

Stasis- Tu! Con chi credi di parlare! Portami subito da mio fratello!

“Non può”, lo precedeva l’altro nella risposta, tirandolo a sé.

“Lui sta con me, ora.
Lui sta qui, e gli altri partono.
Lui sta qui, e gli altri devono fuggire.
E così sarà per sempre.”

“Non ci credo”, risposi io, perduta. Non doveva andare così. Non eravamo, noi, gli eletti a sottrarsi a quel destino di fuga? All’abbandono che ci aveva, in ogni caso, fatti venir fuori, noi tre, tra molte, infinite, scampate esistenze alle nascite. Così era scritto nel Jahry Rashaya: il libro e sotto il libro c’era il deserto. E sotto il giardino c’era il deserto.

Caino, lo sradicato. I rivoli insanguinati delle diaspore colavano dalle gocce gelide dei suoi occhi. Ci provò…a dirlo: “…Ah…ah.” E si arrestò. Esaurito. Si accasciò sulle sue stesse gambe impietrate. Poi, come per sputare via l’estuario sepolto nella sua bocca, lo disse:

“è vero…un popolo annientato.
Li vedo”, diceva. E gettava le mani avanti a sé, come per toccarli, per ritrovarseli tra le dita. Lo facevo anche io spesso, quando tiravo il filo, me li sentivo sui polpastrelli.

“Una folla

che corre, scappa via…

Scappa via.”

Mi sembravano Mhyr i suoi occhi. Si accesero nel dire quelle parole. C’erano folle in cammino che sgocciarono via dalle sue lacrime.
Le lacrime gli scioglievano i muscoli irrigiditi. Si allentarono le briglie intorno al suo collo, alle sue braccia e quelle avvinte agli arti dell’Altro, attaccato alle sue spalle.
E “AH” Un gemito. Facevamo un primo passo. Tradirono il patto. Avrebbe camminato ancora. Il cammino era insieme l’esilio e gli costò il dolore del ricordo di tutti gli esodi precedenti.

Stasis: Bravo, sì! Bravo, ce la puoi fare! Ti aiutiamo.
“Io…li ho
conosciuti… sì…
…mi è stato amico…”, rispose Caino, incamminandosi, seguendo il bambino che sale tra i boschi.

“Non è vero! Non è vero!”, si affrettava a rispondere l’Altro, come percependo che gli stesse scivolando via, che si stesse liberando. “Non starla a sentire! È l’altro che va e noi restiamo.”

Caino:

‹‹Sì, invece…Sì…Li ho conosciuti…
…li ho conosciuti prima…mi chiedevano perché…
..lì potevo vedere..salire su e dire addio…non sono mai nati.››
‹‹È vero››, ribadiva l’Altro, come finalmente accettando. ‹‹Come me.
Non sono mai nato.
Anche io. Voglio andare anche io.››

Caino:
Non… posso. NON POSSO.
L’altro: Si.‹‹NO. Guarda››, rispondeva Caino indicandosi la pancia. ‹‹MI PREME.
Sta qui dentro…è buio qui, vedi? AH…È BUIO.››
‹‹Shh››, rispondeva l’altro, come per consolarlo, per poi proferire con severità… la profezia dei Mhyr:
‹‹smarchiamo il segno

della frattura
d’esser nati
fin giù, nella culla sguarnita dell’arcolaio››

‹‹Ah››, gemette Caino, come di nuovo afflitto da una parola che non poteva ancora pronunciare.

