Flora sbircia attraverso i fori della tapparella abbassata: c’è un’altra cornacchia morta nel vialetto. Ma dove pensano di andare? Una è rimasta incollata al copertone per giorni, prima che Marcel la staccasse a pedate dalla mescola disciolta. Possibile mai che non imparino? Anche le riflessioni etologiche sono buone a scalzare il momento in cui sarà lei a dover uscire. Il supermercato è vicino, in un mondo perfetto – quello di quindici anni fa o anche uno qualunque sotto i quarantadue gradi –, andrebbero a piedi. Il loro non è più posto in cui far nascere i figli, rimarca la voce femminile del servizio, non proprio con queste parole, ma allineate nella litania cadenzata di sillabe tagliate con l’accetta che i cronisti televisivi imparano alla nascita. Flora distoglie lo sguardo dal cimitero di barche sul letto del defunto lago Malawi per riportare in posizione l’orologio sul polso, schivando di proposito l’ora scandita in tempo reale sullo schermo. Da quando si è alzata, non fa che pensare alla spesa. «Alla prossima settimana, brutta stronza» saluta sempre la macchina della somministrazione, fingendo che la settimana dopo non sia già dietro l’angolo, ineluttabile come il dentista. Peggio, perché non esiste cavadenti che si debba incontrare una volta a settimana. Sono già tre giorni che i bambini bevono quella del rubinetto, e non sono mica i figli di monsieur Perrier, loro. «Datevi una mossa!» strilla alla stanza vuota, inondata dalle scorie sonore di una litigata che si sta consumando altrove. In tivù, nell’angolo opposto al conteggio del tempo, la cifra 661 , un giorno in più di ieri e uno in meno di domani, è incorniciata in rosso. Tira il fiato, satura i polmoni di salubre aria condizionata per prepararsi al bagno di luce rovente che li aspetta fuori.
Deve intervenire di persona per controllare che Marcel allacci le scarpe della sorella come si deve, non l’una con l’altra, e impedire a Julia di vendicarsi con uno dei pastelli che passa il tempo ad acuminare.
Qualche metro oltre la porta di casa il gel comincia a sciogliersi in un colata vinilica sulla fronte di Marcel, i quarantatré gradi del pomeriggio saldano il derma alla maglietta e questo all’eco-pelle appiccicosa dei sedili. Il motorino d’avviamento sfrigola, il motore ansa, l’accensione è ancora a combustibile e Flora serra i denti per decapitare qualcosa prima esca, e trattenere espressioni che le verranno rinfacciate. L’utilitaria coreana ha l’età di Marcel, dieci anni. No, undici. Raccomanda a Julia, la piccola, di non fare dispetti al fratello, vorrebbe portare a termine la spesa in fretta – e senza olocausti familiari. «Non fate come vostro padre, non aprite niente prima di pagarlo, non fate i Barabba».
«Chi sono i Barabba?».
Sarebbe più semplice spiegare la bestemmia appena deglutita.
Julia boccheggia, paonazza, mentre il fratello la assicura al seggiolino. Il rassicurante sferragliare del motore ferma il panico in risalita dall’esofago e mamma libera una sbuffata d’anidride da scampato pericolo.
L’aria condizionata li colpisce con uno schiaffo appena varcate le porte automatiche del supermercato, colonne di brividi le percorrono la schiena, la peluria trasparente sulle braccia si solleva e d’istinto le incrocia – ma i bambini lo adorano. Julia starnutisce, mamma le soffia il naso e la supplica di non prendersi una bronchite in pieno luglio. Di non prendersi niente che passerà al fratello e poi a lei, quando avrà finito di far loro da infermiera.
La corsia della farina è transennata in entrambi i sensi e l’ingresso del tech-store sigillato da un lastrone di compensato. È il risultato del contro embargo. Il supermercato è quasi sul punto di perdere il suo super prefisso e trovarsi declassato a mercato. Ma con l’aria condizionata a tuono, dodici gradi che fanno rimpiangere di non tenere sempre una felpa annodata intorno al collo.
«L’acqua la prendiamo per ultima» dice, passando alla piccola una bottiglietta di tè alla pesca, «bevete questa nel frattempo».
«Ma avevi detto…».
