Di Maria Teresa Rovitto
Cosa fa di un testo un evento destinato a restare? Una testimonianza della statura autoriale di chi, per forza di scrittura, lo ha lavorato nella fede, nel sacrificio? L’eco che lascia la lettura.
Vincitrice del Premio Ceppo, diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, nella categoria Racconto Opera Prima under 35, Giulia Oglialoro, già autrice di racconti e reportage che hanno stabilito la misura del suo talento, ci consegna il suo esordio, Le stelle nere, edito da Industria & Letteratura nella collana L’invisibile curata da Martino Baldi, dedicata alla narrativa breve (ma non troppo) come precisa la stessa casa editrice.
È un testo che si presenta come un passaggio in diversi aspetti: un passaggio è l’evento narrativo che mette in scena, ovvero due donne che fuggono dall’Austria occupata dai nazisti per raggiungere l’Italia attraverso i valichi montuosi; un passaggio, dunque, di due destini individuali nella grande storia; infine, un passaggio di stato, di forma, della loro condizione terrena, una trasformazione alla quale si arriva attraverso la giustapposizione di ricordi, sogni, incontri, al cospetto di quell’indicibile che più stride nei momenti di terrore e di speranza.
Gli esuli sono le presenze fantasmatiche che non rinunciano ai loro corpi viventi, che resistono al passo sostenuto di una fuga, che interrogano il senso ultimo della nostra esperienza umana, disposti a farsi ossa e pelle, assottigliarsi, per divenire invisibili alla violenza della caccia. Nel testo l’effetto di luce di quei corpi viventi è restituito dal ricordo della vita passata, cambiata in un giorno, di quei momenti che Agnes, una delle due donne, prima ballerina dell’Opera di Vienna, consacrava alla danza; le visioni coreutiche fanno scorrere nel suo corpo quella forza animale che è potenza vitale, una dimensione ancestrale che rimanda al principio, a quella fiamma che non si è ancora spenta. Solo la memoria di quei movimenti organici possono avvicinarla all’interezza dell’io, un io ora lacerato, scomposto, costretto. È da lì, da quel tempo, che ora cerca di cavare il nutrimento necessario a restare in vita, consumata, ma in fuga, non ancora morta, morente.

E forse è solo così che si può tornare sui luoghi dei morti, così come fa l’autrice, concentrata a salvare i momenti di vita che risplendono in un mondo infero, correndo il rischio di collocare la narrazione in una realtà storica inimmaginabile.
«Ma sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente. Come, allo spirare della vita, si mette in moto, all’interno dell’uomo, una serie di immagini – le vedute della propria persona in cui ha incontrato sé stesso senza accorgersene –, così l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi, e conferisce a tutto ciò che lo riguardava l’autorità che anche l’ultimo tapino possiede, morendo, per i vivi che lo circondano. Questa autorità è all’origine del narrato» (1).
Così fa la lingua che dà forma a questa narrazione: si muove nelle ombre, si fa amica delle ombre, per cogliere, poi, all’improvviso quei lampi di luce e di buio che quando si manifestano incidono la pagina con un linguaggio vicino a quello della pittura. La scrittura di Oglialoro è un’incisione della materia solida, procede per mezzo dell’esperienza del bianco e del nero che plasma la descrizione del paesaggio montuoso e boschivo, dei volti, del pensiero. Una scrittura plastica, dove risuonano assonanze e consonanze in uno spazio di chiaroscuri che solo può assorbire le espressioni della soggettività di uomini e donne nel panico della fuga. Una parola che in molti passaggi diventa una preghiera liturgica, invoca, evoca, genera senso con i toni più gravi di un racconto notturno. Ogni narrazione è un territorio. L’immaginazione dell’autrice ne esplora la latitudine, la sua lingua ne sviscera la profondità.
Corpi di esuli affratellati alle bestie per mezzo di continui richiami simbolici e sacri ai momenti della vita domestica di un tempo, quando le bestie che si lasciavano macellare, sezionare, venivano segnate dalle stesse ferite profonde che ora aprono di dolore le due figure femminili.
L’autrice non cede mai alle tentazioni speculative fini a sé stesse, ma resta sempre centrata sulla materia, sulla vicenda, interiore quanto esteriore, connettendo i due mondi attraverso continui piani di urgenza, dove la morte impera su ogni pensiero alterando la percezione di prossimità e distanza dall’altro e dalla vita precedente.
L’anima inferma sente ancora una connessione con quella natura – boschi, sentieri di montagna, il cielo stellato– che se da un lato nasconde e protegge, dall’altro ostacola, impedisce? Il sonno si fa filo connettivo tra sensazioni contrastanti; molte sono le scene in cui le due donne si abbandonano al sonno, sono cinte dal sonno, per riposare, ma anche per perdersi: nel sonno si recuperano le forze e al tempo stesso è il momento in cui si è più vulnerabili, esposti ai pericoli. Hypnos (Sonno) e Thanatos (Morte) sono gemelli.
È molto più difficile rappresentare un inferno esistito che un inferno immaginario.
Giulia Oglialoro ha il coraggio, forse l’esigenza, di esplorare con la scrittura macchie scure della storia, i danni permanenti inflitti, e lo fa creando un’elaborata geografia di soglie che nelle ultime scene riportano alfantasma materno, al ricordo di una madre da parte di una figlia in fin di vita, a quell’inizio che pure è legato al mondo ctonio. Nella realtà, unica via di accesso alla vita biologica che diventa spesso nelle nostre immaginazioni, e qui nel piano finzionale, anche unica via di uscita dalla vita.
Una grande prova questo esordio che merita una lettura attenta e consapevole dei moti del trauma che contiene.
Note
- W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov (1936), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 247 citato in Georges Didi-Huberman, Uscire dal nero. Con tre testimonianze di membri del «Sonderkommando» di Auschwitz-Birkenau, a cura di Francesco Fogliotti e Carlo Saletti, SE, 2023, Milano, p. 39.
In copertina: Liminal deity by Julia Soboleva