L’altro: Fratello.
‹‹AH…AH…››, diceva ancora l’uno tirando lunghi respiri per cacciare via, ancora una volta, la parola, e
tirarsi via dal salmo. ‹‹AH…››, disse ancora una volta e …finalmente…si strappò da giacimento e mola delle
semenze. Venne via il ganglio da totem e strappo. Si tirò su, incespicando, con tutti i fili che gli spellavano le
ossa e gli sfilacciavano le genesi. Andava avanti e lo aspettava, tirandolo a sé.
‹‹Adesso…li vedo…››, diceva, con grande meraviglia e gioia perduta.
‹‹Mi corrono avanti

come… un bambino››

L’altro:
‹‹Sento la sua voce. È una casa in cui ho vissuto.››

‹‹Non c’è UNA CASA.››, rispondeva al fratello, ormai libero. ‹‹LI SENTO›› Fece un passo. ‹‹LI SENTO!›› e ormai il totem girava velocemente, scorticandosi pezzo a pezzo, mentre Caino correva con uno strattone avanti e l’Altro gli veniva dietro, cadendo.

Si erano strappati dal bozzolo e lentamente, ancora tutti involti, cominciavano a camminare. L’uno si staccava e l’altro si avvicinava. L’unghia non fu più unghia e la ferita si aprì nella crepa. La crepa era cosa viva e mi camminava davanti. La cosa indivisa per i deserti di concetti che non si dividono senza cambiare natura. Neanche, credo, si dividessero mai dalla fessura. La fessura veniva avanti insieme a loro, smagliando il tessuto delle differenze. Era una saia indivisibile l’uno e l’altro e il crepaccio, più sotto.

Dietro il bozzolo c’è la montagnola sabbiosa e calcare. E più giù, sprofonda in un inghiottitoio ripido come un baratro. Non fanno che cadere. E cadendo, il genoma tra le separazioni srota la sua cornice. Si scorda dal contratto, la sbafatura si inscrive al registro. Mi schiaccia il loro peso ed Etienne, sotto l’uno sente anche il peso dell’altro e probabilmente anche il mio, mentre la via si va regolando, attraversando un guado tra due gravine frananti.

“Sisì, dietro c’è qualcuno”, mi disse Etienne. E la sua voce sembrava venisse da lontano. Dietro veniva più di qualcuno. Una, due, tre figure venivano dall’ombra e nell’ombra restavano, un popolo scuro e muto, che emetteva però un brusio costante di fondo. Un popolo che, come l’uno e l’altro, è indiviso dalla fessura e ognuno di loro è infilato tra le genesi, è un pezzo. Lorda il bozzolo con l’imprimitura del contratto. C’era il filo che ruotava le ripartizioni dell’arcolaio e li segnava nell’editto dell’Uno e dell’Altro. Erano scritti nel libro, il Jari Riashaya. E allo stesso tempo erano lì, nel Crogiolo degli inizi: i mhyr e le phearae, le antiche portatrici.

Insieme a loro vanno tutti gli altri dietro, in processione. Cantano e intonano il salmo impastati di cesio e iodio. Tra noi e loro c’è una distanza. È una pellicola di albume. “Dove vanno?” dice qualcuno, dietro. È tra quelli che seguono. Mhyr e pherae ci stanno in mezzo.“Annì, Annì, aecc c’ p’rdim”, dice Nnunù.
“Ando è”, ciu dic’ iss. “Aecca?”.” Mbè, mbè.”

“Si estou, estauronnu, Nunù”

L’altra a fianco le risponde, ciancia, quasi canta e poi gli altri le fanno
il verso, le fanno il coro, un coro alato che vola sulla testa di tutta quel popolo traslucido che le circonda.
Sei stanco, Qanah, lo sappiamo.”

“Non sa. Non sa piú niente ora.”
“Sì. È qui e balbetta. E qui e non è più uno.”

Annina della pietra scura.