«Sì, lo so» lo ferma subito. Marcel ha imparato che non si obietta su ciò che conviene. «Perché non compriamo questa, o questa, o quella lì? Non ci sono limiti per queste» mentre scandaglia le piramidi di bottiglie d’acqua, i quesiti che il mondo gli offre sono troppi per starsene zitto. «O perché non prendiamo solo aranciata, neanche su quella c’è limite!» lo sguardo indugia incantato nella corsia delle bevande colorate che sfocia in quella degli alcolici, da percorrere obbligatoriamente per arrivare ai banchi ortofrutticoli.
«Perché si muore, e poi costano troppo. Neanche per quella del rubinetto ci sono limiti, ma non sapete quanto costa e, soprattutto, non volete capirlo. Questo mese sono partiti quasi ottocento euro, solo di acqua, e vuoi sapere di corrente?».
«E perché questa costa così?» Marcel imprime l’impronta del suo indice sul vetro della teca della roba pregiata. Punta una bottiglia con la scritta Lappland scavata a laser nel vetro opaco, settantadue cl a trentasei euro – e non è l’acqua più cara del ripiano. Lo strattona per un braccio verso gli ortaggi prima che possa carpire altri dettagli e trasformarli in domande.
«Perché è roba per grandi».
Colpiscono i codici a barra con la pistola, il cellulare la avvisa appena superati i duecento euro e mamma ordina di fermarsi. Ha dimenticato a casa i vuoti e un porca puttana le sguscia via di bocca inorridendo una vecchina e facendo sbellicare Julia. Patatine, due sacchetti di pesche e arance, Fanta, succhi, carote, omogenizzati, quindici confezioni di acquagel alla frutta, una confezione da sei euro di sfere al cioccolato bianco, Pringles edizione limitata, salsa tzatziki e barbecue – perché non si vive di sola salute –, uova, pasta, e poco più. Per l’acqua devono superare le casse automatiche e percorrere il tunnel che porta all’impianto di somministrazione. Inserisce la scheda personale e segue i passaggi temporizzati sullo schermo insozzato da mille polpastrelli che fatica a prendere i comandi. È in debito, ha dimenticato le cassette dei vuoti in garage. Ancora. Il nastro trasportatore entra in funzione e cinque fusti da tre litri d’acqua de-salinizzata scendono nell’apposito carrello, con una mora di diciotto euro per non aver riconsegnato i vuoti, e ventisette da aggiungersi alla volta prima. Ha il sapore di piscina e vorrebbe tanto non sapere come la fanno, ma almeno sembra certo che non li ucciderà.
«Ci vediamo tra una settimana, brutta stronza».
«Io non capisco perché non si possono bere solo bibite» la questione per Marcel è ancora aperta.
«Già lo fate».
Nel parcheggio, alcune persone circondano un SUV, interdetti, accaldati, si scambiano opinioni su come agire; trattengono per le braccia una donna violacea che strilla come avesse dimenticato dentro qualcosa di importante e non potesse più recuperarlo. Devono bloccarle le mani per impedirle di scorticarsi le guance. La guardia di colore frantuma il vetro del lato passeggero, rimuove il contorno di cristalli con lievi picconate di gomito, apre la portiera, e lo strillo si acuisce in qualcosa di inumano, per cui un termine ancora non esiste. La donna espelle tutto l’ossigeno che serve a tenerla in piedi.
«Fatevi i fatti vostri, voi!».
Lo stupore di Julia le incrocia le caviglie e Flora l’afferra prima che cada. La macchina si accende al primo colpo, gratta la marcia per uscire dal parcheggio prima che ambulanza e polizia lo trasformino in un circo. Le grida si sentono anche a portiere chiuse, mamma accende la radio, un servizio già avviato sui trecento droni kamikaze e missili ipersonici Kinžal lanciati contro le strutture idroelettriche lungo lo Tsangpo, il nome cinese dell’alto corso del Brahmaputra; colpita anche Lhasa, danneggiato il tempio Jokhang; le fregate missilistiche di Pechino colpiscono i porti di Chennai e Mumbai; scanala ancora, evacuata in via precauzionale la residenza presidenziale di New Delhi; allora collega il bluetooth, parte di default un vecchio pezzo di Adam Ant che i bimbi non apprezzano.