Il suo velo e il giogo di pietre che scorrono. Parla e dalla sua voce cascano le ferite della chiesa. C’è Santa Lucia dietro il varco e frana sotto le terme sotterrate. Poi le altre pherae vanno a bisbigliare alla candela: Nuvola degli Engrammi e Zenobia degli Atlanti. I mhyr le seguono, stanno attaccati alle vesti con braccia azzurre e lunghe come lenzuola arrotolate.
Gaya, Mysiats, Dhorani e Yeghbayr forse. Sono loro? Parlano in una sola voce tutte le voci, più quelle di altri che non vedo.
“ Andremo via da qui,” gli dice Nunù con affetto. “E domani saremo anemone gelata. Via Via. Andremo via o non saremo più.”
L’uno e l’altro corrono e i Mhyr gli cantano dietro “Io ho sempre corso. Questo mi dirai. Ma adesso basta.
Benedetta. Benedetta la nostra razza storta.”
“È notte. È notte. E tu ci strappi via. È notte e tu non vedi che ferita mi trapassa. “
Parla Annina della pietra scura e gli altri ripetono:
“Lo vedo. La pietra brilla. E cola la ferita sulla brocca.”
“Era notte! È sempre notte. E tu scalci ancora. E spingi. E tutto trema nella notte.”
Fin giù nella fonte sfranata del latte. lì, Mysiats, siamo colati a picco.”
“Ci siamo sfranati nel sillabario storto degli inizi.”
“Vieni, Mysiats, non vuoi vedere tuo fratello?”

E Gaya, che è vicino ai gemelli con la pelle sbucciata dalle cadute, indica loro più avanti “E’ lì, la sindone dell’occhio, si sforma nel calice del pianto.”
Nuvola, più dietro, indica nello stesso punto, canta e tutti cantano e tutto canta sotto la pietra umida.
“È lì. È lì che sta e tu puoi averne in dono le gocce.”

‹‹Potrai stenderle come un velo che rinnovella il mondo.››, diceva Annina della pietra scura, proprio di fianco a me.
Infatti, girandomi, me le vedevo intorno. Quelle creature opache, questo coro di assenti, questo coro alato, ci si avvicinava, come oltrepassando la cortina che separa le epoche, mentre i gemelli stavano inginocchiati, stremati, alla fine del cammino incuneato nella gola, che emergeva in una stretta radura, con l’acqua che scendeva da una fosca cascata, nebbiosa sotto il peso buio e grigio di una nebbia di quello che sembrerebbe ricordo.

“Non vedi, Mysiats?”, gli diceva infine Zenobia, mentre lei e gli altri li circondavano. “Sono i tuoi fratelli che calano giù a picco. È da tempo che siamo partiti. Siamo pioggia e laviamo via il buio dai tuoi occhi.”

Non potevo fare nulla, rimasi a guardare insieme ad Enne quello strano rituale e i celebranti, con i visi azzurri, portarsi l’uno e l’altro dei fratelli, per altre strade. Portarsi via i due fratelli. E loro a guardarsi un’ultima volta, stravolti dallo strappo.Uno strappo in cui vidi lacerarsi per un attimo il tessuto sotterraneo del deserto e sbuffare in un fuoco bianco4: le grandi macchine e l’accensione del meccanismo nucleare, un grande uomo scappò per nascondere il segreto diventò un’ombra in un’isola in cui potessero dimenticarlo.

E lì, accade. Nel momento in cui il nodo viene lacerandosi, in una fuoriuscita di organi e cellulosa, qualcosa di incompiuto generarsi, una massa informe e ingigantita, incurvata, con cascami di alghe, conchiglie ed altri resti delle epoche, fendere le direzioni e attraversare direttamente il manto delle segnature, i filogrammi degli esodi e delle separazioni.

E capisco che non uno, né due, ma nel terzo soltanto si compie la figura di Caino, estromessa dalla possibilità del fratello, in un perpetuo mancare che propaga gli esili, abitando i territori sotterranei del Rana Edari, le infinite vie che dall’origine, dal nucleo di Enoch, si propagano straziando le placche ed espropriando le pangee.
E sotto di lui, minuscolo e nero, una creaturina che fa di tutto per somigliargli, ma assolutamente non vi riesce.

An, il nostro piccolo fratellino.