A casa il televisore rimasto acceso sul canale di breaking news inonda il fresco soggiorno con la stessa rotazione di notizie, una peggio dell’altra, in una circolarità continua. Flora ribalta gli occhi e scaglia un afono anatema al soffitto: non ha solo scordato i vuoti, si è anche dimenticata di spegnere il contatore.
Li accoglie un servizio sul fallimento dell’ultimo Consiglio di Sicurezza; rinnovati i presidi ONU alla foce del Brahmaputra per il monitoraggio del cuneo salino del Jamuna, il tratto bengalese fiume, a seguito di ulteriori riduzioni dei volumi; permane invece il veto cinese sull’ispezione delle tre dighe sul fiume Tsangpo, che condannano alla sete due miliardi di indiani; cresce l’intensità dei bombardamenti nella zona cuscinetto del Sikkim e nella provincia dell’Aksai Chin; l’India colpisce con missili Agni alcune postazioni conquistate da Pechino nella guerra del sessantadue, i cinesi rispondono abbattendo satelliti di telecomunicazioni, compresi i provider privati. Condanna unanime dalle Nazioni Unite.
«Spegnete il televisore, andate a giocare di sopra» ordina Flora.
Nelle notte, a seguito di ripetuti attacchi delle settimane precedenti, la struttura di cemento che conteneva l’invaso da undici miliardi di metri cubi della diga di Tarbela, nella regione del Khyber, ha ceduto: le fotografie scattate dai satelliti di sorveglianza statunitensi, dopo il totale oscuramente della rete voluto da Islamabad, sono drammatiche: decine di migliaia i dispersi, centinaia gli abitati sommersi.
L’attacco alla diga sarebbe l’ultima ritorsione per la rettifica degli accordi tra Pakistan e Cina. L’OMS teme recrudescenze del colera, solo recentemente arginato in Kashmir; il Pakistan si prepara a rispondere con una controffensiva interforze lungo tremila chilometri di confine; nel Kashmir, un convoglio ONU sarebbe stato colpito per errore da un caccia cinese Chengdu; peggiora, nel frattempo, la siccità europea e la condizione delle medie imprese, falcidiate dagli effetti di rimbalzo dei pacchetti di sanzioni siglati da Strasburgo – ma Flora non è più in grado di seguire il resoconto. Un uovo le scivola di mano mentre ruota bruscamente il bacino verso la parete dietro la quale si consuma l’apocalisse.
Arrivata in soggiorno, i dettagli importanti hanno lasciato il posto alle rovine del Tempio d’Oro di Amritsar, la Mecca dei Sikh, raso al suolo da un diluvio di bombe termobariche pakistane. Unanime il biasimo della comunità islamica internazionale. Flora sorveglia i titoli a scorrimento finché non incontra la stringa in cui ventuno soldati burkinabè, lussemburghesi e cileni sono morti in un presunto attacco dell’aviazione cinese; in quello dopo, un generale cinese nega fermamente in un tweet. Ultima ora: bambino muore dimenticato in un auto dalla madre, arrestata la donna, il resoconto dei passanti: bollito a morte.
Il sollievo scioglie il diaframma, i polmoni si espandono, altra pericolosa anidride espulsa dalle narici. Il desiderio di Julia di aiutare sua madre impiccia soltanto, mamma chiede a Marcel di darle qualcosa da fare. Lui ubbidisce stizzito e la porta sul divano, di nuovo davanti al telegiornale. Il presidente indiano minaccia: se la Cina ci priva del Brahmaputra, noi riprenderemo l’Indo, l’Aksai Chin e il Siachen.
«Cambiate canale!».
«Tu e papà lo guardate sempre, che cazzo!». Mamma sgrana gli occhi, anche da lì può percepire il volto di suo figlio, la frustrazione inascoltata dell’infanzia.
«Mettete i cartoni, un film, quello che vi pare, vi ho comprato Jumanji…» ansima, affrettandosi a riempire il frigo.
«Ma lì c’è papà».
«Papà non è lì!». Puttana di una Eva, aggiunge sottovoce.