“Sisì, guarda! È An! È con lui!”
E da lontano, sembrerebbe quasi che i due si stiano parlando, mentre camminano, mentre An fa crepitare via le bolle dalle sue mani, come volesse giocare con quella cosa oscura che torreggia su di lui.
-Quel che è rotto non può farsi salvo. E dove vado non puoi seguirmi.
Dice Caino, il ghermitore delle conce, e non c’è esitazione in lui, non c’è pietà nella sua voce di relitti che tremano, rovinando l’uno sull’altro.
-Che sciocchezza! Io posso andare dove voglio.
– Lui mi ha visto. E mi ha chiesto dove fosse. Io…vorrei sentirmi dire…
– Che cosa? Che vuoi sentirti dire?
– Tu non hai paura. Lo sai che se ti sei perso è colpa mia?
– Io non mi sono perso!
-Sì, piccolo fratello. Se sei con me, lo sei.
– Io sono An, il primo nato. Io seguo i passi e cammino, ma non mi perdo. Pensavo di trovare un bambino e invece ho trovato te. Tu sei come un bambino.
– Io non cammino. Io sono trascinato. E così è anche adesso. Un fuoco mi porta via.
Addio, piccolo fratello.

La cosa si trascinò oltre, insieme a tutta la massa di ombra e popoli scuri che lo seguivano, ed An rimase a guardarlo, impaurito di restare solo. Quella cosa a cui stanno attaccati i fili e il registro l’aveva accompagnato nel deserto e sotto la traccia.
-AN-, gridai io. E gli corsi incontro.
-SISÌ-, mi rispose lui, correndomi in braccio, come un fulmine, dimenticando in un istante tutta la storia precedente, perché troppo forte era in lui il destino dei primi nati e il legame che lo teneva unito ai Mhyr, i suoi fratelli.

Eravamo di nuovo insieme, come nel giardino da cui i Mhyr ci avevano separato con l’inganno, per mostrarci il peso di un’origine che noi, i primi nati, potevamo immaginare solo come un racconto di fiaba segnato nelle pagine bianche del Jarhi Rashaya, il libro delle forme perpetue dell’eco.

Eravamo di nuovo insieme. Ma eravamo soli, in ogni caso, nel vasto deserto dei saperi in rovina dell’uomo, distanti o per sempre fuori dai confini sicuri della nostra casa nel giardino dei primi nati. Che cos’è che avevamo ereditato, se il giardino era solo una traccia, un ripiegamento sbucciato dal deserto? L’eredità non erano i frutti del giardino, ma le soglie segnate al di sotto di noi, qualcosa che dormiva sotto il deserto. Non c’era niente per noi, se non il Libro, come forma di sottrazione del reale. E il deserto, che ne è lo specchio. Custodire. Cucire e scucire il filo e setacciare le memorie tradite dei mhyr. I primi nati erano nati senza presente e senza futuro. Erano solo dei custodi? E se il nostro futuro era il passato, in cui avremmo potuto incidere le nostre tracce come in un notes di cera delle imprimiture memoriali, potevamo scrivere sul mondo a rovescio e gli antenati ne avrebbero ereditato le genesi.

Perciò eravamo nient’altro che schiavi del passato. E non eravamo i primi nati. Ma gli ultimi sopravvissuti, abbandonati in un deserto inaudito.

“Vieni, Sisì! Qui c’è qualcosa!”

 


Note al testo

1 Il testo è la trascrizione in forma di racconto del terzo capitolo della trilogia dell’eco, Trance(h)umansa teatrale della III edizione del Festival dell’Arte Nomadica.

2 Le “Corrispondenze Immateriali” sono il primo episodio della trance(h)umansa teatrale della III edizione del Festival dell’Arte Nomadica, Kain, una drammaturgia di Andrea Picchi

3 Verso Sen Fren  è una drammaturgia di Luciano Valle, un’improvvisazione Jazz sulla traccia di Sulla Strada, di John Kerouac e nel segno dell’immobilità metafisica di Aspettando Godot, di Samuel Beckett

4 Un fuoco Bianco, scritto da Luca Cialone è il titolo di una delle quattro drammaturgie endosimbiotiche che hanno costituito la III edizione del Festival dell’Arte Nomadica


In copertina: Cosmology of two, by Julia Soboleva


 

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