Julia si è alzata, ha attraversato la sala come un gatto ed è sparita. Lo scroscio dei rubinetti aperti, l’acciaio appannato dalla condensa, Flora entra in bagno coi leggings macchiati d’albume e sgrassatore già sfilati, ma deve aggrapparsi allo stipite per non saltarle alla gola. Frenata, a metà tra incanto e disperazione, davanti al naturale consumarsi di una calamità che, sul pavimento allagato dove un angioletto fradicio tenta di imprimere la propria sagoma, ha le sembianze di un divertimento sfrenato.
Allunga il braccio per chiudere il rubinetto della vasca in cui Julia cerca di sfuggirle, ma non prima che la piccola riesca a puntarle contro il doccino. Corre al contatore generale di sotto: hanno superato i duecento litri, e sono solo le cinque di pomeriggio. Abbassa la leva, niente più acqua.
«Dio, dio, no!» singhiozza isterica, l’espressione accartocciata sembra annunciare un pianto che appartiene a livelli di frustrazione ampiamente sorpassati.
Non osa dar voce agli abomini che le gonfiano le guance, quasi non sappia cosa i bambini siano già abituati ad ascoltare. Mette il tappo alla vasca e strizza all’interno gli asciugamani usati per tamponare il pavimento – la minaccia di farle venire il colera.
In cucina, Marcel cerca di recuperare le gocce residue dal rubinetto.
«Ti ho preso l’aranciata, bevi quella, puttana di…!».
«Ma sarà piscio!».
Prende comunque la bottiglia e innaffia la gola con una cascata di sciroppo vermiglio. Il volto si storce fino a esprimere tutte le volgarità che sogna un giorno di poter dire.
«Ancora poco e per voi la pacchia è finita, andate su!». Julia fa vorticare la chioma fradicia per accendere l’invidia del fratello e farsi rincorrere per le scale, mentre mamma rovista nella borsa finché le dita non urtano qualcosa di squadrato. Per il collegamento servono cinque minuti di frustranti tentativi; Elio esordisce con un amore mio che, per una volta, non ha niente di rituale. «Siamo rovinati» annuncia lei, senza preamboli. «Avremo superato i mille stavolta, solo di acqua? Che giorno è, l’undici?»
«Sono bambini, amore… Non hai idea di cosa succede qui. A Chittagong la gente ha cominciato a bere acqua salata. È meglio morire col gas nervino». La lontananza aiuta lo spirito di comprensione; comodo così, vorrebbe rispondergli; gli ricorda che la corrente è aumentata ed elenca le rate mancanti dei finanziamenti ancora aperti. «Dobbiamo vendere la casa; questa ha due bagni, non possiamo permetterceli, l’acqua costa come mantenere una macchina. Ci iscriveranno ancora nel registro dei cattivi pagatori» la voce di Flora si assottiglia, incespica in un
groppo di saliva.
«Il mese prossimo torno, stai tranquilla» tampona lui.
«Quindi?». Flora si sventola il collo imperlato di sudore. Passa oltre, prova a ricomporsi. «Quanto sei vicino al casino? Ho sentito che dei caschi blu sono morti».
«Ci hanno evacuati prima che venisse giù la diga, gli americani ci hanno trasferiti in Bhutan, ma tra un pò se ne andranno anche da qui. Ora che gli indiani hanno perso il fiume, vorranno i ghiacciai, e qui siamo sotto una montagna che è tutta un ghiacciaio. Nessuno si sprecherà per il sultano, gli indiani hanno già violato la spazio aereo, io però sarò già a casa quando si sposteranno qui. Ho una bella notizia, però».
«Quale?».
«Sta piovigginando».
Camilla Pasinetti nasce a Novara nel 1994, manifesta il bisogno di muoversi con ventotto anni di anticipo su quello di scrivere, maturato forse durante le lunghe notti di scalo per risparmiare sui biglietti.
Ad oggi ha pubblicato un solo racconto, su Atomi di Oblique Studio, ma combatte ogni giorno per tenere in vita il frigorifero, l’appartamento vivibile, alimentarsi sprecando il meno possibile, e, soprattutto, lavora sodo per tenere il passo dei barbari rincari dei biglietti aerei.
In copertina: digital collage by Riccardo Bettazzoni

